TRAVIATA à Paris (Opéra Bastille, 05/06/14): “… povera donna!…”

Damrau-Traviata-Paris2Diana Damrau debutta sul massimo palcoscenico lirico francese, protagonista di un allestimento nuovo fiammante griffato Benoît Jacquot, per il quale è già programmata, alla rentrée 2014, una ripresa con altro cast, in ragione della fortissima domanda di biglietti riscontrata al momento dell’apertura delle prenotazioni di questa serie tardo primaverile. Era l’occasione di riascoltare, dopo Milano, la Violetta della cantante tedesca, in un contesto che si poteva supporre un poco più favorevole rispetto alla discutibile (e difatti fervidamente discussa) produzione scaligera. Purtroppo anche questa volta il soprano ha dovuto confrontarsi, o per meglio dire scontrarsi, con una direzione musicale e scenica assolutamente inadeguate e che hanno fatto ben poco per agevolare il compito di una cantante alle prese con una parte in ogni senso troppo onerosa per la sua voce. Questo non per giustificare o assolvere, more ausonio, la solista, bensì per evidenziare una volta di più come le buone intenzioni del singolo siano destinate al naufragio, in assenza di un valido supporto da parte di buca e cabina di regia. E proprio da quest’ultima deve iniziare la cronaca. Jacquot rispetta l’ambientazione ottocentesca (benché si passi dalla Parigi di Luigi Filippo a quella di Napoleone III) ma, evidentemente timoroso di risultare retrogrado, strizza l’occhio agli allestimenti in chiave psicanalitica (che, come il nero per le signore, va bene in tutte le occasioni): così, ad esempio, il primo atto si svolge in un ambiente neutro e quasi vuoto, dominato dal lussuosissimo letto a baldacchino di Violetta, sul quale troneggia una riproduzione dell’”Olympia” di Manet (a rendere ancora più evidente, come se ce ne fosse bisogno, il riferimento pittorico, Annina ha la pelle nera ed è abbigliata come la cameriera del ritratto). Il coro (sia gli uomini che le donne) è in cilindro e redingote e assiste alla festa in perfetta immobilità, a ritrarre, con ogni evidenza, il mondo della morale borghese che osserva, spia, giudica la vita del demi-monde parigino (peccato che la realizzazione faccia pensare piuttosto a un tè danzante per turisti in vena di carnevalate o, in alternativa, a un paio di coppie di amici che si ritrovino per fare “quattro salti” la domenica pomeriggio). Nel secondo atto la contrapposizione fra l’idillio sognato da Violetta e il brusco ritorno alla realtà si concretizza con un palcoscenico diviso in due: côté jardin (ovviamente) la dimora di campagna, riassunta in maniera piuttosto pedestre da un solo albero di dimensioni hollywoodiane, côté cour una scalinata in stile Secondo Impero su cui sfilano (si fa per dire, visto che l’immobilità delle masse regna, ancora una volta, sovrana) zingarelle (ossia uomini travestiti da donne) e matadores (viceversa), poi intrecciati in una coreografia a metà strada fra Almodóvar e il Bagaglino. Nel terzo atto torna il grande letto dell’incipit, ma il materasso è già stato arrotolato e il grande quadro rimosso e appoggiato, capovolto, alla testiera: Violetta agonizza e muore su una sorta di lettino da campo. In tutto questo la regia non suggerisce ai cantanti una postura, un gesto, un cenno del capo che vada oltre le convenzioni più trite, quando non impone comportamenti assurdi, vedi l’invito di Flora, che Violetta accartoccia e getta a terra e che Alfredo, senza neppure raccoglierlo, identifica prontamente (virtù telepatica?) come l’indizio che gli occorre per rintracciare la fuggitiva. Oltretutto, una scenografia così “aperta”, con pochi arredi in quell’enorme open space che è il palcoscenico di Bastille penalizza non poco le voci, nessuna delle quali, con la parziale eccezione di Ludovic Tézier (muggente e stonato Germont, graziato – e noi con lui – della caballetta “della suora”), particolarmente potente o timbricamente suggestiva. Tanto più incomprensibile risulta pertanto la direzione di Daniel Oren, che compita correttamente il tema d’apertura del preludio atto I, ma quando attacca il valzer, sul cui ritmo si staglia (o dovrebbe stagliarsi) la melodia dell’arioso del secondo atto, precipita nell’accompagnamento bandistico e lì pianta radici, oltretutto adottando tempi sistematicamente ampi e sovente slentati, giustificabili solo in presenza di una Ponselle o di una Caballé, e magari di un Tucker o di un Bergonzi. Tanta noia, insomma, tanta solfa battuta senza convinzione, accompagnamenti ora fragorosi, ora scheletrici, sempre e comunque incapaci di veicolare un colore, un’atmosfera, di rendere l’ansia febbrile delle scene di massa e la disperazione del duetto con Germont e dell’atto conclusivo. Damrau-Traviata-ParisAccanto all’Alfredo di Francesco Demuro, che sul passaggio grida e singhiozza (gli attacchi di “Un dì felice, eterea” e “Parigi o cara”, il recitativo prima dell’aria e, più ancora, la scena della borsa sono sotto questo profilo assolutamente insostenibili) e per il resto “butta fuori” la voce senza preoccuparsi troppo dell’effetto sortito (“Amor è palpito” al finale primo – cantato peraltro da un palco di proscenio, e non dietro le quinte), Diana Damrau risulta più controllata e, probabilmente, rilassata di quanto non fosse a Milano: nel primo atto, dopo una scena iniziale ancora una volta all’insegna dell’afonia in basso e di suoni poco brillanti al centro, riesce, anche grazie al taglio della seconda strofa di “Ah fors’è lui”, a dar prova di un più saldo controllo del suono in zona medio-alta, cogliendo nel da capo di “Sempre libera”, accentato con plausibile nevrosi e quasi con sbigottimento, un lato del personaggio che raramente emerge e che, quel che più conta, può essere reso in maniera decisamente convincente da una voce di soprano leggero (benché priva, in zona sovracuta, del necessario smalto, come dimostra il mi bemolle, assai “tirato”, in chiusa). Al duetto con Germont père compare qualche suono poco felice e tendenzialmente gridato, ma il “Dite alla giovine” è più che accettabile, soprattutto se si considera il tempo letargico staccato da Oren. Benché la voce non si espanda nell’immensa sala di Bastille con la necessaria facilità, possono dirsi sostanzialmente riusciti tanto l’”Amami Alfredo” (non il recitativo che lo precede, in cui la Damrau tende a scivolare nel parlato) quanto, soprattutto, il finale secondo, in cui ancora una volta si ammira, prima ancora dell’arte della cantante, la resistenza fisica della donna, anzi dell’atleta, di fronte all’accompagnamento ministrato dal podio. Nel terzo atto c’è qualche suono poco stabile sui primi acuti e la qualità del legato (sia per limiti naturali e di comprensibile stanchezza, sia per un sostegno praticato più “alla bisogna” che non per sistema) lascia a desiderare, ma ancora una volta, in assenza di un direttore e di un regista degni di questo nome, sarebbe stato un miracolo sperare in una Traviata cantata meglio di così. Alla signora Damrau possiamo solo augurare di incontrare al più presto compagni di viaggio in grado di valorizzarne le qualità, anziché limitarsi a evidenziarle, come accaduto finora, per contrasto ed esclusivamente in forza delle proprie fatali carenze.

