Fra il 1968 ed il 1980 al convento di San Giusto giunsero alcune delle ultime rappresentanti della corda del soprano spinto ossia quel tipo di voce in grado di reggere la tessitura centralizzante di Elisabetta e di sovrastare, soprattutto nelle perorazioni che aprono e chiudono il numero solistico, la massa orchestrale senza sforzo apparente. La prima con l’illustre guida di Claudio Abbado, che neppure trentacinquenne affrontava una delle poche partiture operistiche, che saranno -probabilmente per il forte contenuto di critica al potere ed antireligiosa – tra le sue preferite, è Rita Orlandi Malaspina. Fra il 1966 ed il 1979 il soprano bolognese cantò, soprattutto nei teatri italiani, molto repertorio verdiano sia del primo che del tardo. Chiuse, poco più che quarantenne, la carriera con il debutto in Norma a Macerata nel 1980. La voce era di quelle importanti e ricche sul modello Caniglia, Mancini o Stella. Cantava di dote naturale come la maestra (Carmen Melis) e la allieva più famosa della stessa (Renata Tebaldi). In possesso di una più rifinita tecnica avrebbe esibito piani e pianissimi più sicuri, acuti facili e penetranti e la carriera sarebbe stata assai più duratura. Il tutto dimostrato dalla Amelia veronese del 1972. Riferito all’assolo di Elisabetta davanti alla tomba di Carlo V basta sentire l’incipit dell’aria dove la cantante è incerta proprio sull’attacco che è un fa (come il successivo GOdi) e insicura nei tentativi di addolcire la voce sempre nell’invocazione (vedi “piangi sul mio dolore” che è un sol acuto) come pure nella realizzazione del “grandioso” sul “pianto MIO”. La sensazione ad un primo ascolto è proprio quella di una dote naturale esibita senza il necessario controllo tecnico, che consentirebbe a anche ad una voce ricca e dotata in natura di non arenarsi sui primissimi acuti e ciò nonostante più sotto la cantante appaia attenta alla dinamica, castigata e nobile nel contempo. Non sono risolti male due “topoi” come “Francia” ed il seguente “Fontainebleau”, ma l’impressione ad ascolto e riascolto è quella di suoni e smorzature frutto di una cospicua dote perché la sensazione è sempre quella di captare suoni malfermi e non ben sostenuti, ad onta del timbro nobile sfoggiato in frasi come “fra voi vaghi giardini etc…” con tutto quello che segue. La scrittura marcatamente centrale aiuta e non poco ed anche la discesa al la diesis sotto il rigo di “la pace dell’avel” è facile e sobria nel gusto. Però all’ascoltatore attento non sfugge che alla ripresa dell’invocazione iniziale la voce più volte suoni un poco spinta e forzata alla ricerca di una ampiezza di cui la cantante non disponeva. Alla fine infatti compaiono un paio di suoni acuti spinti e prossimi al grido e qualche lievissima fissità nei pianissimi, tipici sintomi di stanchezza vocale. Che talvolta la mera dote timbrica basti è evidente alla frasetta “Al ciel io raccomando” ed a quella seguente “no pensate a Rodrigo” dove per essere eloquenti a Rita Orlandi Malaspina basta il timbro di qualità, quando il cantante ne dispone. Al contrario basta ascoltare la frase “i fior del paradiso” per sentire che sul sol acuto di “paraDIso” succede qualche cosa e che il suono è rispetto ai precedenti stimbrato. Non che l’attacco di Prevedi su “vago sogno” dove lo spartito prevede “dolcissimo” risponda proprio alle indicazioni, il cantante, infatti si trova assai più a suo agio nelle frasi successive, marcatamente centrali ed a sfondo declamatorio, anche se l’accento non è quello arroventato dell’amoroso da grand-opera, magari un poco invasato. Il tradizionale taglio di “sì l’eroismo è questo” risparmia ad entrambi gli amorosi note scomode ed acuti scoperti. L’esecuzione di “ma lassù” è calibrata ed apprezzabile, il timbro davvero di qualità, ma le idee interpretative ( e diciamola tutta chi stava sul podio non ostacolava i cantanti, ma non era certo l’ispiratore di accenti e soluzioni eloquenti) al di là del generico dolore e ricordanza latitano anche se –ripeto- entrambi i cantanti centrano il momento drammatico ed anche Prevedi suona dolce e la salita di Elisabetta sul mezzo forte al si nat di “sospirato” è facile. Ma alla fine manca qualche cosa in tutta quanta la realizzazione vocale si ha come un senso di incompletezza e di precarietà ad onta di una esecuzione, che non ha difetti capitali.
Qualche anno dopo a Roma sotto la guida di Schippers veniva proposta un’esecuzione del titolo verdiano, che aveva nella voce sontuosa di Martina Arroyo (Elisabetta) ed in quella sensuale di Grace Bumbry (Eboli) il punto di forza. Oltre tutto è uno dei pochi casi documentati da registrazioni in cui entrambe le voci richiamino, come giusto, quella del cosiddetto soprano Falcon.
