Dopo l’esperienza Fura del Baus , l’Arena cambia rotta in fatto di registi e torna alla “saggezza degli antichi” che il loro mestiere lo sanno fare in ogni condizione, e bussa nuovamente alla porta di Pierluigi Pizzi per la new production del 2014 di Un Ballo in Maschera. E Pizzi fa, efficiente come un motore perpetuo, con adeguatezza e mestiere, senza presunzioni o velleità, realizzando uno spettacolo che funziona bene per l’Arena, concedendo al popular una parte e riservando il cuore della vicenda, la storia d’amore, al suo ideale di bellezza e poesia. Nulla è nuovo, ma tutto funziona, anche gli aspetti meno convincenti, oliato dalla maestria tecnica dell’anziano costumista scenografo che giostra abilmente i suoi elementi base, costumi, scene, giustapposizioni cromatiche, simmetrie di architettura e movimenti, luci e pose. La citazione reinventata, rielaborata e sviluppata all’infinito, quasi anche all’inflazione di sé, è il procedimento creativo da grande industria artistica barocca che da sempre muove il lavoro di Pizzi, assicurando il risultato che operazioni come queste presuppongono sul nascere.
Potremmo scrivere molte pagine sulle fonti architettoniche che hanno ispirato la colonnade centrale che governa l’impianto scenografico principale e i due “tempietti” laterali che fungono da ambienti privati di Riccardo e Renato di questo suo nuovo Ballo, ma sarebbe inutile. Pizzi ha talmente introiettato il mondo dell’architettura neoclassica e barocca che come un architetto del settecento pensa ed agisce, servendosi dell’educazione sulle fonti, gli antichi appunto, la colonnata di Bernini o forse quella di Perrault, o piuttosto quelle degli architetti visionari francesi; le balaustre di Michelangelo come quelle di Kent e di Burlington oppure di Jones o dei fratelli Adam; i tempietti circolari, da Bramante a quelli dei giardini dei Parnasi settecenteschi di Petitot o, di nuovo, del palladianesimo inglese. Le fonti sono tutte nella sua testa e gli appartengono, come il modo stesso di creare l’immagine, che deriva direttamente dalle incisioni e dai trattati di architettura che possiede. Chiedersi se per questa occasione sia stato ispirato al neoclassicismo americano del Jefferson’s memorial piuttosto che a quello lombardo in mezzo al quale è nato o ai lombardi che hanno immaginato San Pietroburgo non ha senso, perché, proprio come un architetto neoclassico, lui pensa e si muove quando l’ambientazione di un‘opera glielo consente. La rielaborazione della citazione fa parte della sua arte di organizzare e distribuire l’azione sul palco, razionalizzando movimenti ed effetti per pervenire a quadri, anzi, ad immagini perfettamente definite ed armonizzate. Così è, del resto, lo scenografo architetto dal tempo dei Bibiena in poi. Non c’è la velleità di stravolgere le cose o dire cose che vadano oltre il libretto: l’obbiettivo è assecondare l’azione ed il canto, perciò il lavoro sui protagonisti riguarda la loro bellezza scenica, come sono idealmente gli amanti della più grande e travolgente storia d’amore di Verdi, i costumi, le parrucche, il trucco. La storia di Amelia e Riccardo registicamente è costruita con due immagini, la prima, quella dei due protagonisti che al preludio si guardano distanti dalla cima dei due tempietti, separati come, poi, lo saranno per sempre; la seconda, cinematografica, del duetto d’amore, lei in nero e lui in bianco, la notte con i cipressi e la colonnata alle spalle, a cantare il duetto d’amore vicini, elegantissimi. Quindi la concessione al colore areniano e veneto, la cosa meno riuscita per me, sia nell’antro di Ulrica che nel ballo