L’anonima, che in un ultimo, tormentato (per molte ragioni, tecniche in primo luogo) colloquio telefonico consuma quel pochissimo che resta di un’infelice storia d’amore, è un personaggio che ha sempre attratto quelle cantanti, che sogliono definirsi declamatrici. Spesso si crede che le ragioni della declamazione contrastino con quelle del canto o, addirittura, che le prime richiedano il superamento delle seconde. Tra le massime declamatrici del ventesimo secolo Magda Olivero rammenta, nelle tante interviste e quel che più conta, con l’esempio, come solo un ferreo controllo di respirazione e sostegno (vale a dire la base del canto professionale) permetta di servire il testo, poetico non meno che musicale. L’Olivero si è prodotta spesso nel monodramma di Poulenc, proposto tanto nell’originale francese quanto nella traduzione italiana. Nei due casi non possiamo che ammirare la dizione scolpita, nitida, la capacità di distillare un suono sempre proiettatissimo e lancinante anche nei numerosi piani e pianissimi, fondamentali nel comporre il ritratto di una donna che, reduce da un tentativo di suicidio, ha cessato di lottare, rassegnata alla conclusione di un rapporto ormai logoro, ma ancora fatalmente innamorata di un uomo che ha da gran tempo smesso di provare per lei qualcosa di più che un vago senso di colpa. Più ancora che in Denise Duval, creatrice della parte, che riascoltata oggi risulta, seppur elegante, un poco leziosa, ben più che nelle interpreti successive, nella migliore delle ipotesi pallide imitatrici di cotanta arte del dire, e mancando di termini di paragone quali Ninon Vallin o Fanny Heldy, il parallelo di una simile prova va ricercato in due grandi attrici di prosa, che sul grande schermo proposero, dirette da registi profondamente innamorati delle loro primedonne, l’antieroina di Cocteau.
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