Ci siamo chiesti se la compilation rispondesse ad un qualche criterio di quelli che oggi va di moda utilizzare ( che so le Arie di Rubini , omaggio a Maria Malibran mica la povera Callas o la Caniglia) per ammantare di cultura o pseudo tale il solito recital dove vengono mescolati brani del repertorio del cantore più qualche inedito. L’unico criterio che nella nostra ignoranza abbiamo trovato è che si tratterebbe di autori legati in un qualche modo – natali, studio, luogo di rappresentazione dell’opera- al capoluogo partenopeo. Francamente pochino e quindi non trattasi di recital ispirato ad un comune criterio, ma di mesedozz come si dice a Milano. In altra occasione abbiamo usato il termine pastone, ricordando il cibo che veniva preparato per armento e pollame da svezzare. Ogni locale idioma ha il suo pregnante e spesso onomatopeico pezzo. La capinera di Lombardia ossia donna Giulia Grisi a quello della propria terra si richiama.
Maria Stuarda: Preghiera. In mezzo a tanta raffinatezza ed esotismo di scelte mi domando per quale motivo, a maggior ragione se l’ispirazione sia Napoli come ha desunto Giulia Grisi, il senso di proporre al Maria Stuarda, che come tale ebbe la prima a Milano, e non già Buondelmonte che fu il titolo cui la censura borbonica impose di “trasformare” la Stuarda. Facezie davanti alla periclitante realizzazione dove il recitativo d’entrate è incomprensibile nelle singole parole e peggio ancora inarticolato, tale da rendere la Sutherland una fine e scolpita dicitrice. La cantante appena sale nel recitativo miagola, evocando la peggio,r ossia la più recente e quasi settantenne, Gruberova e perché il quadro sia completo la cantante, anche se nominalmente iniziò la carriera come mezzo in basso ( Anna ti sola resti) suona aperta e sguaiata, poco più sopra aspre ed ingolata. Con questi vizi e vezzi il recitativo dove Maria celebra e santifica, prima dell’annuario Romano dei Santi, sé medesima è una lagna. Quando arriva la preghiera la cantante annaspa nel legato e stenta costantemente a legare perché il sostegno del fiato o meglio il fiato non è controllato e il disastro conclusivo è rappresentato dal sol acuto tenuto, attaccato fisso alla moda baroccara e a stento rinforzato senza che ci sia traccia di una professionale messa di voce. Domenico Donzelli
Capuleti e montecchi: “Deh tu bell’anima”. Anche qui l’esecuzione dell’aroso di Romeo presso la tomba dellal creduta morta Giulietta è men che scolastica ad onta che la cantante americana abbia cantato più volte Romeo. Inutile evocare fantasmi di storiche realizzazioni come quella di Martine Dupuy, il solidissimo mestiere ed il mezzo opulento di una giovanissima Cossotto segnano il Rubicone fra professionista e non professionista. Anche qui l’attacco è di baroccara ispirazione e di esecuzione da “ ecco il treno” (accelerato ovviamente), i soliti suoni sguaiati ed aperti in zona medio grave (deserto in terra) nessuna articolazione scansione o sprezzatura nell’esecuzione del recitativo e quando arriva l’arioso (centrale e che impone all’interprete per essere tale legato e gioco dinamico) abbiamo un’esecuzione metronomica, pochi colori e dizione confusa (vedasi in particolare suoni indietro “che al cielo ascendi” “a me rivolgiti”, “non puoi nel mio dolore” quando la cantante tenta di cantare piano in zona centrale. Appena sale “ così così scordarmi” “non puoi scordarmi” grida perché non è in grado di emettere suoni morbidi e soffici il suono sopra il re 4. Non oso immaginare che sarebbe accaduto con la ben più difficile aria di Vaccaj o quella di Zingarelli “ombra adorata aspetta”, riguardo la cui esecuzione invito a leggere cosa dicesse Stendhal comparando, se non erro, Pasta e Velluti. Qui avremmo la di Donato. Domenico Donzelli
