Dopo quasi trent’anni di attività come organista, teorico e compositore di musiche da camera, finalmente, nel 1733, superata la soglia dei cinquant’anni, Jean-Philippe Rameau decise di accostarsi al mondo dell’opera con la tragédie-lyrique Hippolyte et Aricie. Seppur tardivo (Lully aveva composto la sua prima opera, Les Fêtes de l’Amour et de Bacchus, a quarant’anni, mentre André Campra fece il suo ingresso nel mondo operistico con L’Europe galante a trentasette) si trattò di un evento assolutamente trionfale, che riuscì ad attirare l’attenzione della maggior parte de pubblico parigino e degli intellettuali allora alle prese con la energica querelle, chi dalla parte di Nicolas Boileau, chi invece come portavoce delle nuove istanze culturali di Charles Batteux. Eppure la sfida che Rameau, con il librettista Abbé Simon-Joseph Pellegrin, aveva lanciato all’establishment culturale parigino presentava esiti tutt’altro che scontati: pur rispettando la struttura di Lully e Quinault della tragédie-lyrique di cui venne seguita la struttura in cinque atti più un prologo allegorico, Rameau e Pellegrin riuscirono a mettere in atto una serie di novità che fecero di Hippolyte et Aricie un momento di svolta nella storia operistica francese.
Accostarsi alla storia dell’incestuoso amore di Fedra per il suo figliastro Ippolito innanzitutto obbligava Rameau e l’abbé Pellegrin a fare i conti con una imponente tradizione che chiamava in gioco da un lato i classici quali Euripide (Ippolito), Seneca (Phaedra) e Ovidio (Libro XV delle Metamorfosi) e con essi una tradizione mitologica che risaliva fino a Teocrito, dall’altro autori più recenti quali Racine la cui Phèdre, presentata nel 1677, era stata posta dai classicisti come modello assoluto del teatro francese. Nella Préface al libretto per Hippolyte et Aricie, lo stesso Pellegrin dichiarò di considerare Jean Racine quale suo maestro principale: dalla Phèdre (ma anche da altre opere quale Andromaque, Bérénice e Bajazet) egli prese calchi e citazioni per potersi mantenere federe alla linguaggio tragico tradizionale e riuscendo così a dare al libretto di Hippolyte et Aricie uno statuto drammaturgico più rilevante e soprattutto accettabile nel panorama teatrale dell’epoca.
Partendo da questa solida fedeltà agli antichi modelli, l’abbé Pellegrin riuscì a mettere in atto le sue variazioni. La prima e più significativa riguardò proprio la scelta del soggetto che cadde non più sul rapporto tra Phèdre ed Hippolyte ma sull’amore tra quest’ultimo ed Aricie facendone l’asse portante del suo intreccio. La seconda ma non meno significativa variazione rispetto al modello aristotelico di Racine fu il rifiuto delle tre unità di tempo, spazio e azione. Se nella Phèdre l’azione si svolgeva, secondo i più rigidi canoni classicisti, in un solo e spoglio luogo, per Hippolyte et Aricie Pellegrin optò per diverse e talvolta estreme ambientazioni, tutte in momenti cronologici diversi: gli inferi, il palazzo di Teseo, e la riva del mare, scene che ovviamente alimentavano e rientravano pienamente nella nuova visione estetica del merveilleux e dell’opéra à machines che proprio in quegli anni stava facendo il suo ingresso nella querelle. E fu proprio questa visione estetica a determinare il distacco definitivo dalla vecchia tradizione classicista. Se nell’austera tragedia raciniana il dramma aveva una dimensione più intima e personale, nella libera trasposizione operistica della coppia Rameau-Pellegrin la parola d’ordine divenne lo stupore e l’esternazione del sentimento. In questa direzione ad esempio si inserisce l’emotivo dialogo tra Phèdre e Hippolyte nel II atto dove la matrigna ora con gioia (quando interpreta come dichiarazione d’amore alcune parole del figliastro) ora con furia (quando capisce che in realtà il di lui cuore è ancora innamorato di Aricie) esterna continuamente, e davanti allo stesso Hippolyte, i suoi sentimenti contrastanti. Il più significativo apporto di questa visione estetica e teatrale si manifestò però nell’inserimento di scene meravigliose, sontuose e soprannaturali così tenacemente difese da Batteux e, come abbiamo visto, apertamente criticate dai classicisti fedeli a Racine. In questo senso, il II atto, ossia la discesa agli Inferi di Thésée per salvare l’amico Piritoo, e la grande scena del mostro del IV atto, più altre piccole scene come il divertissement dei marinai del III atto, si inserirono nell’intreccio drammatico voluto da Pellegrin che in questo modo riuscì ad unire alla fondamentale verosimiglianza dello spettacolo teatrale l’elemento d’illusione e dunque di incanto sempre più diffuso ed accettato.