finale, con gli abiti che citano l’oleografia veneziana, volutamente extrabostoniana, troppo ruffiana e troppo da souvenir della laguna per non sembrare turistica. Nessun tentativo di elaborare il tema dei contrasti tra la puritana corte bostoniana ed il giocoso conte magnanimo, sempre alle preso con lo scherzo ed il travestimento, nel palazzo come da Ulrica, il contrasto tra il gioco di corte da una parte e la serietà, la forza incontenibile dei sentimenti privati e nascosti dall’altra. Pizzi ha composto un altro patchwork sapiente di se stesso e della sua lunghissima carriera, ma non solo, con concessioni ai cantanti, al tenore in primis che, podista, canta tutti i suoi assolo una strofa a destra ed una a sinistra sul palco, in un avanti e indietro funzionale al farsi sentire ma che fa troppo Broadway ( o Arena ); lei, prima in blu cobalto, poi in nero quindi in bianco, regina del centro palco; le corse simpatiche da una parte all’altra di Oscar in rosso. A ciascuno il proprio gradimento, sembra voler dire Pizzi, che ci rassicura sin dal preludio che dopo certi stupri visivi, di battone, autostrade, studi televisivi, sodomie etc, lui non ci disturberà, lasciando lo spazio per cantare ed aiutando i cantanti a farlo, ad essere ciascuno il proprio personaggio. Ed il fatto che nel 2014 dopo l’episodio “progressista” della Fura in Aida sia ancora Pizzi ad inaugurare l’Arena, la dice lunga sulla solidità dei risultati del recente teatro di regia e connessi derivati rispetto alle grandi platee.
L’Arena per questo Ballo ha messo in cartellone dei nomi che provano l’ambizione della direzione artistica di comporre una grande produzione, nomi che normalmente frequentano questo repertorio nei primi teatri del mondo. Peccato che i signori protagonisti in questione siano, come oggi accade di prassi ad ogni latitudine e contesto teatrale, vocalmente sottodimensionati per il titolo, che sarebbe affare, soprattutto all’aperto, per voci dalla stazza di Tucker, Arroyo, Price, Bergonzi, McNeil, Cerquetti, Cossotto, Cappuccilli etc etc. Si fosse trattato del Faust di Gounod, opera bellissima, ben più degna di una esecuzione integrale del Romeo et Juliette, saremmo stati nel reale “fare bene”, ossia nello scegliere voci che cantano in parte. Cosi invece abbiamo assistito ad una serata certamente di successo di pubblico ma “mignon” se rapportata alle esigenze reali del canto verdiano. Con questi presupposti “l’accento verdiano” ce lo dimentichiamo, perchè ogni frase diventa un’impresa quando tutti sono presi dal far finta di essere quello che non sono. Al chiuso si può anche barare, ma all’aperto è pia illusione, e questo è il problema centrale di questa ricca produzione del Ballo in Maschera.
Per sommi capi, iniziando dai ruoli non protagonisti
Oscar credo sia il ruolo meglio riuscito del repertorio di Serena Gamberoni. Eppure quella prova nitida e convincente offerta in quel di Parma stenta a risentirsi. In particolare nel primo atto la voce è parsa dura e forzata, rigida nei parchi ornamenti, a volte facile, a volte tirata in acuto. Molto meglio nel prosieguo della serata, un crescendo verso l’ultima scena cantata bene. Inutile dire che scenicamente funziona.
Elisabetta Fiorillo Ulrica è fuori tempo massimo. Dal mio posto di gradinata ho sentito le sue celebri note di petto, poi il resto era meglio non udirlo, sebbene i decibels fossero assai meno che nei gravi. Voce spaccata in due, timbro da sopranino, a tratti più “ino” della Gamberoni (!), canto tutto a gradini e inceppi, suonacci e sgangheratezze varie. Efficace da vedere, complice l’arte del costume di cui Pizzi è mago.