Saffo “finale”. Se tra cento anni rimassero a comprovare l’arte dell’800 e la sua esecuzione discografica qualche graziosa aria di Cimarosa o Paisiello cantata con quella leziosità da ceramica Capodimonte dalla Sciutti o dalla Tuccari o magari dalla giovanissima Freni e questa scena della Saffo la conclusione sarebbe, smentendo la carta stampata di due secoli, che fra il tardo settecento comico o larmoyant e la matura produzione operistica pre verdiana (Saffo è del 1840) non sussistessero differenze di sorta. A parte qualche clangore orchestrale e l’incapacità a cantare oltre il do centrale del deputato Faone ( l’ultimo di vaglia in teatro fu Augusto Scampini famoso per il poderoso e squillante registro acuto) non abbiamo nessuna differenza. L’ampiezza tragica, il senso del dramma coturnato in una delle sue ultime realizzazioni che impongono e pretendono ( a maggior ragione trattandosi di poetessa chiamata a declamare il proprio ultimo canto) dizione scolpita, accento scandito registro centrale sonoro e compatto qui non esistono e sono derise e vilipese in una esecuzione che potrebbe avere l’ispirazione negli scempi bartoleschi. Il recitativo è farfugliato, mai scandito, la sezione centrale che è il canto vero e proprio, a parte l’accompagnamento da pastori di un presepe napoletano manca di solennità, eleganza, e prima ancora di legato. Sono tutte esigenze interpretative, che si realizzano con il controllo del fiato e un controllo assoluto della prima ottava o meglio ancora del passaggio fra le note più gravi e quelle centrali, che in una simile scrittura ed in un simile contesto drammatico devono essere corpose e sonore. Quando poi arrivano le parche agilità della sezione conclusiva (che ricorda la cabaletta di Elisabetta del Devereux come struttura vocale) la cantante non trova di meglio che accennare e farfugliare, negando con l’esecuzione che si tratti delle cosiddette agilità di forza, inserisce incongruenti battute di conducimento fra le due strofe della cabaletta e corona il capolavoro con staccati in zona centrale ovvero con una delle più tipiche figure ornamentali del soprano di coloratura o leggero, ovvero l’opposto della tragedienne quale Saffo è. Domenico Donzelli
Felice Varesi, che aveva sposato la seconda dei suoi quattro figli (tutti istradati all’arte vocale e tutti di cospicua carriera), la chiamava familiarmente (si fa per dire) “la signora Boccabadati”. Luigia Boccabadati, celeberrima e celebratissima Semiramide, può essere a buon diritto considerata l’imperatrice madre del canto italiano all’epoca della Restaurazione (e non solo: una delle figlie di Varesi insegnò canto a Chicago sino all’inizio del ventesimo secolo) ed è una delle virtuose che la Di Donato e i suoi mentori discografici omaggiano in questo disco. A volte si rende omaggio infinitamente migliore con un bel silenzio. Nell’aria di Amelia da “Elisabetta al castello di Kenilworth” colpisce l’incapacità di cantare piano e legato nella zona centrale della voce, e questo benché la solista sia, almeno ufficialmente, un mezzosoprano. Un miagolio monocorde, con abbondanza di sospiri e smancerie da café chantant più che da opera semiseria, connota un’esecuzione peraltro censurabile anche sotto il profilo meramente virtuosistico. Basta confrontare quanto proposto da una senescente Sutherland in un altro disco, che testimonia, quello per davvero, autentico amore e interesse per questo repertorio. L’aria di Amelia conobbe copiosa fortuna ottocentesca quale aria aggiunta o alternativa, per merito di primedonne che erano fantasiose e attente conoscitrici del catalogo donizettiano. Adelaide Tosi utilizzò il brano quale sortita nella “Fausta”, da lei cantata alla Scala nel 1832, e altrettanto fece Maria Lafon a Venezia nel carnevale 1858-59 e alla Scala un anno dopo. La tradizione è stata seguita, in epoca più vicina alla nostra, da Raina Kabaivanska, nella celebre riproposizione del titolo avvenuta a Roma nel 1981. E proprio la signora Kabaivanska offriamo quale pietra di paragone, impietosa malgrado una carriera più che ventennale alle spalle e una scarsa consuetudine con questi titoli, per l’incisione della cantante statunitense.
