Il Viaggio a Reims. Riflessioni sull’esecuzione (Pesaro, 25/08/1984)

viaggio07_locandinaNell’anno in cui Pesaro e il mondo intero festeggiano il trentesimo anniversario della prima ripresa moderna del Viaggio a Reims, anche quelli della Grisi partecipano alle celebrazioni del titolo, che forse più di ogni altro è caro al cuore degli ammiratori di Rossini e agli appassionati di canto in generale. E lo fanno recuperando, da archivi in massima parte ancora cartacei, le osservazioni che Domenico Donzelli buttò giù, a mero scopo di riflessione e souvenir personale, all’indomani dell’ultima rappresentazione del ciclo pesarese, risalente al 25 agosto 1984. Siccome la scelta di pubblicare questa riflessione (userei il ben più pregnante termine di recensione, se non temessi le reprimende dell’autore) è di Antonio Tamburini, in ciò lungamente, ma senza fortuna, contrastato da Donzelli medesimo, spetta a me illustrarne le ragioni e raccogliere, se del caso, il biasimo dei lettori. I quali potrebbero pensare e sostenere che quelli della Grisi, allora come ora solipsisti oltre che incontentabili a prescindere, si appaghino esclusivamente del proprio dissenziente pensiero e riescano quindi a tradire e travisare la Storia, offendere la memoria dell’autore e dei suoi valorosi interpreti, in uno con l’intelligenza di chi legge. Ritengo, da parte mia, atto di assoluto amore per Rossini, oltre che di rispetto per la realtà dei fatti, proporre queste note, perché dimostrano che, allora come ora, un grisino (all’epoca ante litteram) non aveva difficoltà non solo ad analizzare in maniera appassionata quanto competente uno spettacolo, senza limitarsi a declinare pregiudizi negativi o positivi (lo provano le annotazioni su Ruggero Raimondi, non certo un cantante fra i preferiti di Donzelli), ma ad esprimere, come avrebbe detto Boito, il più rio pensiero con la più ria parola. Parola che è ria perché ignora e disprezza lo sciroppo della metafora, il giro di parole tendenzioso, elemento costitutivo delle recensioni cosiddette professionali, che poco o nulla si scostano dalla pomposità dei comunicati stampa e delle réclame di settore. Riproporre queste parole a trent’anni di distanza serve anche a comprendere quanto di attuale vi sia ancora nelle osservazioni sul periodo francese di Rossini, sull’insostituibile ruolo del concertatore nel repertorio belcantistico, sul proliferare di scelte mercantili che, allora come ora, viziano e inquinano il mondo dello spettacolo (e non solo). Di più: alcune annotazioni, segnatamente quando si esaminano nel dettaglio le performance di alcuni solisti, hanno quasi il sapore di una profezia. Alle mie osservazioni in proposito, Donzelli ha risposto che era fin troppo facile prevedere certi esiti futuri, e quindi poco merito e nessuna meraviglia per quelle osservazioni. Sia come sia, buona lettura. – A.T.

 

Per recensire quella che è stata, a 159 anni dalla prima, la seconda rappresentazione dell’opera rossiniana bisogna, prima, interrogarsi sui problemi, le novità, le conferme ed i ripensamenti che scoperta e riproposta offrono. Cade, ad esempio, il mito del “Rossini francese”. La critica di matrice germanica aveva inventato questa definizione per le ultime opere del maestro pesarese, con lo scopo di dire che erano il vertice della produzione rossiniana, perché la riduzione di melismi le avvicinava al dramma musicale. Mai cosa più falsa è stata detta. Il Viaggio a Reims è la più fiorita, anzi floreale, opera di Rossini; eppure il settanta per cento è transitato nel Conte Ory.