Sempre in virtù di questa estetica, ad ogni atto si aggiunse il conclusivo e già citato divertissement. Divertissement che però, pur continuando ad essere un momento di rilassamento e di diversione rispetto alla trama centrale, come previsto dalla tradizione, nelle mani di Pellegrin divenne un momento di intensa ed energica azione drammatica ovviamente tradotte in musica da Rameau in scene possenti e vigorose: perfetto esempio è il finale del III atto quando Thésée, destinatario della festosa celebrazione degli abitanti di Trezene, si trova tragicamente oppresso dagli atroci dubbi verso il figlio che esterna nel monologo finale “Quel biens! Je frémis quand j’y pense”.
Al mondo raciniano, modificato e talvolta innovato dalla abile mano di Pellegrin, Rameau seppe accostarsi con rara intelligenza innovando, non senza scalpore, la grande eredità di Lully. Innanzitutto nel recitativo, che, pur rispettando la prosodia del testo poetico, seppe trasformare, grazie alla sua forza scultorea, in un elemento penetrante ed espressivo grazie ad una maggiore cantabilità sostenuta da un consistente sostegno armonico. Emblematico in questo senso è il recitativo di Phèdre che chiude il IV atto ” Non, sa mort, est mon seul ouvrage”: i tremendi pensieri della matrigna, che con il suo amore verso Hippolyte ne ha provocato la rovina, dal semplice recitativo si spostano ad un recitativo più convulso con un accompagnamento orchestrale più compatto ed incisivo. Alla scrittura orchestrale e alle pagine strumentali venne data una densità ed energia musicale talvolta condotta ai limiti dell’armonia e della tollerabilità acustica (scale cromatiche, cambiamenti enarmonici) arricchite dalla trascinante e patetica forza pittorica tipica del Rameau strumentale (come il “Bruit de la mer et des vents” che accompagna l’apparizione del mostro che verrà poi ucciso da Hippolyte nel IV atto) che scandalizzò non poco i lullisti amanti del beau naturel. Ai cori, sempre in accordo con la poetica del meraviglioso che Rameau seppe tradurre abilmente in musica, venne assegnata una incisiva monumentalità polifonica.
Per quanto riguarda invece la scrittura vocale Rameau si mantenne ancora parzialmente fedele alla poetica lullista adottando un canto declamatorio seppur con grandi novità: innanzitutto alla declamazione Rameau riuscì a dare una linea più melodica e quindi più vicina al modello italiano; vennero spesso adottate diverse strutture compositive: le airs de monologue spesso ad inizio d’atto come la celeberrima “Temple sacré, séjour traquille” di Aricie nel I atto e “Cruelle mère des amours” cantata da Phèdre come prélude del III atto; a ciò si aggiungono le airs con schema a rondeau come la scena prima del IV atto di Hippolyte “Ah! faut-il, en un jour, perdre tout ce que j’aime?” e gli ariosi come le due preghiere di Thésée a Neptune nel II atto. Tutte queste parti vocali vennero accompagnate da linee musicali interessantissime: dalle più semplici forme di arpeggi alle più elaborate strutture semi-polifoniche o addirittura concertanti che assunsero in certi momenti il carattere di autonomi pezzi orchestrali. Nella descrizione musicale dei personaggi, Rameau seppe dare ad ognuno dei quattro protagonisti una consistenza psicologica e uno spessore umano raccontandone le emozioni più profonde e conturbanti (come ad esempio Phèdre della quale descrisse il grande erotismo e la pietà così come la grande e teatrale tragicità di Thésée in contrasto con la sua malinconia) totalmente sconosciute ai classicisti fedeli a Lully.