Luca Salsi Renato mi è parso assai meglio che a Roma in Ernani, complice anche la natura della parte. Come gli altri due protagonisti principali, ingrossa la sua voce fin dove può e fin tanto che riesce a gestirla, ma poi le imbarcate le prende, la dove la scrittura comincia a salire. La prima è arrivata nella seconda parte della seconda strofa di “Alla vita che t’arride. Nel resto se la cava, dispensando la retorica del baritono roboante e perentorio, come nelle frasi che aprono al scena con Amelia, ma poi sono vere note dolenti quelle della seconda aria, per la quale si sforza di avere una voce drammatica che di suo non possiede, perdendo in eleganza a favore dell’aggressività truce. Nella seconda sezione, dove Verdi si inventa uno dei momenti più straordinari che abbia mai scritto per un baritono, “ O dolcezze perdute o memorie…”, in cui ripiegamento interiore, nostalgia e dolore dominano le frasi che si fanno via via sempre più acute, la voce gli và indietro, gli acuti suonano strozzati e la poesia del brano, che richiede anche di saper cantare a fior di labbro, si perde. Forse abbandonare la via interpretativa del Renato perentorio a favore di quella, praticata da moltissimi baritoni celebri di inizio secolo scorso, del marito tradito, dolente e ferito, gli sarebbe più conveniente. Elegante, ha recitato bene.
Hui He canta Amelia con una voce dolce e lirica, adeguata al lirismo, appunto, di Butterfly e con cui al massimo può manipolare quello, ben più statuario, di Aida ma che all’aperto non è abbastanza ampia e penetrante per il monumentale e violento dramma interiore della protagonista del Ballo, che oscilla tra la forza della grande passione ed il dovere. L’onere vocale del ruolo è tale per cui esso è sempre comparso tardi nel repertorio delle voci pesanti e per primo ne è uscito, anzi, talune cantanti se ne sono tenute ben distanti, mentre d’abitudine cantavano Forza, Don Carlo, Aida etc. Il soprano cinese non si tira indietro e ne esce con onore ( la sola del cast a farlo, a mio avviso), dimostrando di essere fatta di ferro fisicamente e di saper manovrare la voce in acuto. Le riesce di barare solo in parte, però, perché Amelia non si presta né vocalmente né come personaggio ad essere manipolato e liricizzato. Una prova meramente vocale quella di Hui He, dove il cantare senza perdersi nel mare magnum della scrittura, senza mai essere sgangherata o urlare, era già un grande obbiettivo, mentre accentare verdianamente è impossibile per forza di cose.
Quando canta in zona centro acuta è sicura, resiste allo slancio della prima aria e del duetto come alle note ribattute del terzetto o a quelle tenute della scena finale, anzi, siccome il suo partner al duetto d’amore gli acuti non li ha, è proprio Hui He che “tira” la scena. A mantenere un suono più corposo di quello di cui naturalmente dispone per sembrare più “voce” di quanto non sia, il soprano cinese riesce fino ad un certo punto della serata, come è naturale che accada in queste circostanze. Il gioco funziona fino alla fine del secondo atto, ma poi al terzo sopraggiunge la fatica. Nella seconda aria manca di forza d’accento, ma sopratutto del sound necessario per le ampie frasi dolenti, la voce sfuocata e ingolfata, il legato faticoso. Il Ballo del resto richiede per Amelia una zona centro grave più importante e salda di quella di Hui He anche perché la parte vi insiste ripetutamente sin dalle frasi di ingresso nell’antro di Ulrica, mentre in questa zona della voce il soprano cinese ha il suo punto debole. Detto ciò, una prova vocale rimarchevole, perché la He gestisce, cantandola sempre, una parte assai più grande di lei e che non ammette sconti. Scenicamente brava, vestita benissimo da Pizzi, evoca, non a caso, Contessa e Manon più che la statuaria Amelia.