Analoghe, se non ancora più funeste sensazioni regala l’ascolto della cavatina di Nelly da “Adelson e Salvini”, prima opera di Bellini, composta quale saggio di Conservatorio. Il brano, come è noto, divenne in una versione abbreviata e alzata di un tono (da fa a sol minore) la sortita di Giulietta Capuleti. Anche qui il sentimento di languida malinconia è veicolato da sussurri e stridii in odore di fissità baroccara, specie nelle note fra il do centrale e i primi acuti (la pagina, per inciso, non passa un si bem), mentre la forma dell’aria strofica con variazioni non ispira alcun gioco dinamico, nessuno scarto agogico in orchestra e neppure, il che è decisamente più grave, nel canto. Conseguenze puntuali di una voce che trova nel microfono il suo più efficace punto di risonanza. Antonio Tamburini
Quando ho letto i titoli di alcuni dei brani offerti nella nuova “compilation” della diva di turno, ho pensato a maldestri refusi o a divertenti errori di trascrizione. E invece scopro che titoli come Le nozze di Lammermoor o l’improbabile Sonnambulo (per tacere della Stella di Napoli, che dà il titolo all’album, ma che più di un titolo d’opera ottocentesco, pare il nome d’arte di una pseudo veggente/cartomante partenopea o di una cantante neomelodica), appartengono a lavori realmente esistiti e dimenticati per un paio di secoli negli archivi più polverosi del civico 35 di via San Pietro a Majella. Mi sono dunque messo all’ascolto cercando di trovare un motivo e un senso alla riproposizione di questi residuati ottocenteschi e francamente non ve n’ho rinvenuto alcuno. Si tratta di titoli appartenenti a quel sottobosco di consumo operistico che costituiva certamente l’asse portante della fruizione musicale dell’epoca, ma che nel migliore dei casi è riconducibile al mero artigianato (buono o cattivo) e al mestiere. L’unica ragione di riproposizione di questi titoli risiede nella curiosità di testimoniare qual’era il livello musicale normalmente offerto dai tanti teatri della penisola, nell’indagare i gusti di quei pubblici così variopinti e di accertare – una volta di più – quanto fossero superiori i vari Bellini, Donizetti e Rossini rispetto al mare magnum dei colleghi che lavoravano nei loro stessi anni (e magari con maggior successo). Ma per dare un senso ad un’operazione culturale occorrono alcuni ingredienti che mi pare il disco fresco di stampa non fornisca: innanzitutto occorrerebbe un filo conduttore reale nella scelta dei brani (che presuppone consapevolezza di quel che si fa), una ricerca musicologica convincente e, last but not least, un’esecuzione musicale particolarmente gratificante (i brani saranno pure privi di ispirazione – anzi sono decisamente brutti – ma prevedono difficoltà reali, essendo scritti per le grandi cantanti dell’epoca). E invece che ascoltiamo? In “Ove t’aggiri, o barbaro” (da La Stella di Napoli di Pacini), è evidente il modello bartolesco: coloratura mitragliata che si limita a “gorgheggiare” tra bocca e microfono, ma che non lascia intendere il senso di nessuna parola. Si apprezza anche il calngore dell’orchestra che l’accompagna…decisamente conveniente, però, all’infimo livello musicale del pezzo, a mezza via tra Bandiera rossa e un pezzo da balera. In “Oh di sorte crudel” (da Le nozze di Lammermoor di Carafa) – la cui lunghezza è direttamente proporzionale alla noia che suscita – il registro patetico e lirico è assai poco convinto e convincente, ed evidenzia impietosamente il difetto di eloquio e l’atteggiamento sempre e comunque riconducibile all’opera buffa e leggera (senza contare i continui bartolismi, i sospiri e piani sussurrati nel microfono etc…). “Se fino al cielo ascendere” (da La Vestale di Mercadante) è introdotto da una serie di accordacci seguiti da un’orchestra trasformata per l’occasione in una specie di organo meccanico (a cui lo stile chiassoso di Mercadante, con l’uso