Proseguendo il nostro viaggio nelle terre dimenticate della musica operistica italiana tra fine ‘800 e primo ‘900 – la musica divenuta “proibita” per sciocchi preconcetti ideologici – ci accorgiamo quanto sia ingiusto e riduttivo farne una sola categoria e bollarla, con intenti spregiativi, come “verismo”, sottolineandone il localismo e l’arretratezza culturale. La “giovane scuola”, infatti, non solo è un universo ricco di personalità differenti – un mondo fatto di tante storie, di tanti stili, di formazione ed esperienze diverse, di approcci contrastanti, di ragionamenti, aspirazioni, velleità, rivalità…accomunate solo dalla cronologia – ma è, soprattutto, il tentativo più o meno riuscito di aprirsi ad orizzonti culturali più vasti per svecchiare l’ormai morente e superata tradizione del melodramma, accogliendo suggestioni e ispirazione da modelli inusuali per lo stato in cui versava la musica nazionale. E se musicalmente il termine di paragone non poteva che essere il dramma musicale wagneriano così come diffuso e stemperato nell’Europa dell’ultimo scorcio del XIX secolo, anche letterariamente si assiste all’abbandono delle forme tradizionali, degli intrecci del melodramma, per confrontarsi con modelli letterari più moderni e contemporanei: dal verismo al naturalismo, al decadentismo sino alla grande letteratura, com’è il caso di Tolstoj. In questo lungo e ricco percorso nella “musica proibita”, dicevo, si incontra un musicista come Franco Alfano che non assomiglia di certo al rozzo e semi analfabeta compositore da operacce veriste che la critica più schizzinosa ci ha insegnato a denigrare. Alfano è uno degli esempi più emblematici del cosmopolitismo e dell’apertura culturale della “giovane scuola”. Nato in Italia, dopo gli studi di composizione al Conservatorio di Napoli si trasferì a Lipsia – per approfondire la sua preparazione confrontandosi con i compositori contemporanei – e poi a Parigi. La formazione internazionale lascia il segno nel suo stile musicale dove sono evidenti i rimandi a timbri e soluzioni estranei alla precedente tradizione italiana (su tutti Rimskij-Korsakov e Debussy). Della sua produzione operistica (una dozzina di titoli), tre hanno incontrato una discreta fortuna: Risurrezione (che è l’oggetto di questo capitolo), La leggenda di Sakuntala e Cyrano de Bergerac. Opere diversissime tra loro che testimoniano il percorso formativo dell’autore a partire da un certo realismo verista per passare all’esotismo decadente sino alla commedia musicale. Tre opere diverse, tre linguaggi differenti, ma ricchissimi e complessi: non a caso furono tutte tenute a battesimo dal Tullio Serafin (a cui si deve la prima italiana del Wozzeck di Berg) il più colto direttore italiano insieme a De Sabata allora in attività. Purtroppo Alfano trovò sulla propria strada Toscanini per quel pasticcio del finale di Turandot a cui si deve, suo malgrado, la vera celebrità del compositore. La storia è nota: Puccini, morendo nel ’24 non riuscì a terminare l’ultima sua creazione, lasciando solo alcuni appunti di difficile decifrazione su come stendere il finale (probabilmente già compiuto nella sua mente). Ma per andare in scena il lavoro doveva essere in qualche modo terminato così Ricordi con la consulenza di Toscanini affidò ad Alfano l’ingrato compito, sulla base di una pretesa affinità di carattere musicale tra Turandot e La leggenda di Sakuntala (in realtà i due lavori e, tanto meno i due stili musicali, non si somigliavano per nulla…ma probabilmente a Toscanini poco importava, gli occorreva una pezza). Alfano lavorò seriamente e, ovviamente, lavorò come un compositore così che gli appunti pucciniani furono solo lo spunto per un elaborato e vasto finale, ricco di preziosismi musicali e riferimenti colti (soprattutto Rimskij-Korsakov il cui mondo musicale era molto affine a quello del compositore italiano). Toscanini ovviamente non capì il lavoro di Alfano e lo costrinse a rifarlo: il compositore si arrese e diede allo scorbutico direttore ciò che voleva, ossia una rapida conclusione d’effetto (che tanto la prima sera neppure eseguì, per eccesso di protagonismo e scarsa considerazione del lavoro dello stesso Alfano). Purtroppo ancora oggi il compositore è ricordato per la vicenda di Turandot e non per la propria arte. Risurrezione è la terza opera del catalogo del compositore, ed è stato