Quando nel 1723, dopo lunghi decenni di instabile pellegrinazione nella provincia francese, Jean-Philippe Rameau giunse definitivamente a Parigi, si trovò subito coinvolto nei vivaci dibattiti culturali che animavano da tempo la capitale francese. In tali polemiche, che interessavano ormai diversi campi del sapere, dalla politica alla religione, dalla scienza alla filosofia fino a questioni di natura più squisitamente musicale ed estetica, si scontravano le tendenze rivoluzionarie di una nuova cultura amica della ragione, alla quale iniziarono ad opporsi fin da subito le violente e tenaci resistenze dei difensori della vecchia concezione culturale. Questo scontro culturale, noto come la querelle des anciens et des modernes, era già iniziato da alcuni decenni, precisamente dal 1687 dopo una lettura presso l’Académie Française del poema Le Siècle de Louis le Grand di Charles Perrault, nel quale veniva affermata l’autonomia e la dignità della letteratura francese moderna in contrasto con la letteratura greca e latina. Tale pretesa supremazia si iniziò ad imporre non solo nella cultura istituzionale, ma anche nei salotti dell’aristocrazia e della sempre più solida borghesia della capitale. In questo mondo culturale vivace ed energico Rameau venne introdotto, a dibattito già aperto, soprattutto in virtù dello stretto contatto con Alexandre Jean-Joseph Le Riche de La Pouplinière, fermier général ed importante mecenate dell’epoca, che permise all’ormai maturo compositore la frequentazione di artisti ed intellettuali che si raccoglievano attorno a lui e, conseguentemente, di avvicinarsi ad una forma musicale fino a quel momento non ancora affrontata: l’opera.
Accostarsi all’opera voleva dire in quel momento inserirsi prepotentemente in uno dei temi più caldi fra quelli che animavano la querelle, un tema in cui nuove forze artistiche stavano lentamente mettendo in discussione la possente impalcatura teatrale messa in piedi qualche decennio prima dal fiorentino naturalizzato francese Jean-Baptiste Lully, protagonista assoluto della vita musicale parigina dal 1672, quando divenne direttore della Académie Royale, e dal suo fedele librettista Philippe Quinault: si tratta della tragédie-lyrique, una forma di spettacolo squisitamente francese, derivata da una singolare commistione tra il ballet de cour e l’opera italiana, e nata grazie ad una sempre più forte necessità di autonomia ed indipendenza musicale dalle dominanti e solide tendenze musicali, e in questo caso operistiche, del Bel Paese.
All’interno della querelle vi erano due diverse fazioni: da un lato vi erano i classicisti, capeggiati da Nicolas Boileau, raffinato intellettuale e scrittore dell’epoca che pose a modello della tragédie-lyrique la tragedia recitata di Pierre Corneille e Jean Racine, considerata modello letterario insuperabile non solo per la sua solida disposizione drammaturgica, fedele alla lezione aristotelica, ma anche per la sua coerente adesione ai principi classicisti di compostezza, ordine e misura. Tale posizione portò ad un attacco del nuovo teatro musicale che invece veniva sostenuto dal partito dei modernes, di cui l’Abbé Charles Batteux fu uno dei massimi portavoce. Nel suo celebre scritto Les beaux-arts réduits à un même principe (1746) Batteux sosteneva, tra le varie riflessioni filosofiche, la centralità dell’artificio, considerato il mezzo fondamentale di rivelazione del vero, della natura umana. Artificio che aveva però anche un’altra valenza ugualmente significativa legata però alla sfera sensoriale dei piaceri: secondo questa visione infatti, nell’esperienza artistica, lo svelamento della doveva avvenire solo attraverso mediazioni sensibili e materiali che si rivolgessero non solo alla ragione ma anche ai sensi, attribuendo in tal modo all’artificio il ruolo di protagonista e motore del piacere estetico. L’uomo colto. secondo Batteux e i modernes. provava piacere non solo davanti allo svelamento della verità ma anche e soprattutto davanti al riconoscimento dell’artificio messo in piedi per rappresentarla.