smodato dei legni in inutile raddoppio, si addice molto, per la verità), ma appena parte il canto pasticciato e confuso della diva si vorrebbe che lo strumentale proseguisse ancora, così da non far sentire quella cantilena rallentata e ritmicamente incoerente (il tempo scelto è di esasperante lentezza, totalmente inadeguato) ulteriormente appesantita da portamenti continui nel tentativo di legare le frasi: un moncherino musicale di 5 minuti. Chiudo con “Se il mar sommesso mormora” (da “Il Sonnambulo” di tale Valentini): il brano – un banale recitativo, introdotto da una fanfara bandistica e seguito da un andante su arpeggio che potrebbe provenire dal repertorio neomelodico dell’odierna canzone partenopea – è tra le cose più inutili mi sia capitato ascoltare, e l’interpretazione trascinata e slentata della Di Donato non ne migliora certo la percezione: ancora bartolismi assortiti particolarmente fastidiosi nella gestione della parte più lirica. Insomma, di fronte a un prodotto del genere (che immagino non avrà vendite da capogiro – neppure la Bartoli le fa, figuriamoci la Di Donato – né potrà interessare appassionati di opere rare e titoli inusuali proprio per la frammentarietà della scelta che pare più che altro casuale) non resta che chiedersi cui prodest? Gilbert-Louis Duprez
Con Giulia Grisi siamo arrivati al passo dell’opera che da il titolo al recital. La cabaletta Ove t’aggiri o barbaro dall’opera di Pacini “La stella di Napoli”. Una prima osservazione il senso di incidere una sola cabaletta e non l’intera aria. Lo fece, se non mi sbaglio nel 1968 Marylin Horne con i palpiti del Tancredi nel recital dedicato alle sorelle Garcia e venne criticata per la scelta. Non già per l’esecuzione. Qui siamo dinnanzi ad un doppio scempio musicale ed esecutivo. Il “dove t’aggiri o barbaro” è la cabaletta, per giunta privata del coro della sortita della protagonista, che si compone, come di tradizione anche in un titolo del 1845 di recitativo andante (definito andante affettuoso) languidamente fiorettato e pure di tessitura abbastanza acuta e di una vispa ed acrobatica cabaletta. La parte fu pensata per Eugenia Savonari Tadolini, che in uno con Giulia Grisi fra il 1835 ed il 1850 fu una delle cantanti cui più era consono il canto di agilità con dovizia, nei tempi veloci, di note puntate e trilli. Il testo e la situazione drammatica sono la consueta aria di dolorosa ricordanza dell’abbandonata e cornuta di turno, che reclama il perduto amore animata anche da un blando sentimento di autodistruzione come evidente nello slancio della cabaletta. Sentiamo, invece, accompagnata da una fragorosa bandaccia un brano, che chi non si prendesse la briga di decifrare la partitura manoscritta penserebbe essere un brindisi affidato ad un personaggio di contorno o un passo di Suppé o una stretta tratta dalla Piedigrotta dei fratelli Ricci. La solita dizione pasticciata e confusa che non consente di capire il testo, in un passo ornamentale (che è poi lo sviluppo di un segno di mezza corona) la signora di Donato l’esegue “un tanto al tocco” e con un bel fiato in mezzo ed una scala ascendente eseguita in falsettino, ma quando arrivano le reiterazioni, in ritmo puntato, “vieni vieni” si ha la sensazione di un’aria alternativa di Norina e non certo del dolore e dell’anelito d’amore. Splendido perché rende l’idea dell’ironico e non del tragico il suono d petto sulle parole “moro” e trattasi di si centrale quando è chiaro che il “moro” è disperazione. L’interpolazione in una parte schiettamente sopranile (ricordo che Eugenia Tadolini fu con la Grisi il prototipo del soprano assoluto) di note gravi, emesse maldestramente con certo sapore comico grottesco denota cattivo gusto e mancanza dei minimali criteri musicali e filologici ormai pacificamente accolti e condivisibili. Giulia Grisi
