Nella ridda di cancellazioni, annunci, sostituzioni dell’ultim’ora, scandali più o meno al sole, primedonne stizzite, favori ad amici/nipoti/parenti, geremiadi e suppliche che caratterizzano l’odierno panorama della gestione nostrana degli enti teatrali, è passata in sordina una brutta storia. La Royal Concertgebouw Orchestra ha annunciato che, in assenza di un aiuto statale, sarà costretta a “chiudere bottega” già nel 2016. Alla tentazione di cedere ai profeti del “mal comune mezzo gaudio” – che già tentano di mettere tutto nello stesso calderone per edulcorare l’attuale stato dell’arte nazionale in un provincialissimo “tutto il mondo è paese” – si oppone la necessità di marcare innegabili differenze tanto negli effetti, quanto nelle cause, cogliendo l’occasione per una riflessione di puro pessimismo. Non è il caso di ripercorrere la gloriosa storia di questa prestigiosissima, né mi sembra il caso raccontarne l’eccellenza e l’importanza (bastino i nomi di alcuni suoi direttori: Willem Mengelberg, Bruno Walter, Eugen Jochum, Bernard Haitink, Mariss Jansons). Chiunque ami la musica, conosce la Royal Concertgebouw Orchestra. Eppure – scrivono – è a rischio di chiusura. Perché? Qui iniziano le differenze con il caso Italia. L’orchestra olandese ha dichiarato un’esposizione debitorio di 800.000 €: più o meno il costo di una messinscena à la page di quelle che girano ultimamente. Inutile dire che un deficit di tale entità sarebbe visto, in Italia, come un importante traguardo sulla strada del risanamento, insomma un obiettivo da raggiungere e una prova di gestione virtuosa. Ma – dicono molti – questo dimostrerebbe che senza aiuto di stato la cultura affonda ovunque e che dunque la situazione italiana non è un’anomali e, in fondo, i mammasantissima che reggono i nostri teatri si comportano come tutti i loro colleghi europei e bla bla bla… “Errore vostro onore”…già, perché le cose sono TOTALMENTE diverse: in Italia, infatti, gli enti sperperano i milioni di euro che lo stato regala e con cui si compra poltrone su cui insediare compagni di merende, amici di amici, o trombati illustri, mentre nel caso di Amsterdam il problema è di integrare discretamente un minimo contributo pubblico con i meccanismi di fund raising privato. Taccio poi di certi festival o teatri che dragano la maggior parte dei fondi per mantenere un numero enorme di dipendenti e “clientes” (con la connivenza di sindacati, partiti, associazioni…). Non è la stessa cosa. Ma pur con queste differenze sostanziali, la vicenda di Amsterdam porta una triste m0rale: è preoccupante che un’istituzione di tale grandezza, con gloriose tradizioni e uno splendido presente (Mariss Jansons è uno dei pochi grandi direttori del nostro tempo), abbia difficoltà che minacciano la sua stessa sopravvivenza. E’ un segno dei tempi, forse: tempi in cui si è perso il gusto del bello, in cui si sta esaurendo lo spazio per le diverse peculiarità dei suoni orchestrali (ormai le orchestre si assomigliano tutte nel folle perseguire il tipo di suono più fonogenico possibile – stile Berliner – smussandone i segni distintivi ed identitari), in cui l’esperienza d’ascolto è valutata sulla spettacolarità del sound (e della tecnica d’incisione). Tempi che paiono non esser fatti per la bella musica: che i pubblici sempre più generalisti non riescono neppure a cogliere nel prediligere l’evento (a tutti i costi) ai suoi contenuti. Un pubblico deficiente, perché letteralmente mancante di quella consapevolezza necessaria ad apprezzare il bello. Altro che deficit!
Un pensiero su “Kultura 3: deficit e deficienti.”
Lascia un commento
Devi essere connesso per pubblicare un commento.
Bisogna decidersi. O i teatri riescono da soli a tirare la carretta o finiscono sotto il controllo statale. La via intermedia non esiste. In Italia seguiamo coerentemente la seconda via, quella del finanziamento pubblico, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: molte certezze al prezzo del decadimento artistico.