Il Viaggio a Reims continua, anzi completa il discorso di paradigmaticità della Semiramide. Semiramide può essere considerata il paradigma dell’opera seria. Tutti i topoi del melodramma serio, tutte le strutture musicali vi trovano spazio ed equilibrio. Si celebra il Barocco, anche e soprattutto vocale, ma filtrato dal Neoclassicismo, con lo sguardo al futuro Romanticismo. Nel Viaggio questa summa va ancora oltre. Può parlarsi del Viaggio come dell’opera per eccellenza. Nata con scopi celebrativi di Carlo X, è, soprattutto, la celebrazione trionfale di Rossini e dell’operismo italiano, e, quindi, con la necessità di dire tutto, dire in succinto, dire bene, coniuga comico e tragico, raccoglie tutto quanto la scienza armonica e contrappuntistica avevano raggiunto.
Per attribuire questo valore di summa al Viaggio a Reims è sufficiente riflettere sulla costruzione musicale e la struttura vocale.
Nel Viaggio compaiono tutte le architetture musicali. Le arie, tre per precisione. La più semplice e tradizionale è quella di Don Profondo (scena 15) in due sezioni. La prima è un astratto catalogo in stile sillabato, la seconda, veramente tradizionale, è in tempo più mosso con da capo.
Molto più variegate la forme delle altre due arie. Quella della Contessa alla scena 6 e quella di Lord Sydney alla scena 12. Rossini raccoglie ed esaspera le proporzioni delle grandi arie e scene napoletane di ascendenza haydniana, ma guarda e ci fa vedere anche la tradizione barocca dell’aria con strumento obbligato (aria di Lord Sydney) o della grande aria da concerto (aria della Contessa). Siamo insomma alla convergenza di due secoli di operismo.
Nei duetti e nei concertati la struttura è quella tradizionale tripartita. Ma sono le proporzioni, la sapienza armonica e contrappuntistica che meravigliano, allarmano, fanno retrocedere tutti i compositori successivi.
Già il primo ensemble, il sestetto alla scena 8, offrirebbe un sostanzioso finale d’atto in qualunque melodramma dell’Ottocento. Ma Rossini va oltre con un folle finale a quattordici voci che dell’armonia del contrappunto è l’esasperazione, per giungere ad un finale “a passerella” dove i veri protagonisti hanno, sia pure in formato ridotto, il loro personale finale di bravura.
Si può anche dire che è l’inizio dello stile pompier, che l’inventiva musicale non è felicissima, ma che certamente siamo al concepimento del grand-opéra e siamo davanti a un esempio di bravura compositiva e teatralità che non ha il pari.
L’esempio supremo di questa bravura e teatralità è nel già citato sestetto. I sei personaggi, che nel corso dell’opera non avranno altra occasione solistica sono beneficiati di un’entrata di alto virtuosismo, una cavatina di sortita formato mignon. Mignon ma con tutte le difficoltà di ben più ampie sortite, un vero concentrato del vocalismo: compare il canto spianato, le agilità di forza sia serrate che si sbalzo e, se i cantanti convocati fossero in grado, anche i trilli.
viaggio05_abbadoVirtuosismo compositivo, grande teatralità. Naturalmente il rovescio della medaglia di un simile virtuosismo e teatralità è grande virtuosismo ed interpretazione da parte degli interpreti.
Tutti. A partire dal direttore d’orchestra che deve guidare tutta la barca, anzi carrozza, del Viaggio a Reims. I requisiti necessari per una tale operazione sono molti. Ci vuole un uomo di teatro, capace di risolvere quei problemi che uno spartito ritrovato, in specie di Rossini, con dieci protagonisti crea. Al maestro Abbado sono mancate tutte queste qualità. Non ha battuto ciglio, per quanto so, davanti allo spartito che Philip Gossett e Janet Johnson hanno predisposto. E questo potrebbe anche andare in quanto al direttore d’orchestra non vengono richieste cognizioni di filologia che permettano di agire in proprio. Non è intervenuto sull’apparato delle variazioni (anche perché è un adepto) predisposte da Alberto Zedda. Nell’ombra, modesto ma coltissimo e d’una pertinenza unica. E questa assenza, però, è più grave. In questo senso allo spettacolo mancava una cifra stilistica unica. Zedda, complice Rossini, ha riservato, come era giusto a Lella Cuberli e a Samuel Ramey gli sfoggi acrobatici più complessi, nei duetti, dove non disponeva di fuoriclasse, se l’è cavata con raggiusti e trasporti nei punti più scabrosi.