Francesco Meli è Riccardo. Della sua prova nel Ballo abbiamo già ampiamente parlato in passato e non serve ripetersi. Trovo che il ruolo gli stia assai più di Ernani e Manrico, anche perché il primo atto, con la sua atmosfera cortigiana e scherzosa, gli permettere di cantare con una certa leggerezza. Poi il ruolo prende un altro peso ed un altro slancio dal duetto d’amore, che al chiuso e in forma, riusciva a gestire. In questa occasione più faticosa, dove si muove anche tanto sulla scena, l’ho trovato molto corto e decisamente affaticato sin da subito, al primo atto. Cerca anche lui un suono più importante di quello che naturalmente possiede al centro ed il risultato prevedibile è che diventa sguaiato oltre a faticare già sui primi acuti. Quanto risenta del cantare all’aperto piuttosto che del repertorio che ha attivamente intrapreso ultimamente poco importa. Mi pare importante osservare solo che il suo Riccardo è sceso un po’ troppo di qualità rispetto a quello di cui era capace al debutto e forse un momento di riflessione si impone. Elegantissimo e visibilmente dimagrito, recita bene, ed è anche lui molto bello da vedere. Con la sua compagna di duetto paiono perfetti per la scena di St Sulpice o quella del giardino del Faust.
Sul podio il discusso giovane Andrea Battistoni, beniamino di casa, alle prese con una partitura che richiede di saper fraseggiare con l’orchestra, oltre che accompagnare il canto, assecondando il continuo cambio di situazioni drammaturgiche contenute nella partitura, il continuo cambio di atmosfere, da quello di corte a quello della passione amorosa, dall’ironia alla vendetta, dal dolore alla congiura… La sua direzione è andata via a tratti, alcune cose discrete, altre decisamente male, gli ensemble in particolare, dove più che dirigere ha fatto del chiasso. Poche le nuance, scarsa la caratterizzazione delle varie scene, un buon ritmo della serata ma nulla che sia andato oltre la routine areniana, con un’orchestra il più delle volte pesante e bandistica. Credo che con una direzione più sapiente e varia, capace di rendere maggiormente il capolavoro verdiano, la serata avrebbe potuto essere essa meglio, sul piano musicale, di quella che è stata.
Ci ha poi pensato la triste Carmen della sera dopo a conferire maggior valenza musicale a questa produzione di Ballo in Maschera, almeno sul piano relativo del nostro difficile presente lirico.
A tutti voi propongo l’edizione fiorentina del Ballo di Riccardo Muti, protagonisti principali Christine Deutekom e Richard Tucker. Soprano ufficialmente da Lucia lei, quasi sessantenne lui, dentro una cornice orchestrale superlativa, come mai più Muti ha saputo creare. Di lei vi invito ad ascoltare i fiati portentosi ed il modo di risolvere la zona centro grave, alta, chiara e sonora; di lui, il modo tonico di cantare, magari non più fraseggiato come un tempo, ma capace di una prova vocale atletica davvero impressionante. Enjoy!
Che meraviglia l’ascolto ! Io vado in Arena il 19 Luglio e rispetto al cast citato vedo che Renato sarà Dalibor Jenis, il che, ricordando il recent Tell torinese, non induce grande ottimismo…
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Eccomi qua. Confermo in sostanza il commento della Divina. La regia mi è piaciuta: non è che io abbia le competenze architettoniche che dimostra di avere la Grisi. Mi limito ad osservare che dopo tante stramberie o vere e proprie brutture (ricordo che qualche tempo fa mio fratello mi ha fatto vedere su you tube un allestimento dove, durante il preluddio, si vedono i cortigiani “cattivi” seduti sulla tazza del cesso) era una regia funzionale, che non snaturava la trama.