La prima rappresentazione avvenne il 1 ottobre del 1733 nel Palais Royal della Académie Royale du Musique con la direzione di Francois Francoeur riscuotendo un successo tale da raggiungere le quaranta rappresentazioni nel solo 1733 . Il cast comprendeva l’haute-contre Denis-François Tribou nel ruolo di Hippolyte, il soprano Marie Pélissier nel ruolo di Aricie, il mezzo-soprano Marie Antier come Phèdre e il basso Claude-Louis-Dominique Chassé de Chinais come Thésée. In epoche più recenti venne ripresa nel 1950 con Roger Désormière, nel 1978 da Jean-Claude Malgoire e il suo complesse per poi passare attraverso le più “filologiche” bacchette di John Eliot Gardiner nel 1982 a Aix-en-Provence, Mark Minkowski nel 1992 al Palais di Versailles (di cui venne pubblicata la celebre esecuzione Archiv) e di William Christie nel 1997 che incise un altrettanto famoso disco con Erato. Tale successo, sconosciuto ad altre opere barocche, si deve al grande lavoro della coppia Rameau-Pellegrin che, pur partendo e mantenendosi fedeli ad alcuni coordinate estetiche degli illustri e forse un po’ ingombranti predecessori Lully-Quinault, riuscirono con Hippolyte ed Aricie a creare una struttura teatrale e musicale vincente, dotata di un approccio di ampio respiro drammaturgico e di una grande inventiva forza musicale e soprattutto capace di imporsi per il notevole equilibrio (che non tarderà a scomparire) tra eredità del passato e novità del presente, come un modello fondamentale nella storia del teatro francese.
Manuel Garcia
grazie di questo ciclo García, articoli interesantissimi; un occasione per riascoltare un repertorio straordinario.
Aspetto il prossimo.
è proprio così, un repertorio straordinario. Rameau è un compositore che mi è particolarmente caro anche perchè per personali e particolari circostanze è stato uno dei primi autori che da ragazzino ha attirato la mia attenzione: sarà per la sua straordinaria genialità ed inventiva, per il suo coraggio nel creare strutture armoniche e frasi melodiche meravigliose (nel senso estetico settecentesco del termine), sarà per la sua forza pittorica e per la saggezza teatrale… Rameau è e resta per me uno dei grandi maestri della musica occidentale. A volte offuscati dai grandi nomi, ci scordiamo che ci sono autori che meritano ben più di un semplice ascolto casuale…
Mi associo ad Aureliano nei ringraziamenti all’autore Mi chiedevo se potresti anche suggerire delle edizioni che ritieni di merito di queste opere. Grazie ancora!
Grazie davvero! Mi fa davvero piacere leggere i vostri commenti. Mi scuso per la tardiva risposta, Ahimé Ninia92, su Rameau c’è poco, o meglio ci sono incisioni ma tutte affidate a delle bacchette a volte brillanti (come Minkowski) a volte interessanti (come certe cose di Christie) ma che tendono, a volte per mancanza di materia prima, a trascurare molto la parte vocale che in Rameau ha un peso non secondario. Le incisioni di Minkowski valgono comunque la pena: hanno alle spalle un intelligente e pratico lavoro filologico tradotto in una direzione brillante, elegante, mai troppo “baroccara”. Di certo, personalmente parlando, lo preferisco al più stravagante Rousset, ad esempio. Vocalmente parlando, quel che il mercato offre, a meno che non ci siano delle rarità non ancora riversate su disco, e ciò che è stato proposto come commento all’articolo. Ciao!