Sarajevo

ferdinand_funeralIl 28 giugno 1914 lo studente serbo Gavrilo Princip uccideva a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie. Era l’atto che dava principio a quella che verrà definita, e con ragione, la grande guerra. Dopo quattro anni nel novembre 1918 l’assetto politico dell’Europa era completamente modificato con la fine dei grandi imperi e la realizzazione politica dell’ideale romantico, sintetizzato da Manzoni con la frase “una d’arme di lingua e d’altar”. Sono passati da quell’omicidio cento anni, il progetto di un’Europa unita, pensato all’esito dell’altro ancor più disastroso conflitto, crolla o quanto meno mostra il fianco, perché fondato sulla finanza e sul potere economico anziché sulla triade manzoniana. Il Kaiser Guglielmo e Cecco Beppe, ancor più, esultano, quando ad esempio l’Ucraina chiede e lotta per una divisione territoriale e politica che è quella del 1914, gli under trenta di un certo livello culturale hanno superato l’aspettativa della moneta unica per vivere e costruire il loro futuro in una mega nazione virtuale di ben superiore respiro a quella della comunità europea. Economica europea come se l’economia potesse vivere e circolare senza la circolazione delle persone e della loro individualità. Questa era nonostante tutto la forza degli imperi quello degli Asburgo soprattutto la circolazione e coabitazione di persone differenti per razza, religione, lingua, molto spesso vicine ed accomunate per cultura, tolleranti comunque. L’esempio città come Trieste, Leopoli, Kiev. Questo è il motivo per cui un sito che si occupa di canto e della sua unica storia parla di Sarajevo dell’attentato e della grande guerra, che non solo furono la fine dell’Europa degli imperi, ma anche una della concomitanti ragioni della fine della grande tradizione del canto. Di quel canto che per metodo di base, piuttosto che modalità espressive ed interpretative era diffuso per tutta quanta l’Europa dalla penisola iberica agli Urali, che trascendeva lingue, razze e religioni. E non poteva essere diversamente perché dalla metà dell’800 in tutti i teatri d’Europa apparivano i divi, i migliori nomi la Patti, Masini, Stagno, Battistini, la Sembrich e la Arnoldson e con loro viaggiavano ed insegnavano direttori e preparatori di spartito divulgando e propagando i medesimi modelli vocali ed interpretativi. Il risultato è che Antonina Nedhanova (1873) cantava ed interpretava come Selma Kurz (1874) e come la coetanea Margarete Siems (anche lei del 1873). Ed è chiaro che tutti i tenori russi si ispirassero ad Angelo Masini (che vietò la pubblicazione di due o tre registrazioni del 1905), bastando leggere la descrizione della voce e dello stile del forlivese. Gli ascolti sono eloquenti e bastano da soli. Solo la libera circolazione al di là di ogni elemento geografico e politico era lo strumento per la formazione delle nuove generazione in base all’imitazione del grande, universale modello perché l’arte del canto come oggi, dell’imitazione viveva e si perpetuava. Poi modificati i modelli versiamo nello stato disastroso attuale. Alla polacca Marcella Sembrich, la cui carriera fu planetaria, abbiamo sostituito Anna Netrebko o Natalie Dessay. Anche qui la comparizione è eloquente.
Per comprendere l’estensione e la vastità del fenomeno dei cantanti degli Imperi basta vedere la carriera di Alexander Kipnis, paradigmatico suddito dell’Imperial regio governo, che ucraino studiò dapprima a Varsavia, poi “cambiò “ impero ed approdò a Berlino e tralasciando la carriera austriaca e l’obbligata fuga negli USA per motivi razziali o quella di Margarete Siems, nata a Breslau (allora Breslavia, oggi l’impronunciabile Wroclaw) quindi oggi polacca, allora tedesca e che trascorre la sua carriera a Dresda uno dei maggiori teatri della allora Prussia sino a Marcella Sembrich, polacca cittadina prussiana, studentessa nell’altra capitale dell’Impero (Vienna) e poi a Milano presso Lamperti (in compagnia di Frau Schumann-Heink) prima di attraversare l’Europa fra il 1885 ed il 1899 come la nuova Patti. E sono solo esempi. Scorrere le biografie di tutti i grandi cantanti degli imperi nati fra il 1850 ed il 1880 non serve solo a contare il numero di recite, a ricavare che, nonostante la vulgata e trasporti su rotaia nella migliore delle ipotesi, in carrozza o slitta nella maggior parte, affrontassero molte più recite degli attuali divi. Serve a ricostruire tramite i loro spostamenti da studenti, da debuttanti, da divi, la straordinaria diffusione di una koine musicale ed artistica, che dalla penisola si era diffusa ed aveva invaso senza rispetto dei pochi confini l’Europa, travalicando anche quei pochi che esistevano fra i grandi imperi, annullando i confini anche quando nella medesima recita la Margherita di Navarra di turno cantava la cavatina in Italiano ed il duetto con Raoul in tedesco.