Ho trovato piuttosto inconsistente la direzione di Battistoni, che quasi mai mi è parso riuscire a trovare l’atmosfera “giusta” per le diverse situazioni (fatta salva una bella prima scena del secondo atto); all’introduzione del secondo quadro mi aspettavo di vedere comparire Amelia la fattucchiera che ammalia. Perla nera della serata il ritornello “E’ con Lucifero d’accordo ognor” dopo la prima strofa di “Volta la terrea”, quando la Gamberoni gli è dovuta letteralmente correre dietro. Gamberoni che è stata forse la migliore, almeno fino al terzo atto (in “Ah di che fulgor che musiche” sembrava davvero affaticata). Rispetto al cast visto da Donna Giulia, i cambiamenti riguardavano Dalibor Jenis (Renato) e Sanja Anastasia (Ulrica). Il primo decisamente inadeguato: ha spesso e volentieri di “scurire” la voce, con risultati abbastanza pietosi. Si è strozzato letteralmente in “O dolcezze perdute o memorie”. Della Anstasia è bello tacere: voce spaccata in due ed intonazione che era un optional su tutta la gamma. Sulla Meli e la He ha già detto tutto la Grisi: la He (che, almeno vista col binocolino, mi è parsa anche una bella ragazza) è stata la migliore, ma è arrivata al terzo atto davvero sfinacata; cosa che, oltre che nell’aria (piena di singulti, sospiri e singhiozzi assai fastidiosi), si è notata soprattutto nelle frasi durante “sconterà dell’America il pianto”. Come direbbe Mozart2006, da profonda provincia Tedesca il resto del cast. Chiedo scusa per la lunghezza e chiudo con una considerazione perosnale: ma, nonostante tutto, quanto bella è quest’opera ? Sarà perché è la prima che ho sentito in vita mia, ma a me va sempre venire i “penoti”, come si dice in vernacolo veneto.
Grazie Franz. Molto chiaro, salvo una cosa : a quale aria del soprano ti riferisci, la seconda forse? Grazie dellamcronaca
Sì sì, mi riferivo alla secondaaria.
Che meraviglia la recensione della divina! Da vecchio scaligero e frequentatore di teatri ho letto quasi con commozzione tutto ciò che riguarda Pizzi. Brava Divina! Conosco questo artista da quando cominciò solo come scenografo con la compagnia che allora si chiamava “Dei giovani” (De Lullo, Valli, Falk, Guarnieri…). Fecero spettacoli memorabili che credo i Grisini non abbiano visto per ragioni di età. Sto parlando di preistoria (la mia giovinezza). Leggere quello che ha scritto madam Grisi è stata una gioia perchè ha centrato perfettamente la personalità di Pizzi, nei suoi pregi e nei suoi difetti….La Fura del Baus “la po andà a ciapà i rat”. Sono dei lestofanti ripetitivi che giocano (ormai da tanti anni) sullo stupire la gente. Ho visto delle cose loro noiosissime, fino ad arrivare ad una “Damnation de Faust” (credo a Salisburgo) di una stupidità esemplare!!! Bravissima Divina.
Per il resto è come se avessi visto lo spettacolo. Non vado più in Arena da molti anni perchè è diventato troppo faticoso. Ma leggendo il “Corriere…”mi tengo informato.
Grazie. Saluti da Vivaverdi
Sul ballo dell’Arena, non ho nulla da dire, perchè non c’ero e non ci sarò.Ma mi ricordo, e vi ringrazio per avermi offerto questo tuffo proustiano, il Ballo in maschera del Comunale di Firenze con la Deutekom e Tucker.
Io c’ero e la cosa mi emoziona, non per quella produzione in sè che la vedeva la Deutekom in una parte non sua e un tenore bravissimo ormai in fase calante. La Deutekom fu giudicata inadeguata alla parte dalla critica. Forse era ancora troppo vivo il ricordo di altre voci come la Cerquetti, la Stella…-
Il comunale di Firenze, allora, anni ’70, faceva grandi spettacoli, con registi e scenografi bravissimi: l’Orfeo Muti – Ronconi, il Werther Kraus-Terrani-Pizzi-Pretre, l’Agnese con la Gencer e la Vestale con la Scotto e così via…,
Sono secoli che non vado più al Comunale… pardon… al Teatro dell’Opera di Frenze.
