Sorella Radio, in attesa della kermesse pesarese, boccheggia nelle ora assolate, ora nuvolose, sempre e comunque umidicce giornate di metà luglio e la recente trasmissione radiofonica non meno che cinematografica della Manon Lescaut proposta al Covent Garden ha rischiato di passare inosservata, perché malgrado lo strombazzare della stampa amica, complice e prona e l’impegno dell’ufficio stampa del teatro, che con dovizia di particolari e addirittura un articolo dedicato allo scopo ha inteso chiarire come lo spettacolo di Jonathan Kent intendesse valorizzare “la bruttezza” presente (non si sa dove né come) nell’opera, quanto abbiamo ascoltato ci ha rafforzato nella nostra convinzione che anche questo repertorio, al pari del Rossini tragico e del grand-opéra, non conosca oggi una delle stagioni più esaltanti della propria storia. Anzi. L’esecuzione ci ha lasciato tanto più perplessi, in quanto la delusione maggiore è venuta dalla bacchetta, di certo l’elemento più professionale e sicuro coinvolto nell’operazione. Non è da oggi infatti che conosciamo le arti di esecutrice e fraseggiatrice pucciniana della signora Opolais, che sempre a Londra era stata qualche anno una rivedibile (a esser buoni) Butterfly, e che nell’occasione specifica ha fatto di tutto (letteralmente) per fare rimpiangere esecutrici, sotto ogni profilo censurabili, come Kiri Te Kanawa e Adina Nitescu. Né una sorpresa è stato il Des Grieux dalla voce artatamente scurita, gonfia e priva di morbidezza nella zona del passaggio superiore, di un Jonas Kaufmann per il quale l’estasi amorosa dello studente, la malinconia dell’amante tradito e la disperazione del profugo, che vede perire la propria compagna, si traducono sempre e invariabilmente in suoni sordi, bitumati, di autentica strozza oppure, per variare, in falsettini privi di appoggio, usati in luogo di piani e pianissimi. Questa peraltro è la cifra interpretativa di tutti i personaggi affrontati, almeno nell’ultimo lustro abbondante, dal tenore bavarese, cui l’approdo ai grandi personaggi verdiani non ha certo giovato, quanto a preservazione della natura vocale. Però almeno da Sir Antonio Pappano sarebbe stato lecito attendersi una direzione musicale meno inamidata e più attenta alle sempre cangianti necessità del dramma, che al pari della versione di Massenet alterna pagine “di colore”, in cui echeggiano atmosfere e sonorità settecentesche, e altre improntate ad un’accesa passionalità e a un senso di tragedia incombente. Basti ascoltare, a titolo di esempio, l’entrata di Lescaut (un caricaturale Christopher Maltman) alla fine del secondo atto e i susseguenti preparativi per l’abortita fuga: non un colore, non una scansione dinamica che in qualche modo sottolinei l’ansia febbrile dei personaggi, la cupida stoltezza della protagonista, la disperazione con cui il tenore canta (o dovrebbe cantare, se ne fosse in grado) “Con te portar dèi solo il cor, io vo’ salvar solo il tuo amor”. Anche l’intermezzo, ben eseguito dall’orchestra, risulta piatto e meccanico, straordinariamente privo di abbandono e che la pagina risulti elegante ci pare francamente un po’ limitativo. E forse allora, archiviate queste sintetiche riflessioni estive, è il caso di lasciare spazio all’ascolto dell’esecuzione londinese, o almeno di una sua parte significativa, quel quarto atto in cui tutto è disfacimento, consunzione, tramonto e rovina. Nello scegliere un’adeguata pietra di paragone ci siamo ricordati che, alcuni decenni fa, i grandi teatri dell’America del Sud allestivano, nei mesi estivi, stagioni di eccezionale levatura, complice il fatto che i teatri europei e statunitensi erano in quei periodi “chiusi per ferie” e i divi, pertanto, liberi di spostarsi (in nave, ovviamente) e di esibirsi altrove. Le due esecuzioni latinoamericane prescelte si segnalano, l’una per la presenza di un Gigli ben oltre il sessantesimo anno d’età e non distante dal quarantesimo di carriera, al fianco di una navigata professionista come Elisabetta Barbato, l’altra per una coppia di esecutori giustamente mitizzati e colti in un momento (e in un’opera) di particolare grazia. Più ancora però delle prodezze vocali, della resistenza e solidità degli esecutori, colpisce la capacità, da parte di Antonino Votto e Bruno Bartoletti, di sostenere e valorizzare i pregi dei rispettivi interpreti e, in misura almeno pari, quelli della partitura, offrendo un ritratto al tempo stesso sconsolato e fiammeggiante di una landa desertica, sconfinato orizzonte di una vita e di un amore ormai giunti al capolinea. È proprio il contrasto fra l’intensità del sentimento, l’indifferenza della natura e l’ineluttabilità del dramma che ivi si consuma, a costituire la forza di questo atto conclusivo: in difetto avremo, nella migliore delle ipotesi, un’esecuzione scolasticamente corretta, ma un modesto servizio all’autore e alla sua poetica.
http://www.roh.org.uk/news/how-to-stage-an-opera-the-ugliness-of-manon-lescaut
Gli ascolti
Puccini – Manon Lescaut
Atto IV
Beniamino Gigli, Elisabetta Barbato, dir. Antonino Votto (Rio de Janeiro 1951)
Richard Tucker, Montserrat Caballé, dir. Bruno Bartoletti (Buenos Aires 1966)
Kristine Opolais, Jonas Kaufmann, dir. Antonio Pappano (Londra 2014)
Mirabile la signora opolais a 4 zampe, sul letto rosa, in minigonna parrucca bionda stile china blue di Ken Russell! Tutta arte vocale la sua…..tutta arte!
Quando Montserrat Caballè in Scala iniziò a cantare nessuno si accorse che era in sovrappeso. Altrettanto quando un certo Felice schiavi si esibì nel Simon Boccanegra, in Scala con Abbado sul podio, nessuno parve accorgersi che aveva la esse blesa, anzi fu applaudito da gran signore. Donna Giulia, venendo a mancare le qualità vocali che sono INDISPENSABILI per una seria carriera è ovvio che si deve ricorrere a PITALI e RUTTI, sennò chi sopporta tre ore a teatro? anche se questo è la scala o la Royal Opera.
Ho avuto il coraggio di guardare degli estratti.
Uno schifo!
Le voci non (ri)’suonano’. Sono prive de risonanze e armonici, completamente vuote, come anche le loro interpretazioni musicali. Secondo me, non avevano nemmeno una minima idea di quello che dicevano. Interpretavano quello che voleva il regista senza badare alla musica o il libretto! Quanti suoni grattugiati sulla gola e la laringe. Inascoltabile. Peggio del risultato tenorile del Trovatore, che già era in terra schifosa!!
Uguale la direzione d’orchestra. Privo di ‘musica’ e di ‘musicalità italiana’. Tutto freddo e senza passione.
Mah…
Uno schifo!