Nei pezzi d’assieme, però, non ha osato mettere mano. Era, infatti, un lavoro da predisporre a quattro mani. Nei concertati, particolarmente il pezzo a quattordici voci, non bastano trasporti, inversioni di parti, qualche abbellimento. Bisogna intervenire a livello più ampio sulla dinamica con alternanza di piani e forti, stentando e accelerando. Queste cose può farle, sceglierle, deciderle soltanto il direttore d’orchestra. E queste cose Abbado deve saperle fare. Non si chiama un direttore della sua fama per battere, correttamente, la solfa dietro ai cantanti. Ma c’è di più. Abbado si è dimostrato inetto nei riguardi della compagnia di canto. Si è inginocchiato davanti ai volevi ed ai giochi di potere della D.G., ha preso per buoni e sacri i consigli di amici che si intendono di voci quanto di vacche e non ha neppure saputo trarre a salvamento quelli che, alla fine, gli sono stati messi a disposizione.
Tutto con il solo e ben basso fine di essere lui il solo divo. Ora in Rossini qualunque direttore d’orchestra, da solo, approda a poco. A nulla, poi, se divo e tanto più in un’opera celebrativa, anche e soprattutto dei cantanti, come il Viaggio a Reims.
Di esempi di inettitudine se ne possono fare a bizzeffe. Ho già accennato all’assenza di un concertatore per il pezzo a quattordici voci. E, more solito, c’è di più. Nel gioco ad incastro la meraviglia sta nell’incastro, ma l’incastro deve vedersi. Viceversa siamo davanti ad un cubo o ad un dado di legno qualunque. Ecco nel gran pezzo non abbiamo sentito, complici anche l’infelicità e inadeguatezza di due dei tre soprani, il gioco contrappuntistico, ma solo la mazza ferrata di Abbado che credeva di dirigere una corale protestante. Analoga situazione nei due duetti Libenskof-Melibea, Belfiore-Corinna. Nelle schermaglie d’amore, topos del melodramma buffo, Abbado è frigido, asettico. In più la Gasdia è alle prese con una tessitura bassa e con le tipiche agilità di forza rossiniane dimostra la sua inadeguatezza al ruolo, prima, a Rossini più in generale. Tutto questo non scalfisce il mito di un grande direttore. Dimostra soltanto che Abbado non ha saputo concertare l’opera. Ed in Rossini il direttore deve essere soprattutto concertatore, se non tradisce Rossini. Ed in Rossini, infatti, non si giustificano clangori d’orchestra che coprono il canto. Rossini è autore che fa cantare l’orchestra come un solista di canto. Spesso orchestra e cantante dialogano. Esattamente come nel caso del solista che canta forte, tutto quello che si guadagna in forza lo si perde in raffinatezza ed esprit. A me Abbado, come mallevadore della Rossini renaissance, ricorda certi antifascisti sbucati il 26 aprile ’45.
Se Abbado fosse un grande rossiniano avrebbe l’umiltà e, per conseguenza, la grandezza di concertare il Ricciardo e Zoraide, scriversi motu proprio le variazioni per i cantanti, tenere a freno le esuberanze di Madama Horne e protestare la signorina Gasdia.
La qual signorina Gasdia rappresenta nel cast femminile pesarese il punto negativo.
Non si può affittare in una ripresa di questa importanza un sopranino lirico corto con centri fiochi, bassi inconsistenti, acuti a piena voce striduli, risolti il più delle volte con antirossiniani filati e falsetti.