Vero, caro sedjemef, verissimo, ma permettimi una piccola correzione: Nel Werther Kraus- Valentini-Pretre (1978) il regista scenografo costumista era Luigi Samaritani.
E’ vero! Grazie! Ho ancora negli occhi la scena e i colori. Stupenda! la memoria, a volte, viene meno.
Non me lo dire… mi capita in continuazione!
Carissima Donna Giulia,
Ieri sera ho bevuto il calice piuttosto amaro di questo Ballo in televisione.
Che dire? Le Vostre analisi mi si figurano sempre così lucide, documentate, puntuali, da non lasciare molto spazio ad altri interventi; mi limito quindi a poche considerazioni, come sempre molto personali.
Le voci:
i criteri di selezione – o forse la mera incompetenza di chi a quella selezione è preposto – fan sì che gli artisti gravati dai ruoli principali risultino inferiori ai comprimari di un tempo.
Per chi è dotato di memoria storica – e con la storia non si scherza – è indubbio che interpreti quali Piero de Palma, Florindo Andreolli, Anna Di Stasio, Flora Rafanelli (e altri ancora) sarebbero usciti a testa più alta dalla prova imposta dal Verdi del Ballo.
Io stessa mi pento e mi cospargo il capo di cenere per aver snobbato – a suo tempo – cantanti quali Rita Orlandi Malaspina, Luisa Maragliano, Flaviano Labò, Mario Zanasi, (e altri ancora) e mi chiedo se non sia stato anche questo atteggiamento snobistico – purtroppo alquanto diffuso – a contribuire all’attuale decadenza.
Fatto è che i protagonisti vocali della serata – tutti compresi in una gamma che va dall’inascoltabile all’inadeguato (tranne, forse, la Gamberoni) – sono tra gli stessi pochissimi che ritroviamo proposti dai maggiori teatri.
Lo spettacolo:
Il Pizzi scenografo e costumista, con la sua enorme esperienza, cultura visiva, e capacità di blandire l’occhio del pubblico – una volta così funzionale alla realizzazione di concetti altrui – c’era tutto.
Il Pizzi regista – costretto ad affidarsi a goffi quanto inutili sgambettamenti di poveri tersicorei, a sbandieratori e a modesti fuochi d’artificio – latitava.
Però… però… mai avrei immaginato di trovarmi a tirare un respiro di sollievo nel constatare che – nell’orrido campo (ma quanto deve esser difficile impiccare qualcuno a un cipresso!) – la cara Amelia non viene aggredita e derubata da impertinenti mignotte….. Grazie Maestro!
cara lily, le “impertinenti mignotte” mi hanno fatto morire dal ridere…..!!!!!!!!!!!!!!!
oggi sei severa, un po’ troppo dai…la flora rafanelli era una mostra oscenissima ahah! certo, la voce sontuosa di rita orlandi malaspina o l’arte di flaviano labò oggi non sono disponibili, nemmeno in sogno…. non ho visto il video ieri sera, che immagino impietoso anche nel visual, perche mi sa che quello che nasce per essere visto da 30 metri di distanza, da vicino sia assai diverso. però..però..non essere più distruttiva di noi. qualcosa di buono c’era…
La Rafanelli era IMPERIALE !!!!!!
Ma, per tornare a un argomento di qualche settimana fa: sospetti di microfonamenti ?
Mi pare che sia cosa nota, vero?
Eh, si’, ma non ho l’esatta cognizione di quanto diffuso sia il fenomeno, cioe’ se applicato sempre, a tappeto, tutti gli anni e per tutti gli spettacoli.
Pensavo, o meglio, speravo che potesse non essere cosi’ ma, a questo punto, dalla tua risposta deduco di dover abbandonare le speranze, ahime’.
So quello di cui ad esempio in barcaccia si è parlato l’altro giorno per l arena. Ci sono anche articoli nel web circa vari teatri americani, ad esempio….