Il Rondò finale di Zelmira dovrebbe essere introdotto da un’introduzione orchestrale e prevedrebbe nello spartito la prescrizione di “Maestoso”. L’orchestra suona invece una marcetta isterica, secondo i dettami della moda baroccara imperante ovviamente. Nella prima frase la signora Di Donato vorrebbe avere l’accento appropriato, ossia nobile e grandioso, ma si ferma, di fatto, alla mera intenzione poiché allo stato attuale presenta una voce divisa in tre tronconi, con il classico “buco” al centro di chi non sa eseguire bene il passaggio di registro. Il centro è, infatti, sordo e difficoltoso, affetto da totale incapacità di legare, precludendo ogni possibilità di emettere suoni sicuri in zona centrale, rendendo impossibile qualsivoglia intenzione di fraseggio nobile o di avere ampiezza. Le buone intenzioni, in ogni caso, si fermano alla sola prima frase, poiché già da “Pura fede” torniamo nel mondo dell’estetica baroccara attuale, con accenti zuccherosi e melensi, una sequela di suonini falsettanti tendenti a essere spoggiati e, come già evidenziato, la palese difficoltà, se non la vera e propria impossibilità di legare i suoni al centro, che qui suonano talvolta anche aperti, e di eseguire con precisione le figure ornamentali. A tal proposito vale la pena segnalare lo scoglio di “no più affanni in me non sento”, dove la voce mostra tutta la propria disomogeneità su una porzione di pentagramma non certo stratosferica ma strategica al saper cantare bene, o delle successive quartine di “trono”, risolte nell’ultimo passaggio con l’ausilio di staccati di dubbio gusto, spacciati per variazione. Ancora degli staccati stile Rosina liberty ci vengono propinati nella cadenza, orpelli già definiti “kitsch” e “liberty” da penne più blasonate nel trattare la storia interpretativa di Rosina, che non avrebbero appunto niente a che fare con Rosina secondo la filologia e, dunque, men che meno con Zelmira, con il Rossini napoletano, con la prima interprete e con il mondo operistico cui questo disco vorrebbe (?) rendere omaggio. Arrivati alla cabaletta, la coloratura è spesso aspirata e “a macchinetta”, sul modello di Cecilia Bartoli, veloce ma mai sgranata e soprattutto mai di forza, fattore che dovrebbe essere la condizione imprescindibile di qualsiasi esecuzione rossiniana credibile, mentre i trilli sono semplicemente abbozzati. Nel da capo le variazioni sono musicalmente di dubbio gusto, anche se qui, come per miracolo, ci vengono risparmiati staccati e picchettati che la Diva aveva già ampiamente sparso nel finale di Donna del lago (evocando più i fasti di Lucia Aliberti che di Isabella Colbran). Grotteschi gli interventi di Ilo e Polidoro, da censurare.
Insomma, si è parlato per anni e anni della vocalità della Colbran, credendo di trovare la soluzione ideale in cantanti nominalmente mezzosoprani cui affidare questi ruoli, per poi avere tutta una generazione di cantanti che ha disimparato totalmente a cantare al centro e che è dunque impossibilitata a esprimere alcunché in questa zona vocale, dove purtroppo però gravitano perlopiù questi ruoli.
Pur con tagli e una certa imprecisione nelle agilità, basta fare il confronto con la Virginia Zeani della prima ripresa moderna dell’opera a Napoli nel 1965 per ascoltare un centro in ordire e cosa voglia dire avere la capacità di accentare in zona centrale, ma anche la stessa Devia, non dunque un soprano avvezzo per natura a cantare ruoli centrali, aveva un centro molto più in ordine e omogeneo col resto della gamma vocale di quanto mostrato in questo brano dalla signora Di Donato. Adolphe Nourrit
Gli ascolti
Pacini: Saffo – L’ama ognor – Eugenia Burzio
La DiDonato non mi piace per il poco controllo che esercita nel registro acuto e il vuoto nel registro medio. Circa il recupero di opere semi-sconosciute, va di moda in questi anni portare alla luce opere rappresentate una o due volte, quindi, più che un’operazione culturale è un’operazione che ‘fa notizia’.