il suo primo vero successo ed ancora oggi il suo lavoro più frequentato. La prima rappresentazione, avvenuta a Torino il 30 novembre 1904, fu accolta con successo (diretta, come già detto, da Tullio Serafin, e con Elvira Magliulo e Orsete Mieli nei ruoli principali). L’opera si inserisce certamente nella fase verista del compositore, ma è resa più interessante dall’insolita scelta del soggetto. Il romanzo di Tolstoj, infatti – pubblicato solo 5 anni prima, a testimonianza dell’attenzione della “giovane scuola” per i più recenti fenomeni culturali europei, in quella ricerca di sprovincializzazione e apertura di cui ho già trattato – è scelta piuttosto inaspettata. Il romanzo, infatti, affronta il problema dell’ingiustizia sociale, del nascente socialismo, delle disperate condizioni morali ed economiche degli strati più bassi della popolazione, della profonda crisi nell’amministrazione della giustizia, e soprattutto della redenzione e rinascita attraverso la rinuncia. L’opera di Tolstoj pone al centro la figura di un ricco e svogliato ufficiale, appartenente alla nobiltà, trovatosi a fare da giurato nella sua terra natale: lì ritrova come imputata una prostituta accusata di omicidio che anni prima lui stesso aveva sedotto e poi abbandonato (contribuendo alla sua decadenza morale). Dopo aver assistito alla sua condanna e alla sua deportazione in Siberia, decide di rimediare e “salvare” la ragazza: la segue e le offre di sposarla e vivere insieme, ma la ragazza ha trovato la sua via alla “resurrezione”, unendosi con un suo compagno di prigionia e costruendo con lui una nuova vita. Il giovane ufficiale, deluso e abbattuto dal suo senso di colpo, dopo la lettura del vangelo comprende che l’unico riscatto possibile è quello etico attraverso la fede, prescindendo dai vantaggi di una condizione sociale agiata o dal riscatto della colpa attraverso i favori, i tribunali o le leggi degli uomini. Il libretto tratto dal romanzo è molto diverso: dall’opera di Tolstoj viene espunto ogni riferimento alle questioni sociali e religiose (la religiosità dello scrittore russo, infatti, è decisamente anarchica e anticonvenzionale) lasciando il mero intreccio sentimentale, con alcune correzioni per non creare problemi alla morale dell’epoca (e all’ambiente conservatore italico). Innanzitutto la protagonista non è più una prostituta sedotta ed abbandonata dal nobile ufficiale, ma è una ragazza innocente che intraprende una relazione con il giovane e che viene scacciata da casa perché rimasta incinta. Dopo aver visto il suo amante in compagnia di una prostituta non ha il coraggio di mostrarsi al giovane e afflitta dal dolore lo lascia andare via. Finisce in carcere a San Pietroburgo e viene condannata per un crimine mai fatto. Il giovane ufficiale, preso dal rimorso, va a farle visita in carcere e si offre di sposarla, ma lei – disperata – rifiuta. Sulla via per la Siberia si dedica a dare conforto alle sue compagne di deportazione, trovando in questo la sua vera missione. L’ufficiale la segue e dichiara il suo amore, ma lei lo rifiuta poiché crede che solo rinunciando entrambi al matrimonio potranno riscattarsi. Certamente la forza dell’opera di Tolstoj e il suo carattere rivoluzionario sono fortemente ridimensionati: il romanzo perde la carica di polemica sociale e i personaggi acquistano una maggiore innocenza e presentabilità (Katiusha non è più la prostituta coinvolta in un omicidio e Dimitri diventa l’innamorato pentito tipico di certo buonismo tardo ottocentesco), tuttavia rimane l’impianto atipico di un soggetto difficilmente collocabile nel consueto alveo dei libretti da melodramma. La musica – come già detto – presenta un robusto impianto verista con una importante presenza orchestrale (in una scrittura che privilegia il colore e gli impasti timbrici più tipici della coeva opera russa e con evidente debito alla lezione di Debussy). La forma privilegia l’arioso e il flusso ininterrotto senza concessioni alle forme chiuse. Risurrezione resta forse l’opera più nota di Alfano (anche se poi la sua formazione musicale lo porterà verso altre esperienze) e ha conosciuto una certa vitalità rappresentativa: oggi però è quasi scomparsa dalle scene, condividendo il destino di tanti altri lavori della “giovane scuola”, anche se la sua importanza – soprattutto culturale – meriterebbe una più attenta riscoperta.