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15 pensieri su “Sarajevo

  1. Non credo carissimo Donzelli che la caduta degli imperi centrali, fosse in nuce la fine del canto (come da tradizione) tanto che ancora negli anni ’90 si discuteva come eseguire correttamente Rossini serio.
    A mio modesto avviso la storia si è modificata con la corsa al successo di mediocrissimi esecutori, consci che la TV e la stampa (ben guidati) rendessero celebri purchè…bei fighi!
    Eccoli allora i Josè Cura a mostrar i pettorali in un osceno (musicalmente) Otello a Torino, poi l’arrivo immediato del Kau, con i boccoli, und so weiter.
    E’ questo l’aspetto più sconcio del presente anche lavorativo: un diploma anche oggi “pretende” un impiego, meglio se statale, ed oggi cosa c’è di più statale che l’opera? Così sovrintendenti mediocrissimi, possono permettersi di richiamare in vita un Carreras, e altri; e dei poveri rappresentanti dei cittadini, annullare richieste di applicare le nuove norme per consentire a dei sindacati di fingere di gestire la vita dei lavoratori teatrali.
    In questo modo non è solo il canto ad andare a rotoli.

  2. Razze? E tu di che razza, anzi di che razzo saresti, Donzelli?
    Impara da Manzoni che da buon cattolico illuminato non fa uso, proprio nel brano da te citato, di concetti pseudoscientifici.

    E comunque dovresti sapere che in un impero viviamo da tempo anche noi.

    Ulisse

  3. Non mi convince molto il parallelo tra caduta dell’impero absburgico e decadenza del canto…mi sembrano cose differenti (a parte che non condivido questa idea di decadenza e nostalgia). Così come non concordo affatto sulla koinè del canto in tutta Europa (ovviamente con matrice italiana…), poiché divero era il modo di cantare, la maturità musicale e il repertorio: basta confrontare come si cantava Verdi in Italia e come lo cantavano in area germanica. Ma se poi allarghiamo lo sguardo a ciò che sta oltre al canto (ossia alla musica, poiché mi preme sottolineare che la musica non si esaurisce certo nel canto e in alcuni autori o primedonne), allora si vede che quella presunta koinè si sfalda e si sbriciola sotto le spinte delle identità nazionali, così come l’impero absburgico: faro di civiltà e tolleranza fintanto che la ragione guidava l’uomo (o almeno gli ideali illuministi univano e stemperavano le differenze), travolto poi dalle tempeste politiche e ideologiche di un tempo in cui la ragione preferì dormire (lasciando spazio a nazionalismi, religione, antisemitismo).

  4. infatti non è un parallelo, ma la caduta degli imperi è una delle cause di decadenza del canto. Il che mi pare ben differente. Quanto al fatto che almeno sino al successivo conflitto mondiale si sia cantato bene, quando non benissimo nei territori degli ex imperi è “normale” perché le scuole di canto le buone anzi ottime maniere apprese sono sopravvissute per qualche decennio, poi il diluvio!
    ma la malattia dall’esito esiziale è cominciata molto prima atteso che la formazione degli ultimo grandi cantanti di quel mondo (reining, teschemacher, wittrisch, rosveange ) è proprio di poco successiva o coeva alla fine degli imperi.
    Tutto qua

    • La decadenza del canto – e non solo del canto – in Italia comincia almeno coll’epoca risorgimentale e con l’unità, ma già la mentalità scientista e tecnolatrica di derivazione illuminista aveva corrotto le scuole di canto. La caduta degli imperi e’ indirettamente causa della decadenza del canto, nella misura in cui è causa della decadenza della civiltà umana. Ma l’estremo compimento della dissoluzione, di cui il canto non è che uno degli infiniti aspetti, si è avuto solo con il secondo dopoguerra.

    • Non sono d’accordo. Per nulla. Mi pare una visione ideologicamente orientata a dimostrare una decadenza più di maniera che reale. Ogni cosa umana ha vissuto corsi e ricorsi e, francamente, non mi sento di dire che la Callas è sintomo di decadenza, mentre la Tetrazzini sarebbe figlia delle buone maniere…anche perchè all’ascolto mi pare l’esatto contrario.

        • Non nego questo fatto – ossia che da teatro spesso si esce disgustati – ma non lo imputo ad una presunta decadenza da una mitica età dell’oro. Non credo ad una decadenza che con passo ineluttabile trascina verso l’abisso, credo solo che in tutte le cose umane si alternino vette e depressioni. Nulla di ineluttabile dunque o di mistico. Peraltro in quella che chiamate “decadenza” sono vissuti artisti (cantanti e musicisti) che hanno fatto la storia.