Tale querelle si tradusse in evoluzioni e modifiche concrete e tangibili nella concezione dell’opera lirica. I modernes vedevano l’opera come il mondo del meraviglioso, dell’incanto, del fantastico in cui gli dei si ponevano al di sopra degli uomini con un linguaggio, con azioni e inflessioni di voce che sorpassavano le leggi dell’ordinaria verosimiglianza, così tenacemente difese dai classicisti. In realtà già il ballet de cour, forma d’arte dominante prima della nascita dell’opera, era caratterizzato da elementi non distinti: personaggi mitologici, ambientazioni surreali e magiche e figure allegoriche; elementi dai quali l’opera in musica iniziò ad esserne profondamente permeata. In essa le tematiche severe ed austere tratte da Euripide e Tacito, che nel teatro di Lully e Quinault, difeso dai classicisti, divennero un pilastro fondamentale, iniziarono ad essere sostituite da nuove tematiche mitologiche recuperate perlopiù dalla letteratura ovidiana, aprendo così la strada al merveilleux, all’incanto, all’artificio che praticamente si tradusse in un sempre più frequente utilizzo di macchine per rappresentare eventi straordinari come tempeste, naufragi, battaglie, apparizioni e metamorfosi divine. Il teatro dei modernes stava prendendo il sopravvento: le tre unità aristoteliche vennero spesso accantonate in nome di un dinamismo teatrale più ampio ed elastico che meglio si confaceva alle diversioni spettacolari dell’azione dei divertissements, posti alla fine di ciascun atto; le tematiche amorose, così aspramente rifiutate da Nicolas Boileau, iniziarono a dominare la scena teatrale in una evasione idilliaca e voluttuosa governata dalle leggi del paganesimo e dell’epicureismo. Sul piano dell’intreccio la struttura della tragédie-lyrique si mantenne pressoché inalterata: le convenzioni del teatro di Racine e Corneille continuarono ad essere il modello assoluto. Fu lo schema di origine aristotelica (esposizione – peripezia – risoluzione) ad essere modificato ed applicato a strutture drammaturgiche più discontinue e sempre meno rispettose delle unità di luogo, spazio e azione.
In questa evoluzione si inserisce la singolare esperienza operistica di Jean-Philippe Rameau. L’opera venne affrontata dal compositore di Digione in età ormai matura, quando egli ormai si avviava a compiere 50 anni, pur dimostrando una particolare predisposizione al genere. In sei anni dal 1733 al 1739 compose ben cinque opere appartenenti ai generi dominanti dell’epoca: le tragédies-lyriques “Hippolyte et Aricie” (1733), “Castor et Pollux” (1737), e “Dardanus” (1739) e i due opéras-ballets “Les Indes Galantes” (1735) e “Les Fetes d’Hébé” (1739), dopo la quale seguirono sei anni di silenzio dedicati alla continua revisione di “Dardanus” per poi riprendere la composizione nel 1745 con opere di vario genere e dimensione spesso a contenuto leggero, tra cui “Platée” e “Le Temple de la Gloire”, composte nello stesso anno. La struttura drammaturgica di Rameau si mantenne perlopiù inalterata nel corso degli anni rimanendo fedele a quella adottata nel 1733 per “Hippolyte et Aricie”.
Il suo punto di partenza non poteva che essere il teatro di Lully e Quinault. Rameau partì innanzitutto dal collegamento verosimile tra danza e azione drammatica, preoccupandosi però di integrarle in una forma del tutto originale. La collaborazione con il librettista Louis de Cahusac, collaboratore della Encyclopédie nonché teorizzatore del superamento della decorativa danse simple a favore della più teatrale danse en action, lo avvicinò ad una visione della danza più strettamente collegata agli sviluppi drammaturgici della trama. Un secondo aspetto che Rameau trasse dal musicista fiorentino fu la concezione degli affetti, legittimata dalla visione meccanicistica di Cartesio: i personaggi di Rameau appaiono quasi de-individualizzati, meccanicamente guidati da sentimenti ed emozioni fortemente tipologizzate. Questa visione però non impedì a Rameau di delineare nelle sue opere personaggi di alto spessore tragico, come Teseo e Fedra nell'”Hippolyte” o Huascar ne “Les Indes Galantes”, dove assistiamo a un primo timido superamento della rappresentazione ieratica tipica della drammaturgia classicista di Racine e Corneille.