(Se sbaglio qualcosa non linciatemi, non sono un melomane di lunga data, non quanto voi, almeno)
Propongo di lasciare in pace il nome dei musicisti nella scelta del nickname.
Facciamo invece che qui i miei ospiti fanno ciò che gli aggrada in fatto di nick. Puccini, benvenuto !
Io sto riascoltando il Tancredi veneziano con la Horne e la Cuberli. Di Donato chi? E chi se ne frega di sta scartina?
Una recensione così divertente è da un bel po’ che non la leggo! Grazie delle risate fatte, però, con un velo di tristezza pensando alla verità delle vostre parole e che questa è considerata una ‘dea’ del bel canto!
Agli albori della mia passione musicale registrai dalla Radio (la Rai di allora) queste cosucce: Capsir: vien diletto; Pacetti Norma finale; Lauri Volpi si pel cielo; Basiola Otello; Cigna l’amo come il fulgor..; Basiola dal figlio prodigo.. Rasa suicidio; Pampanini la mamma morta; Toti dal Monte Oh luce di quest’anima; Basiola Vision fuggitiva; Bergonzi giorno di pianto; Pertile-Franci invano alvaro; Olivero donde lieta uscì; Zaccaria-L.Price don giovanni; idem Berri Waechter; L.Price-Valletti vendetta ti chiedo or sai che l’onore.
Questo contiene il mio primo nastro AGFA.
Per quanto poi abbia frequentato teatri di ogni dove, scusate ma non ricordo questa Fatale Di Donato, mentre il secondo nastro contiene Kiepura (in tedesco e italiano, Marta Eggert, Tauber, Cerquetti,Pirazzini,P.de Palma,Petre Munteanu, e così via (ricordo che era la Rai degli anni ’60 che mi istruiva).
Che vi posso dire: un disco come questo non ne sento il bisogno.
Ancora una volta il musical stinge sull’opera lirica.
Mi chiedo cosa spinga una potenziale star di Broadway ad avventurarsi per sentieri che menano al disastro: un ennesimo tentativo di “salvare” il melodramma da se stesso?
Non la vogliono a Broadway! Hanno ancora orecchie per ascoltare da quelle parti! È la lirica che è diventata la pattumiera che accoglie spazzatura, ricicla e voilà… si diventa ‘divastar’, maestra e milionaria!
Dire che nel campo della “musica” leggera abbiano ancora le “orecchie per ascoltare”, equivale a sostenere che tra gli adoratori di satana ci sia ancora religione.
Non ho detto musica leggera… Ho detto Broadway. Tutt’altra cosa!
Non cambia, il musical rientra nella leggera, sono amplificati e cantano alla maniera poppettara… Vade retro!
http://youtu.be/X0aV-gXIMCg
@mancini… No, è un altro mondo. Comunque se tu la vuoi pensare così, va bene.
Sì, è vero, microfonati tutti ormai, inclusi i cantanti lirici!
Per er gratta: grazie, sei gentile. Tutto ok cmque.
Fra la polvere di cinque stelle cadenti che la critica “militante” va accumulando su questo cd da tre soldi, si segnala come sempre per abiezione Elvio Giudici. Lo si può leggere integralmente sul sito di Classic Voice, ma la cosa più bella è la conclusione “teorica”.
Cito:
“La vocalità moderna che, piaccia o non piaccia, è adesso orientata su moduli e accenti che non mettono più in primo piano la nota in quanto tale, con tutti i polverosi schemi e dunque classificazioni di cinquant’anni fa: fare le note è solo punto di partenza per raffigurazioni più complesse, sfumate, in una parola teatrali di quanto costumasse un tempo. Quando gli incasellanti non avrebbero saputo dove collocare bene questa voce (mezzosoprano? falcon? soprano corto, soprano lungo, mezzosoprano “sfogato”? che palle) e probabilmente sono gli stessi che oggi ancora istituiscono confronti coi defunti o i pensionati, non vedendo la magnifica realtà rappresentata – qui e ora, supportata per giunta da un’ottima direzione – da questa magnifica voce che a ciascuna sua comparsa riesce a dire qualcosa di nuovo e soprattutto che vale la pena ascoltare”.