Significa tradire la coloratura rossiniana e, quindi, rovinare il duetto con Belfiore dove abbondano agilità di forza, significa rovinare l’architettura dei concertati dove la tessitura di Corinna è intermedia tra i due soprani (Contessa e Madama) ed il contralto, significa trasformare le strofe di Corinna, esaltazione del nascente Romanticismo, in una lagna perenne. Insomma le peculiarità romantiche del personaggio, l’elegia e il solipsismo si sono trasformate nei sintomi del cretinismo.
viaggio09_valentiniAnalogo risultato hanno sortito le scelte di Lucia Valentini-Terrani (Melibea) e Katia Ricciarelli (Madama Cortese). Unica attenuante, però, i ruoli di portata più ridotta. La Ricciarelli ha esibito i soliti sussurri e gridi nella cavatinetta, qualche orgasmo gratuito nei recitativi. La retrocessione da Corinna a Madama Cortese si è, comunque, rivelata strategica.
Sempre in eccesso di virulenza, virago polacca Lucia Valentini-Terrani con registro grave spampanato, acuti spinti e striduli, agilità abborracciata e, per onore di completezza, trilli omessi.
E qui due chiose. In un’epoca di splendida rinascita del canto femminile si devono schierare primedonne migliori e meno “pionieristiche” delle tre imposte dalla DG. Seconda chiosa: gravissima l’assenza delle due più complete rossiniane dei nostri giorni: Marilyn Horne e Martine Dupuy. Una ripresa che voglia la sigla di storica non poteva prescindere dalla presenza di queste due cantanti.
Unica donna all’altezza della situazione Lella Cuberli. Agilità perlate e di perfetta granitura, buona estensione, egregio trillo (unica su diciotto cantanti), realizzazione di tutte le indicazioni del testo, tassativo rispetto della prassi esecutiva, recitazione elegante e stilizzata sono le prerogative dell’unica primadonna soprano qui presente, l’unica che possa rispecchiare l’aurea epoca rossiniana. In scena, tra le prime donne, accadeva uno strano fenomeno: la Cuberli che sulla carta doveva essere la più “leggera” dei tre soprani vantava invece la voce più ampia e sonora.
Ex aequo con Lella Cuberli Samuel Ramey. Per il suo stile ed il suo gusto può ripetersi lo stesso discorso fatto per la Cuberli.
Sono cantanti superiori a tutte le beghe e le mene di agenzia. Quando dovremo tirare le somme degli anni ’80 e ’90 i loro nomi saranno quelli che vengono ricordati.
La sorpresa nel cast maschile è venuta da Ruggero Raimondi. Dopo uno scandaloso Pagano dei Lombardi sembrava un altro. Pari alla Cuberli e a Ramey. Nella parte di Don Profondo ha sillabato in zona acutissima per un basso, è sceso agli inferi nei concertati, si è dimostrato attore sobrio e spiritoso.
Gli altri uomini erano, more solito, sulla difensiva. Francisco Araiza, nella parte di Libenskof scritta per un tenore contraltino alla David, itinerante tra Pesaro e Salisburgo dava miseramente di naso, balbettava la coloratura rossiniana, berciava l’unica volata ad libitum prescritta, ma per sua fortuna il mattino successivo erano previste le “correzioni”. Altro segno dell’asservimento ai traffici internazionali era Leo Nucci che ha “becheggiato” senza pietà. Una vera catastrofe che si è abbattuta su Pesaro. Ridanciano Enzo Dara, poco Barone tedesco e tanto zia di campagna, con serie difficoltà nella tessitura acuta, privato dei sillabati in cui è maestro, ha mostrato arguzia e astuzia. Astuzie più femminili che maschili.
viaggio06_rameyDiscreto Edoardo Gimenez. Buona agilità, facile estensione, ma nulla a che vedere con quel fenomeno di agilità e potenza che doveva essere Domenico Donzelli.
Non posso nemmeno scrivere che erano perfette le parti di contorno. Basta pensare che Luigi de Corato era, per le solite mene d’agenzia, confinato in una comparsata, e che nella parte di Maddalena, che nella prima scena vanta una parte di una certa consistenza, trionfava per le tresche sopra citate una dura e sgallinante Raquel Pierotti. E la Gonzales dove stava?
Inutile dire che l’elenco dei cambi sarebbe lungo assai.