Martina Arroyo è celebre per l’estrema facilità con cui sa cantare tutto e tutte le note, cui fa da contraltare accento distaccato e talvolta inerte. Limite questo meno evidente nella statuaria regina di Spagna quando, come accade per la cantante americana, si disponga di un mezzo davvero eccezionale.
Basta sentire l’invocazione iniziale: se la voce in basso non è eccezionale salendo è davvero raggiante e splendente ed è quasi impossibile captare le molteplici varianti di dinamica ed intensità, affascinati –riconosciamolo pure- dalla mera qualità timbrica. Precisiamo che quando si trattava di pregare ed implora la Arroyo primeggiava in grazia della pura dote timbrica. Lo comprovano Aida e Leonora di Calatrava. La voce era sostenuta da una ragguardevole dote tecnica dimostra inequivocabilmente la facilità della messa di voce sul topico di “Francia” e “Fontainebleau”. Quanto attacca il “tra voi vaghi giardini” sorge spontaneo chiedersi perché la cantante non rispetti l’indicazione di pp, poi nel prosieguo della frase sino alla serie di forcelle sentiamo una voce sempre più ampia e torrenziale. Insomma il piano ed il pianissimo sono commisurati alla dote di ciascun cantante e, quindi, non possiamo che ammirare le autentiche bordate di suono del soprano di New York alternate agli alleggerimenti ed alle smorzature della sezione conclusiva dell’aria. Parsimoniosi potrebbero dire i fans della Caballè. Alla fine fragorosi applausi da parte di un pubblico, quello romano, generalmente freddino. Abbiamo detto che la Arroyo essenzialmente cantava paga del timbro splendido e della eccezionale cavata. Ma quando entra Gianfranco Cecchele, che come tutti gli imitatori di Mario del Monaco non sostiene il suono, ma lo affonda e che come ogni affondista, che si rispetti (da del Monaco a Kaufmann) in alto non può squillare, bensì gridare come accade sulla frase “sublime eccelso avello” che porta la voce al si bem e che non è in grado di fraseggiare, la compassata Martina diviene una tragédienne e le basta la frasetta detta come da spartito “dolcissimo” “i fior del paradiso etc” per distruggere l’improvvisato partner. Preciso che Cecchele in natura aveva una voce di qualità ed anche una certa presenza scenica, ma la tecnica era quella che era e qui, come altrove appena la voce passa un mi acuto, non può che cantare forte e declamare. Talvolta può anche funzionare (anche se compare Turiddu è in agguato) altre volte come all’attacco di “vago sogno m’arrise” mette solo in risalto i limiti del cantante. Attese le peculiarità vocali della Arroyo deploriamo il taglio del “ si l’eroismo è questo” dove avremmo ammirato –almeno- la facilità del registro superiore dell’Arroyo, siamo in parte compensati dall’attacco nobile e solenne del “ma lassù”. Si potrebbe anche dire che altre Elisabette coeve fossero più dolenti, sfumate e sofferente. Inutile negarlo, ma nessuna vanta la saldezza in tutta la gamma e la splendente unica qualità vocale di Martina Arroyo. Particolare inutile la facilità del si nat tenuto –non poco- nel finale, molto teso e drammatico sotto la guida di Schippers.
Terza ed ultima Elisabetta quella di Gilda Cruz Romo, che affrontò opere pesanti dal tardo Verdi sino a Puccini e che forse non disponeva della vera voce per quei titoli anche se ricordo una splendida Amelia del Ballo alla Scala nel 1975, che riscosse un successo non inferiore a quello della Caballè, allora ancora in buona forma. Nel 1980 al Met la cantante non era, forse, allo zenit della forma, ma è accompagnata da Levine, che soccorre e crea la cornice necessaria al momento scenico ed alle dote della cantante. Un esempio per tutti l’aria si apre e si chiude con la medesima invocazione. Nella prima enunciazione la Cruz-Romo non è brillante e le discese in zona grave sono poco felici e in zona medio alta compaiono anche poco gradevoli suoni fissi; nella ripetizione staccata ad un tempo leggermente più veloce i difetti si attenuano anche se resta il dubbio che il soprano sia alle prese con una parte superiore alle proprie doti. Nella seconda enunciazione il soprano messicano è molto attenta ai colori ed alle sfumature, un po’ meno nella prima. Quanto alla sezione centrale dell’aria la cantante è, in generale piuttosto piatta nel soliloquio “Carlo qui verrà”, poi forse perché versata più all’espressione lirica che a quella tesa e drammatica, forse perché sostenuta egregiamente dalla bacchetta dal “Francia” in poi cambia e canta con grandissima attenzione ai segni di espressione ed al clima di ricordi del passo. Unico neo a riprova che di vero soprano di forza non si trattasse, una “pace dell’avel” con suoni gravi piuttosto aperti ed espressione enfatica.