Altri però sono i punti dove la continuità tra il teatro di Lully e di Rameau assume connotazioni più complesse. Il primo è senza dubbio il rapporto tra testo e musica nel recitativo. La concezione di Lully era assolutamente legata all’estetica razionalistica che intravedeva nella chiarezza del linguaggio una componente fondamentale per conferire validità artistica al genere teatrale. Il verso di Quinault era costruito principalmente sul verso alessandrino, il verso appunto della tragedia recitata di Corneille e Racine. L’adozione di un solo verso implicava però una rigida sequenza di ritmi anapestici che a lungo andare poteva risultare estremamente monotona e che oltretutto limitava non di poco l’aggiunta di abbellimenti, dai quali i recitativi di Lully erano scevri. Se Rameau da una parte, alla stregua del suo predecessore, era convinto che il recitativo dovesse essere considerato parte fondamentale dell’opera, allo stesso tempo si allontanò da questa concezione in modi del tutto personali: l’interesse di Rameau si rivolse principalmente alla concezione materiale del linguaggio e non al suo valore semantico. Rameau riconosceva al linguaggio un’autonomia nuova, fondata su leggi naturali e dunque capace di procedere con le proprie regole di combinazioni tra i suoni. Significante dunque, e non più significato. Su un piano musicale, questa visione si tradusse in uno sviluppo della dimensione melodica del recitativo che nelle opere di Rameau appare ricco di ampi intervalli, impetuose ascese melodiche. E soprattutto, a differenza di quello lulliano, il recitativo ramista acquista una maggiore elaborazione grazie al ricorso a vocalizzi ed abbellimenti tra cui appoggiature, trilli e mordenti.
Un secondo punto riguarda invece l’aria. In Lully l’aria aveva un carattere squisitamente declamatorio ed era organizzata in strutture regolari. A differenza dell’opera italiana, dove l’aria era decisamente più complessa e ricca di lussureggianti elementi virtuosistici accentuati grazie alla struttura del da capo, l’opera lulliana prevedeva arie di minore estensione denominate petits airs, che però variavano ampiamente nella forma e nell’accompagnamento. Sul piano formale Rameau adottò la struttura lulliana bipartita AB e l’accompagnamento limitato al solo basso continuo. Ma come abbiamo detto la struttura drammaturgica del teatro ramista era più complessa ed elaborata, e laddove il dramma si faceva più dinamico non di rado troviamo arie con più respiro melodico come ad esempio nei divertissments dove il richiamo all’estetica italiana divenne particolarmente forte grazie all’inserimento di grandi arie col da capo, le cosiddette ariettes.
Altrettanto significative nella struttura operistica di Rameau sono le symphonies. Sin dalle prime opere di Lully, il teatro francese attribuiva grande peso alla musica strumentale, peso che nell’estetica del compositore di Digione si mantenne perlopiù inalterata: Rameau si dedicò largamente nelle proprio opere alla cosiddetta pittura musicale dei fenomeni naturali fossero essi lieti o terribili ed imponenti. In tutti questi casi l’attenzione di Rameau fu comunque rivolta ad un unico e grande obiettivo: svincolare la musica strumentale da qualsiasi dipendenza per darle uno statuto estetico autonomo. Questa tendenza emerge molto chiaramente nelle ouvertures, all’epoca apertamente criticate per l’evidente rifiuto che Rameau faceva trasparire nei confronti della solida e rigida struttura lullista. La definizione formale dell’ouverture francese si deve proprio al fiorentino. Essa era suddivisa in due parti: la prima, dal carattere maestoso e lento, con un ritmo prevalentemente fiero e solenne, e la seconda, caratterizzata da un movimento più spedito in stile fugato e dunque contrappuntistico. Rameau seguì il modello lullista solo nella prima parte della sua carriera da operista, avvicinandosi già nella seconda fase al modello italiano che gli diede ancora più libertà nella sua ricerca e nel raggiungimento della pittura musicale della natura.
Per concludere, pur facendo proprie, da degno figlio della sua epoca, le coordinate estetiche del teatro di Lully e Quinault, Jean-Philippe Rameau fu dunque in grado di superare questa rigida e solida concezione estetica con metodi ed esiti assolutamente personali ponendosi in tal modo non solo come anello di congiunzione nella evoluzione dell’opera settecentesca francese ma soprattutto come grande sperimentatore e innovatore nella complessiva visione estetica e teorica della musica del XVIII secolo prima delle grandi rivoluzioni politiche, sociali e dunque culturali che di lì a pochi anni avrebbero travolto l’Europa intera.
Manuel Garcia
Rameau
Platée
Atto II
Aux langueurs d’Apollon – Elizabeth Parcells
mio caro manuel, oltre che un grande maestro di canto siete pure un otrimo storico della musica. Omaggi!!”
Grazie cara Giulia!
Complimenti per il pezzo davvero interessantissimo anche perché verte su autori che non conosco bene e che in Italia non si eseguono molto (non so in Francia)
Grazie Ninia92! Già, è davvero un peccato. Con Lully ammetto di avere ogni tanto qualche difficoltà (ci sono comunque delle pagine bellissime Acis et Galatée in primis). Ma Rameau è davvero un’assenza imperdonabile: le sue opere potrebbero perfettamente competere con quelle del grande repertorio per forza teatrale, ricchezza vocale e strumentale. Eppure….