21 pensieri su “Il Viaggio a Reims. Riflessioni sull’esecuzione (Pesaro, 25/08/1984)

  1. Caro Donzelli, le affermazioni sulle scelte della DG sarebbero condivisibili in tutto o in parte in un periodo fecondo di interpreti rossiniani. Oggi anche quelli contestati potrebbero esser presi per buoni vista la pessima mediocrità dei proponibili per il ruolo.
    Siamo ritornati al periodo antecedente al festival (35 anni spesi male)
    in cui si era fortunati a trovarne uno su dieci. Chi come mè è stato sia a pesaro sia in teatro che alla scala rimane felice di “esserci stato”.

      • Credo però che la situazione in cui versa attualmente il canto rossiniano sia ben peggiore di quella antecedente la nascita del festival e la Rossini-renaissance. Non è vero che siamo ritornati al periodo antecedente al festival… magari fosse così! Siamo messi ben peggio.

        • Concordo sostanzialmente con Mancini. Adesso la situazione è veramente brutta e ben peggiore di quella ante Rossini Renaissance, anche perchè, prima, non si conosceva perfettamente la corretta prassi esecutiva (oltre a dover utilizzare delle edizioni piene di errori e divergenze rispetto agli originali), ora, invece, si dovrebbe sapere come eseguire Rossini e non lo si fa! Se volessimo usare una terminologia giuridica, per gli errori e le pecche esecutive d’antan si potevano invocare le circostanze attenuanti, ora, invece, vi sono solo circostanze aggravanti rispetto al delitto di lesa maestà rossiniana. Qui si agisce nonostante la previsione dell’evento (c.p. art. 61 c. 1° n. 3)!!! C’era l’uso di criticare Corena e Montarsolo perchè forse un po’ caricati nelle loro interpretazioni. Ma si sentano certi “buffi” attuali e li si confrontino con i predetti; questi ultimi (a prescindera dal fatto che avevano delle voci più belle, piene e sonore e meglio impostate) al paragone erano degli esempi di castigatezza! Da questo punto di vista siamo tornati indietro al Rossini buffo tutto cachinni di tante decine di anni fa. Il che vuol dire che si guarda al passato solo per trarne gli esempi negativi e non quelli positivi.

  2. Davvero molto interessante come riflessione, specialmente sul ruolo che il Direttore/Concertatore dovrebbe svolgere nella riesumazione di un’opera. Vorrei lanciare una “sfida” all’autore (ma volentieri anche agli altri autori), che non vuole assolutamente essere una provocazione ma al più una curiosità personale: il cast di un “ideale” Viaggio a Reims datato 1984 (oltre alle già citate Horne e Dupuy) e uno datato 2014 (ho già detto che si tratta di una sfida?). Vi ringrazio anticipatamente!
    Federico

    • sul cast per il 1984 avrei almeno su certi ruoli l’imbarazzo della scelta, su quello di oggi a parte l’ipotetica contessa di Folleville, che puoi ben immaginare (anche se la prima non era certo un lirico leggero dotatissimo in alto) farei molta fatica a non superare il cast da dopolavoro o parrocchia. Mi sarebbe più agevole immaginare un fanta cast datato 1914!!!!!

  3. Mancini e Don Carlos, avrebbero ragione se…. non avessi udito che messer Zedda vuole approntare una nuova edizione critica….e poi magari un altra. Scherziamo? Così facendo si intorbidano le acque a tal punto che il periodo precedente alla nascita del festival era un punto fermo, ora siamo sulle sabbie mobili. Oppure una facezia dei presentatori Rai?

  4. Due cose non condivido delle riflessioni del Donzelli dell’84:
    – l’antiabbadismo militante che mi sembra sbagliato e ingiusto perché il suo Rossini resta uno dei suoi migliori esiti, ripulito da incrostazioni e riscritture, reso con leggerezza e trasparenza senza incorrere in superficialità. Neppure si può imputare ad Abbado la formazione del cast…i tempi erano quelli è le regole andavano rispettate (fermo restando che oggi pare perfetto in ogni ruolo rispetto a ciò che abitualmente si sente).
    – la valutazione del Rossini francese è viziata da gusti personali che non tengono conto dell’oggettiva evoluzione dello stile rossiniano che abbandona le fioriture italiane per concentrarsi su altri fattori: il Viaggio resta un’eccezione e la sua conversione – ripulita dagli eccessi belcantisti – nel Comte Ory lo dimostra.
    Tornando al Viaggio dell’84 trovo che altre siano le manchevolezze della direzione – peraltro splendida – ossia la non valorizzazione del personaggio di Corinna, una delle più deboli creazioni rossiniane e l’accettazione di certe caccole che sanno di vecchio Rossini (in primis Raimondi). Ciò detto quel Viaggio resta un evento storico di importanza assoluta, a prescindere dalle personali antipatie verso il concertatore.