 

Verdi – La Traviata

Atto II

Invitato a qui seguirmi…Ogni suo aver tal femmina…Di sprezzo degno…Alfredo, Alfredo, di questo core – Diana Damrau, Francesco Demuro, Ludovic Tézier – Daniel Oren (2014)

3 pensieri su “TRAVIATA à Paris (Opéra Bastille, 05/06/14): “… povera donna!…”

  1. Certo che tutte queste recensioni da Pariggi…un po’ ti invidio Tamburini, potresti portarmi una volta con te…farei il bravo. Cmq non avendo assistito allo spettacolo l’unica cosa che posso fare é il confronto dei complementi d’arredo predisposti per Pariggi (Napoleon Truà) rispetto a quelli predisposti a Milano (Provenzale petitteburgiuà -come diceva il mio professore meridionale). Forse il regista Jaquot ha chiesto al suo scenografo di evocare il letto di Nanà (di cui all’omonimo classico di Zola), ma non mi pare esserci riuscito. Ritengo i francesi spesso tirchi e anche in questo caso la Scala si é dimostrata in grado di ordinare una cucina veramente completa e funzionale all’esecuzione di ricette di un certo impegno. Con un pò più di sangue freddo nel secondo atto Beczala avrebbe potuto fare della buona pasta ripiena anziché limitarsi alle tagliatelle.-

  2. Non ho visto questa produzione di traviata, però da quel poco che si può ascoltare da questo frammento rilevo una smaccata discronia tra orchestra e cantante, quindi il suono della soprano è falsatamente nevrotico (invece di esserlo a causa della tisi) e con l’arrivo del tenore la freddezza del momento diventa staticità.
    Una annotazione a margine: nonostante decine di cantanti si siano
    cimentate in traviata sembra sempre che una nuova interprete non abbia nulla da imparare dal passato, quasi fosse un opera sconosciuta. Rimango pertanto della mia idea, che le uniche soprano che si siano avvicinate a violetta sono la callas per il temperamento, e la Zeani per la voce (d’ammalata) che sapeva infondere. All’indomani della prova della Fabbricini in scala, mi sono ripromesso di non ascoltare mai più “surrogati” di questa magnifica opera.

  3. Buongiorno Signor Tamburini sono pienamente d’accordo con lei e immagino che il vedere dal vivo Traviata a Parigi dia tutta un’altra sensazione che vederla, come dico io, “dal morto” su internet. L’unica cosa su cui rimango sempre perplesso è la seguente: è sempre il regista a suggerire alla Damrau come esprimersi e i gesti che deve fare? Dopo aver visto moltissime volte la Signora, sempre dal “morto”, non credo sia così. Ogni volta il suo personaggio è eccessivo nel fraseggio, arrecandole difficoltà vistosissime nella linea vocale ( alivello tecnico la sua voce non è solida credo e la ripresa continua di fiati lo dimostra). Data la staticità della recita parigina, a questo punto sono quasi sicuro che la Damrau sdà( termine non da dizionario): c’è una cabaletta? nevrosi! C’è un movimento interiore? nevrosi! E’ previsto un acuto? Urli…alt prepariamoci, saltiamo battute, facciamo la faccia concentrata. C’è un’a ria mesta? Faccine di tristezza e pianissimi qua e là…Puntare sui suoi punti forza sarebbe giustissimo da parte di un regista…Poco è meglio a volte…ma credo che la sua organizzazione vocale non lo consenta. Buona giornata a tutti e buon week end.
    A.M.

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