Dopo il naufragio di Armida, naufragio che neppure le penne in ogni senso più amiche e prossime al Festival hanno avuto il coraggio di celare, tentando però in ogni modo di mitigarne la portata e circoscriverne le responsabilità ai soli esecutori, e segnatamente alla protagonista, e non già a chi abbia selezionato i medesimi per uno dei titoli più onerosi del Rossini napoletano; dopo una siffatta debacle, c’era in Pesaro, per parafrasare i commenti di mamma Rai, una gran voglia di successo riparatorio e in qualche misura assolutorio, una sorta di Tantum ergo da recitarsi in favore delle sorti del Festival e per la salute dell’anima degli astanti tutti. Siccome il titolo allestito ieri sera era tra i più amati del catalogo rossiniano e gli esecutori tutti giovani (benché alcuni in carriera già da un decennio o giù di lì) e di belle speranze, riparazione doveva essere e riparazione è stata. Un po’ come dopo la catastrofe (in tutti i sensi) del Mosè in Egitto edizione 2011, cui seguì unanime consenso per la farsa allestita la sera successiva. Con l’importante precisazione che il consenso era circoscritto, in quell’occasione come in quella di cui andiamo a riferire, al pubblico presente in sala, ché i commenti sorti spontaneamente altrove erano di ben diverso tenore. Ieri sera ha dovuto, a denti stretti, riferirlo anche l’emittente nazionale, dando conto di sms inviati dagli ascoltatori (nonché finanziatori della serata a mezzo del canone Rai, nonché delle tasse) decisamente critici nei confronti degli esecutori, su tutti direttore, tenore e ensemble corale. E anche ieri sera, come in tante altre occasioni, si è scelto di non rispondere nel merito alle osservazioni ricevute, e di applicare piuttosto il vecchio metodo del “frustare la sella per risparmiare il cavallo”. È stato osservato, nel dettaglio, come la calura agostana in Pesaro sia in questi giorni davvero terribile. In anni neppure così remoti una simile annotazione sarebbe prontamente finita in una celeberrima rubrica del glorioso periodico “Cuore”. Più modestamente, osserviamo come temperature elevate siano la norma, e non già l’eccezione, nei giorni in cui da sempre si è svolto il Rossini Opera Festival e che un’adeguata climatizzazione delle sale di spettacolo e dei locali adiacenti sarebbe cosa giusta e opportuna. Anche se, temiamo, non risolutiva dei problemi evidenziati dalle rappresentazioni di questi giorni.
Abbiamo già osservato più volte, e ci scusiamo se risultiamo ripetitivi e banali, che la sussistenza di una manifestazione festivaliera come il Rof (ma il discorso varrebbe, con gli opportuni aggiustamenti, per tutti o quasi i festival estivi, dall’Austria alle Puglie) si giustifica per il fatto di proporre qualcosa che non s’incontra, o ben difficilmente s’incontra, nelle ordinarie stagioni teatrali: titoli caduti nell’oblio (magari non senza fondata ragione), presenza di interpreti, già di riferimento nel repertorio considerato, alle prese con debutti assoluti o almeno europei, scelte testuali che siano la conseguenza di rinnovati studi sulle fonti e presentino carattere di novità, se non rivoluzionaria, almeno tale da gettare nuova luce su composizioni e prassi esecutive. Scorrendo la locandina di questo Barbiere pesarese appare di tutta evidenza che nessuna delle circostanze sopra richiamate è presente all’appello.
Il titolo viene proposto, è vero, nella nuova edizione critica predisposta da Alberto Zedda, ma la medesima era già stata impiegata in Pesaro tre anni fa, per un’esecuzione in forma di concerto diretta dallo stesso Zedda e con il medesimo protagonista maschile. Che non è, a dispetto della vulgata corrente, Figaro, bensì il Conte d’Almaviva. Non che un siffatto protagonismo possa emergere dall’esecuzione di Juan Francisco Gatell, che al centro apre i suoni stile Mafalda Favero ultima maniera, in acuto risulta periclitante, sovente anche stonato (soprattutto quando tenta di cantare piano, come all’attacco “A mezzanotte in punto” al quintetto) sulla zona del secondo passaggio e s’impantana miseramente sui passi di agilità del conclusivo rondò. Quello che direttori, per i quali oggi è di rigore la lapidazione virtuale, saggiamente cassavano, non disponendo di esecutori adeguati al compito.