  5. Un articolo interessantissimo e auspico che vengano pubblicate più spesso considerazioni su spettacoli di un tempo specie da chi ha avuto la possibilità di assistervi!

    Il cd del Viaggio fu uno dei primi che acquistai dopo che scoprii l’amore per l’opera e non fece che confermare il mio giudizio sul sommo Rossini. All’inizio mi pareva tutto oro, ma dopo qualche tempo iniziai a capirne qualcosa di canto e a pormi domande su tecnica e interpretazione e sono arrivato alle stesse conclusioni di Donzelli: Cuberli e Ramey eccezionali, Ricciarelli pessima (bella voce, sussurri e grida e sillabato assolutamente incomprensibile nella cabaletta iniziale), Gasdia pure (la trovo più credibile e preferibile in ruoli come Zelmira, Ermione, Armida etc piuttosto che come Corinna. Una lagna totale con i suoi due pezzi noiosissimi e buttati via perché forse non ci credeva neppure lei… nel duetto mi sono sempre piaciuti gli arpeggini in chiusa anche se pare un pulcino), Araiza maluccio(tanto naso e non mi è mai piaciuto anche se almeno resta sempre sul gradevole), Gimenez invece buono (piacevole e bella voce), così come Raimondi (e di solito fa fatica a piacermi), Dara sottotono (quando, di contro, di solito mi piace molto), Nucci orribile e la Valentini anche (mi pare un orco piuttosto che una giovine dama) Di Abbado mi piace la direzione nel complesso, ma concordo che avrebbe potuto e dovuto fare di più. Fu un evento storico eppure pieno di difetti e elementi censurabili, impossibili da non cogliere.

    La delusione maggiore resta che la parte di Corinna, la protagonista, non credo sia ancora stato cantato neppure vagamente come dovrebbe con tutta la necessaria pompa, romantica drammaticità e incisiva dizione. Lessi che l’opera era liberamente tratta da Corinna o l’Italia di Madame de Stael e comprai tutto curioso quel tripudio di romanticismo e pittoresco che è quel libro. Delizioso e commovente. Lo consiglio a chiunque non l’abbia letto :)

    • Pieno di difetti soprattutto perché in quegli anni si poteva, anzi si doveva fare molto di più. Anche solo il fatto che con Blake e Merritt attivi abbiano scritturato uno che col canto rossiniano non aveva niente a che vedere come Araiza ben dimostra l’intelligenza e la serietà di tale festival. Una tremenda occasione mancata.

      • Del Festival e del Maestro? Quando si pensa alla Cenerentola della Von Stade e alla Italiana della Baltsa….in quegli anni in cui vi erano tante altre colleghe ben migliori…
        Vuol dire che quando i cast funzionavano erano frutto del caso?

  6. Ovviamento non sono in grado (e credo che molto pochi lo siano) di confutare punto per punto le critiche che sicuramente saranno giustissime. Molto giuta anche l’osservazione circa l’ assenza di cantanti come Blake e Merritt…Nonostante ciò però io ricordo che la visionein TV e l’ascolto per CD di quell’evento costituì per me ( e io credo per molti altri) un momenmto di pura gioia e quell’evento (nonostante tutte le manchevolezze sottolineate-anche allora ad esempio ci si accorse dell’inadeguatezza della Gasdia.) resterà nella storia degli amanti dell’opera come qualcosa di irripetibile. Infatti nelle sucessive riprese non si è mai più ripetuto, mi pare.
    Invece, guardate un pò, a me non è mai piaciuta la (mitica anch’essa) regia di Ronconi: l’ho sempre trovata volgare, facilona, gogliardica,(tranne alcuni momenti come ad esempio tutto il blocco riguardante Ramey) rispetto alla suprema eleganza della musica di Rossini che invece mi è sembrata restituita in modo supremo proprio da Abbado, ma, ripeto, io non capisco niente di spartiti e per me ricavare suoni da quei segni neri è pura magia….
    Comunque grazie da Antonio, alias VIVAVERDI