Vi fischiano le orecchie, o Grisini che non avete occhi per vedere la magnifica realtà di questa sgallettata vestita a festa?
Cordiali saluti
Le nostre orecchie non fischiano, stanno benissimo e grazie al cielo ci sentiamo anche piuttosto bene.
Forse fischieranno certi apparecchi acustici… 😉
Quanto al critico, che lo fa di professione e quindi tenuto a scrivere e giustificare certe nefandezze, prima di tutto lo ringrazio e lo saluto perchè citandoci dimostra di leggerci con passione e ci dona l’importanza che meritiamo, in secondo luogo, il signor Giudici dovrebbe avere l’accortezza, prima di scrivere certi “refusi”, di aprire il suo malloppone ad una pagina a caso e noterà, con sommo stupore presumo, che il primo INCASELLANTE a proporre moduli e accenti, classificazioni vocali, CONFRONTI anche schiaccianti, piagnistei sui tempi d’oggi ed i bei giorni aurati del passato, sia proprio lo scrittore del pezzo da te citato, la stessa persona che oggi fa a gara di incoerenza e inaffidabilità per smentire se stesso ed i suoi scritti.
Non stiamo parlando di 50 anni fa, ma del 1998, l’altro ieri, e non si tratta di “evoluzione fisiologica del gusto”, ma di adeguamento giustificatorio e acritico a quel miserabile convento sul quale il critico-incasellatore versava lacrime e rabbia, e che ora (vedi il giudizio sulla grigiastra, stonata e secca Joyce e non solo) diventa “magnifica realtà”.
Tutto molto prevedibile e un filo patetico, ma la sua penna la conosciamo e la cosa non ci stupisce, perchè c’era banalmente da aspettarselo.
Ah, la poltrona in platea…
Cordiali saluti
Quella della Di Donato non è una voce ambigua o anfibia che dir si voglia, è solo la voce di un soprano che, adeguatamente collocata nella maschera e se la sua possessora non fosse, ben prima della cinquantina, già sfasciata, canterebbe Mimì e Violetta (ricordo un Barbiere del Met di alcuni anni fa in cui alla scena della lezione la cantante interpolava una citazione del finale primo di Traviata – ed era la cosa migliore della recita). Siccome però il mercato delle voci è quello che è e l’onestà e l’intelligenza di chi lo gestisce e manutiene sono, del pari, quello che sono, per definire (quel che resta del)la voce della signora si spendono parole che in altri tempi sarebbero state utilizzate per Grace Bumbry o Shirley Verrett. Attendiamo la Carmen e magari l’Amelia e la Lady della signora Di Donato, a questo punto. Sul tono del pezzo di CV non mi esprimo, rischierei di scendere al medesimo livello e me ne dispiacerebbe per i nostri lettori.
Grazie lizzy per la segnslazione. Amo la tua penna elegante! A presto
Ma il sullodato E.G. non era coslui che – se ben rammento il pezzo che avevo in illo termpore letto – anni fa scriveva essere una disgraiza che nei conservatori italiani si insegnasse il canto e non il “teatro musicale”? (domanda retorica che vuole risposta affermativa)
Non è colui che inneggiava alla Cecilia B. in ogni modo possibile ed immaginabile, scrivendo cose che manco la pubblicità Decca osava?
Non è colui che, recensendo, magari, la Simionato o la Barbieri, piuttosto che la Berganza o la Valentini Terrani, nel suo noto libreo sull’opera in disco si chiedeva quali meraviglie avrebbe potuto fare la C.B. al loro posto?
Non è colui che – commentando le messe in scena delle opere in inserti illustrativo di video o CD – usava termini schifati nei confronti di quelle che ripugnavano alle sue idee di modernità, e di pietosa sufficienza nei confronti delle “povere anime candide” che volevano ancora vedere Rigoletto in abiti cinquecenteschi, Tosca ambientata a Roma nel 1800, o Lohengrin con il cigno?
Allora, non c’è da stupirsi di niente.