Al pari della Arroyo al duetto anche la Cruz Romo primeggia. Basta sentire Giacomini gonfio al centre e faticoso in zona centro acuta (siamo sempre al campo delle cinque pertiche, anzi alla scuola dell’affondo) per capire le ragioni della differenza anche se questa Elisabetta nelle prime battute evoca più Mimì (con voce sontuosa) che Elisabetta di Valois e alla scomoda frase “i fior del paradiso” se la cava di misura, ma davanti ad un tenore di voce ingolata ed indietro e soprattutto priva di armonici questa Elisabetta svetta. L’edizione è integrale e quindi è eseguito anche il marziale “si l’eroismo è questo” a tempo molto veloce perché il passo è pesante per le voci prescelte tanto è che la Cruz Romo emette un paio di suoni sul sol e sul la acuto ballanti perché spinti. Va segnalato che alla chiusa della sezione su “ad essa mancherò” Giacomini rispetta la forcella prevista.
Nella parte conclusiva quella del disperato addio fra i due amanti, che tali non sono mai stati, il tempo lento staccato da Levine rende bene il senso del disperato addio; la Cruz Romo si fa un po’ prendere la mano e se l’accento ed il legato sono giusti ogni tanto indulge a qualche suono un po’ bamboleggiante, mentre per il tenore, al proprio enunciato del “ma lassù” per il tempo staccato e l’esigenza di cantare piano e con morbidezza (sarebbe il caso dire simulando morbidezza) strascica i suoni. Per contro nelle frasi di controcanto, dove la tessitura di Elisabetta è davvero grave e scomoda per un soprano assoluto la Cruz Romo canta con volume esiguo, ma con suoni morbidi, a fuoco e raccolti e l’interprete è compostissima, dissento dal vezzo (a la Caballè, ma era il 1980 e i vezzi del soprano catalano erano diffusi ed apprezzati) di attaccare flautato e, quindi, fisso il si nat di “sospirato”. Poi riascolto le tre Elisabette ed uno dei don Carlo (quello scaligero) e sconsolato mi domando quante delle sei recite, che un teatro con questi cantanti programmerebbe, mi perderei. Forse una!
Gli ascolti
Verdi – Don Carlo
Atto V
Tu che le vanità…E’ dessa! Un detto, un sol…Sì, per sempre!
Martina Arroyo, Gianfranco Cecchele, Cesare Siepi, Carlo Cava, Franco Pugliese, dir. Thomas Schippers (Roma 1974)
Martina Arroyo è stupenda in questa parte.
Nella mia classifica di San Giusto è in testa assieme ad Antonietta Stella.
Supera anche, in qualità di una maggiore compostezza, la prestazione della Steber.
Mi chiedevo, prima di andare a leggere la nuova rubrica ‘un direttore al giorno…’ se fossero rimaste testimonianze audio della Callas, che se non sbaglio ha cantato il ruolo alla Scala nei primi anni cinquanta…
Grazie e ciao a tutti!
Marco
Io adoro questa rubrica, lo scrivo ogni volta, ma è così
La Arroyo è davvero impressionante per la facilità con cui canta e per l’enorme bellissimo vocione ottimamente gestito. Qui la trovo anche piuttosto partecipe ed è proprio una regina. Unico appunto: i gravi un poco fiochi rispetto al resto della voce, ma è cosa da poco e si nota solo perché la voce è splendida e squillantissima in tutto il resto della gamma. Peccato per il taglio nel duetto perché la Arroyo sarebbe stata magnifica. La direzione di Schippers valorizza l’intera scena. Cecchele affonda e pompa molto la voce, ma è comunque meglio di Giacomini perché pare più naturale. Una bomba il Si finale!
La Cruz Romo sembra una Caballe in positivo: molto più misurata, attenta alle sfumature e alla dizione, tutt’altro che generica. Effettivamente si sente che la voce è un poco leggera rispetto alla parte, ma ne esce davvero bene e mi piace molto nonostante qualche acuto un poco spinto e qualche grave un poco aperto. Gli applausi del pubblico sono davvero sentiti e credo che se fossi stato presente avrei unito i miei senza esitare. Anche Levine mi piace nella direzione. Giacomini non mi piace per nulla e il “gonfio” utilizzato da Donzelli è certamente l’aggettivo più azzeccato.
Sulla Orlandi Malaspina concordo con il giudizio di Donzelli. Bellissimo timbro, grande dote non pienamente sfruttata e dunque con varie insicurezze, che però sono nulla in confronto a quel che si sente dalle Elisabette dei nostri giorni. Si apprezza anche in questo caso la dizione, davvero sconosciuta nel presente a parte alcuni parlatori che non cantano. Bello l’acuto nel finale. Prevedi non è affatto male, ma gli manca il quid. I bassi orrendi tutti.
Sono curioso di sapere chi saranno le prossime che andranno al convento: cameriere o regine? XD
La Callas ha lasciato alcune registrazioni, in studio e dal vivo, di “Tu che le vanità”, oltre a “Non pianger mia compagna” e “O don fatale”. cfr. https://www.youtube.com/watch?v=l7AOCu1If80