  7. Devo una risposta a Rigoletto sulle edizioni critiche. Qui e in altri commenti ha più volte stigmatizzato la “minaccia” di una nuova edizione critica del Viaggio e del Barbiere, chiedendosi – polemicamente – quale sarà autentica: quella nuova, quella di prima o la prossima ventura? In realtà la funzione della filologia è proprio quella di aggiornare le edizione ed aggiornarsi, altrimenti si ripercorrono gli errori del dogmatismo della tradizione in cui – come diceva Furtwaengler si giudica “tradizionale” (e quindi intoccabile) il brutto ricordo dell’ultima brutta esecuzione che abbiamo ascoltato. Dato che – vivaddio – la ricerca continua, è chiaro che la conoscenza aumenta e, di conseguenza, i testi devono prenderne atto ed aggiornarsi. Infatti le edizioni critiche sono da sempre soggette a revisioni e miglioramenti, aggiunte e aggiusti, proprio per evitare che diventino come i vecchi spartiti Ricordi o che le caccole e le incrostazioni vengano scambiate per dogmi (e così errori di stampa, tonalità sbagliate, acuti non scritti etc…). Il problema, come al solito in Italia, è il provincialismo con cui si evidenzia quella che è prassi comune nel resto d’Europa. Da noi l’edizione critica diventa un feticcio, i musicologi delle star e i curatori delle edizioni prendono in mano la bacchetta per dirigere. Sono almeno 50 anni che si esegue Mozart nelle revisioni critiche pubblicate da Barenreiter senza strepiti e senza polemiche per presunti mozarticidi (come pure leggo ogni volta che si parla di edizioni critiche di Verdi, Rossini o Bellini): è naturale che le opere vengano eseguite in partitur corrette e aggiornate. E’ stupido, invece, insistere ad eseguirle con errori ed incrostazioni. Ti faccio un esempio: l’edizione critica del Don Giovanni è del 1968 e da allora si esegue così. L’edizione è stata rivista nel ’91, nel 2001 e nel 2005, senza nessun esibizionismo. La differenza con la pomposa retorica italica, però, balza agli occhi: nessuno in Germania si è mai sognato di dire che le esecuzioni fatte su edizioni precedenti fossero da buttare né, soprattutto, si è affidata a Wolfgang Plath e Wolfgang Rehm la bacchetta per eseguire la “loro” edizione. Ognuno faccia il suo mestiere: i musicologi preparano un testo che altri dirigeranno. E neppure fanno conferenze stampa sulla loro opera rivoluzionaria. Da noi invece certi musicologi si appropriano della bacchetta e pretendono di insegnare anche come si dirige: fa niente se i vari Zedda o Crutchfield in realtà non esistono come concertatori al di fuori di quel repertorio ristretto. Ecco il problema: non una nuova edizione del Barbiere o del Viaggio (ben vengano) ma il bataclan mediatico e retorico che ci girerà intorno, fatto del solito semplicismo, delle solite dichiarazioni di elogio parossistico, della solita retorica da evento e del solito isterismo di chi parlerà di rossinicidio e si incaricherà di difendere chissà quale tradizione…

    • Concordo su tutto. Si potrebbe anche aggiungere che la prima edizione critica delle opere di Bach è del 1853 ma che nessuno l’ ha mai considerata un monumento intoccabile, visto che poi ce ne sono state altre e che nel 2006 è stata conclusa la Neue Bach Ausgabe, aggiornata secondo le nuove indagini testuali. Varrebbe la pena di rileggere quanto scriveva al riguardo Fedele D’ Amico, in un divertentissimo articolo intitolato “Dell’ irrilevante competenza tipografica” contenuto nel libro “I casi della musica”…

  8. Quello che dice Duprez è talmente banale che stupisce che ci sia bisogno di dirlo. Nessuna edizione critica è definitiva, in nessun campo. Tuttavia devo aggiungere che io in Italia non ho mai sentuito nessuno dire che ci sia un’edizione critica intoccabile. Mai, assolutamente mai.

    • Vero, però ogni volta che se ne presenta una si assiste allo stucchevole balletto dei favorevoli e contrari.. Ho letto tante di quelle stronzate sui presunti verdicidii commessi dalle edizioni critiche, come se fossero attentati veri e propri… E che dire di certe prese di posizione ottusamente contrarie all’edizione critica pucciniana?

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