Gli ascolti – l’opera:
Gli ascolti – i primi interpreti:
I – Oreste Mieli (tenore), il primo Dimitri:
II – Elvira Magliulo (soprano), la prima Katerina:
III – Angelo Scandiani (baritono), il primo Simonson:
IV – José Beckmans (basso), il primo Krylicov:
Condivido il contenuto dell’articolo e faccio i miei sinceri complimenti a Duprez, col quale altrove ho polemizzato . La cosa che personalmente trovo la più ingiusta ( e stupida ) è il fatto di considerare rozzi musicisti come Alfano che non lo erano affatto. Anzi . Una partitura come Sakuntala è da annoverarsi tra le più colte, raffinate ( ed esangui ) dell’intero repertorio italiano. L’esatto contrario di quanto racconta la vulgata corrente.
Ti ringrazio per l’apprezzamento: in effetti più ci si addentra nella “giovane scuola” più si scopre un vasto universo di uomini, storie, musica…una vitalità culturale straordinaria che solo un atteggiamento di sciocca chiusura denigra come “musica di serie B”. Proprio questo è l’intento di questa piccola rassegna e mi fa piacere che susciti interesse e attenzione. Immagino che apprezzerai anche i prossimi appuntamenti dedicati a compositori ancora diversi (Franchetti, Gnecchi e Alaleona)
Purché si sappia poi indicare quale musica è di serie B e C.
Non so se Toscanini “capì” o meno il lavoro di Alfano (perché non avrebbe potuto/dovuto capirlo, “ovviamente”?). Giudicò che non andava bene. E a ragione, mi pare. Alfano ci mise troppo di suo, come conferma l’ascolto e quanto lei stesso ammette. E poi: troppo lungo. Troppo protagonismo (certo, poco raffrontato a Berio). E comunque anche del risultato finale (a chi non piace) il responsabile resta Alfano, non certo Toscanini. Ed è un risultato che a me sembra onesto; non mediocre, ma nei restauri e nelle integrazioni delle lacune la mediocrità non è un difetto.
Opinione tua: ti invito però ad approfondire le vicende del finale di Turandot e l’ottimo lavoro fatto da Alfano. Un compositore non è un filologo né un restauratore: se chiedi ad un musicista con una identità propria di concludere l’opera di altro compositore, ovviamente non ci si può aspettare che il nuovo sia una pallida imitazione del vecchio…e così Alfano agisce come un compositore rielaborando la materia pucciniana e creando un brano autonomo. Toscanini non capì quel lavoro (e immagino – come suo costume – sbraitò e bestemmiò farfugliando concetti pseudo musicali…) e costrinse Alfano a rifarlo. Il quale fece buon viso a cattiva sorte…fece ciò che gli chiese Toscanini: una pezza. Pezza che poi Toscanini sfigurò ulteriormente con tagli divenuti tradizionali. E neppure lo eseguì alla prima (gesto di grande scortesia ed arroganza, ma da Toscanini non c’era da aspettarsi altro). Probabilmente avrebbe dovuto farselo da solo (ma non era in grado). Lo firmò Alfano, ma senza alcuna libertà.
Opinione mia, s’intende. Quanto all’invito ad approfondire, be’, d’accordo, occorre sempre tornare sui banchi. Lei è convinto che Alfano abbia fatto un ottimo lavoro, scempiato da Toscanini. Ma nello stesso tempo ammette che più di una integrazione è un lavoro autonomo. Peccato che E’ una integrazione, e dovrebbe comportarsi come tale. Dopo due ore di ascolto di Puccini, la musica – a me pare – non dovrebbe subire una improvvisa metamorfosi. Mi faccia aggiungere che neanche uno scultore è un restauratore, epperò se restaura una statua antica, come avveniva tra ‘500 e ‘700, non pretende di conservare la propria individualità (un esempio? le integrazioni di Thorvaldsen dei marmi di Egina). — Per essere proprio chiari: il mio è un intervento più a difesa di Toscanini che contro Alfano.