Le voci gravi maschili sono, tutte indistintamente, debitrici della più frusta tradizione (questa sì, deleteria e nociva alla fama dell’autore come alle orecchie degli ascoltatori) di un Rossini cantato (si fa per dire) tra lazzi e cachinni di dubbio gusto, e quel che è peggio con voci ora chiocce e parlanti, ora legnose e bitumate, con centri allargati a simulare inesistente spessore e, di conseguenza, acuti di volta in volta ghermiti o urlati (tanto che il Don Basilio, Alex Esposito, deve ricorrere al tradizionale, e giustamente censurato, abbassamento di un tono per eseguire, peraltro con scarsa verve, l’aria della Calunnia), sillabato inesistente (Paolo Bordogna, che in un’intervista trasmessa nell’intervallo ha dichiarato di avere inteso spingere la voce oltre i suoi confini, arriva col fiato corto in fondo a “A un dottor della mia sorte”, mentre il giovane baritono francese Florian Sempey, annunciato come la rivelazione del Festival, stenta praticamente in ogni passo che chiami in causa questa abilità, a partire dalla cavatina per culminare nel terzetto con Rosina e il Conte, con esecuzione a dir poco abborracciata della parca coloratura prevista). Solo la generosa e fresca natura distingue un poco dai colleghi di sventura la Rosina di Chiara Amarù, che come già in Cenerentola (Ferrara 2014) e nel Malcom pesarese dello scorso anno ghermisce e sibila i passi di agilità in stile baroccaro, risultando ingolata in basso, fissa e sovente stonata in alto. Sua degna partner la Berta di Felicia Bongiovanni, mezzo soprano nell’accezione proto ottocentesca del termine, che induce a rimpiangere il solido professionismo di Gabriella Carturan, Anna di Stasio e Stefania Malagù.
Ma la vera “mazzata” è arrivata dai complessi orchestrali e corali e da chi era deputato a guidarli nel rispetto della musica e dello stile rossiniano. L’Orchestra del Comunale di Bologna era allo stesso livello del Coro San Carlo di Pesaro, compagine nata alla fine degli anni Settanta come corale di una parrocchia della cittadina marchigiana e che, per quel che abbiamo sentito, ben poco si distingue ancora oggi dai complessi che animano le funzioni religiose nei luoghi di culto e che in estate, magari, sfilano per le vie del borgo recando in ostensione l’effige del patrono locale. Giacomo Sagripanti stacca tempi adeguatamente brillanti ma non riesce a sostenerli, perdendo sovente la coesione fra buca e palcoscenico, cavando dagli archi suoni, che evocano le proverbiali corde del bucato, e generando nei crescendo (che partono peraltro sistematicamente dal mezzoforte, e non già dal pianissimo) solo ulteriore confusione e sbandamento, tanto nella fossa quanto fra i cantanti. Quanto alle variazioni predisposte, o almeno approvate, dal direttore, non possiamo che sottolinearne le velleità, anche perché con simili esecutori sarebbe risultata problematica anche un’esecuzione letterale di quanto previsto dalla partitura. Per tornare alla prova del direttore, abbiamo sentito in Pesaro, anche in anni recenti, ben di peggio. Ma la circostanza non basta a rivalutare la direzione, né a qualificarla di grande prova rossiniana, come qualcuno ha già tentato di fare.
Tra pochi minuti, terza tappa di questo Rof 2014: Aureliano in Palmira.
2 pensieri su “Sorella Radio. ROF 2014: il Barbiere “della riparazione”.”
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La vera riparazione e’ stata il concerto della Podles dell’altro ieri. Ha avuto una vera ovazione per la cavatina di Ciro!!
Il concerto della signora Podles merita, assieme agli annunci e ai rumors sul cartellone 2015 e sui futuri, ampia riflessione. Pazienza ancora per qualche giorno