Lo comprendo che il tuo è un intervento a difesa di Toscanini (musicista che sostanzialmente disprezzo), però la questione del finale di Turandot è un po’ più complessa (il mio invito ad approfondire è solo un suggerimento perché l’argomento è molto affascinante e più intricato di quanto normalmente si creda). Affidare ad un compositore dal linguaggio sostanzialmente diverso da Puccini (qual’era Alfano) il compito di scrivere il finale di Turandot, significa accettare l’autonomia dello stesso, altrimenti bastava fare quattro accordi e ricorrere a scelte meno identitarie. Alfano scrive con la libertà che un compositore DEVE avere (così come ha fatto Berio con lo stesso finale, o Rimskij-Korsakov con Musorgskij, o Ponchielli e Smareglia con il Duca d’Alba di Donizetti). Toscanini non accettò questa autonomia e costrinse Alfano a rifare tutto, e poi – ancora scontento – tagliò ancora.
Non so dove vada a pescare questo preteso dovere. Poi: a Berio rivolgo, di molto aggravati, gli stessi rimproveri (anche se la sua versione è “interessante”). Il caso di Rimskij-Korsakov è diverso, perché si tratta di un lavoro di editing (se posso dire così) delle note scritte da Musorgskij: il risultato è qualcosa di perfettamente coerente e va benissimo. Quanto al Duca d’Alba, non ho alle spalle un ascolto sufficiente a farmene parlare. Comunque, caro Duprez, mi sa indicare un saggio che ricostruisca tutta la vicenda nei dettagli (la mia ultima lettura su Puccini è la biografia di Michele Girardi del 2000)?
Diamoci pure del “tu”… Da dove deriva il “dovere”? Beh dal fatto che un compositore – di un certo livello – non è un mero compilatore o un musicologo, né un falsificatore dello stile altrui. Se si vuole far completare a qualcuno un’opera incompiuta (sulla traccia di schizzi poco decifrabili poi) e si chiede ad un compositore di farlo, allora ci si deve affidare alla sua arte, alla sua diversa sensibilità. Se Toscanini voleva un finto Puccini doveva rivolgersi a qualcun altro secondo me. Rimskij interviene su Musorgskij in modo invasivo e riconoscibilissimo, così fa Berio. Ma così fa pure Mahler con l’incompiuta Drei Pintos di Weber. Ma anche quando Donizetti aggiunge un duetto all’atto II del Siege di Rossini lo fa secondo il suo stile. O quando Rossini varia l’aria la “tremenda ultrice spada” in uno stile che all’epoca di Bellini era estraneo al compositore catanese. Su Turandot e il problema del suo finale ti suggerisco questo splendido volume: “Turandot di Giacomo Puccini, la fine della grande tradizione” di W. Ashbrook e H. Powers, edito da Ricordi.
Comunque trovo eccellente l’idea di andare a rumegar tra i musicisti dimenticati. Sono sicuro che avrà molto da insegnarci.
Mi tolga però una curiosità: perché disprezza tanto Toscanini? Non sarà certo perché sbraitava e bestemmiava, farfugliando concetti pseudo musicali. Voglio dire: è l’uomo o il direttore che disprezza? Immagino il direttore. Perché?
Non apprezzo il musicista e la sua idea di musica (che si riflette, secondo me, nei comportamenti inaccettabili), il suo approccio al testo musicale, le sue interpretazione e il suo orizzonte culturale (a mio giudizio assai basso).
Mi dia pure del tu, ne sono contento. Su Toscanini, la risposta è un po’ poco, ma sarà colpa della domanda. Su Turandot, mi ha convinto a riconsiderare la faccenda. Leggerò il saggio (non prometto, ho poco tempo) e ne riparleremo, se vorrà.
Su Toscanini vedrai che avremo tempo – più avanti – di riparlarne…