  5. credo che nessuno abbia capito il senso del mio intervento e , quindi, provo a rispiegarlo premettendo che tutto volevo fare tranne che della filosofia o della speculazione, ma semplicemente raccontare la conseguenza, nel piccolo orto della storia del canto, di un fenomeno di immane portata come la caduta degli imperi. Gli imperi, per definizione scolastica scontata e -credo- pacifica, erano un autentico coacervo di popoli con quanto di buono e di negativo la circostanza rappresentasse. La loro vastità, però, il fatto che al loro interno ed anche in parte fra di loro (soprattutto sino al 1860 circa) vi fosse libera circolazione anche di persone consentiva che certe tecniche, quindi le parti “meccaniche” dell’arte circolassero con una libertà, abbondanza e frequenza che, poi, la nascita degli stati nazionali, l’insediarsi di regimi dittatoriali ha impedito. Tutto qua. Spero, ora, di essere stato chiaro. Quindi non avevo nessuna intenzione di andare ad imputare la decadenza del canto a motivi che, come dedotti da Mancini, sembrano un capo di accusa del santo Ufficio o una reprimenda contro il mondo moderno partorita da Raffael Merry del Val e compagni. Per altro depurata dagli ideologismi o meglio pseudo ideologismi devo condividere l’affermazione di Mancini che oggi si esca dal teatro disgustati o quasi e che ogni giorno scemi il desiderio di mettervi piede. Come non posso condividere e credo sia già stato scritto nel novembre 2012 quando celebrammo i sessant’anni della Norma di Londra (Callas/Stignani) che la Callas non sia sintomo di decadenza, dettagliando ovvero che la Callas, per una serie di circostanze, luogo di nascita, maestra du canto, repertorio affrontato abbia rappresentano l’ultimo autentico baluardo della grande tecnica di canto. In sostanza la decadenza era lì dietro l’angolo, in parte già cominciata e la Callas apparve, erroneamente, come la restaurazione, quando era, invece, l’ultima di una lunga e preziosa serie. Poi dopo la Callas nulla: pance in fuori, respirazione “bassa” ed affondo in luogo del sostegno, falsettini, suoni spoggiati, perenne pigolare, sino all’amplificazione giudicata la irrinunciabile necessità. Per fare i conti con le date la Callas per cronologia è assai più vicina a Luisa Tetrazzini od Amelita Galli Curci che non ad Anna Netrebko o la Opolais. E si sente, poi possiamo anche discutere del gusto, ma non della somiglianza e del parlare lo stesso linguaggio tecnico fra la Callas ed un soprano del 1925. La solita Galli Curci, la Rethberg sono ben più “parenti” della Callas che non la bella Anna!

    • Sulla Callas continuiamo a non pensarla alla stessa maniera: per me non fu affatto la continuatrice della Galli Curci, della Tetrazzini etc…per me non fu l’ultima esponente di un canto alle soglie della decadenza, ma la prima di una nuova era. la Callas diede una linfa nuova ad un belcanto che sino ad allora era appannaggio esclusivo di svenevolezze e ghirigori liberty. Con la Callas si ha una rivoluzione del modo di intendere un intero repertorio, ripulendolo – finalmente – dalle croste del tempo e restituendolo, probabilmente, alla sua originaria statura tragica (pensa alla sua Lucia o ad Amina o a Norma o a Elvira: quanto è lontana dalle diafane figurine svenevoli e cinguettanti della precedente tradizione). Che poi non siamo – oggi – riusciti a coglierne l’eredità non c’è dubbio, esattamente come è innegabile che tra le vaiasse veriste-verdiane e le bambocce bamboleggianti che gestivano Donizetti/Bellini/Rossini, la Callas si pose come un terza e nuova via. Sui disastrosi effetti – invece – dello sfaldamento dell’impero absburgico, concordiamo pienamente.

      • sulla Callas ,sono d’accordo con te Duprez,d’altronte qui sul corriere era nata una rubrica sul “prima della Callas” quindi implicitamente la Callas è stata uno spartiacque,
        peccato che non ci sia stata una all’altezza vera di raccoglierne l’eredita,tanto è vero che viene chiamata la ” divina” e il soprano assoluto.

        • chiederei, se posso, di essere letto prima che mi venga data una risposta. Il fatto che la Callas abbia eseguito alcuni titoli di Bellini e Donizetti (che non sono belcanto) con maggior proprietà stilistica (salvo quando in Lucia e Sonnambula imitava la Toti sbiancando i suoni) è un fatto. Posso anche essere d’accordo che certe formule acrobatiche praticate da Hempel, Kurz siano censurabili, ma io volevo dire una cosa ben diversa e se vogliamo a monte ossia la tecnica della Callas, non il gusto e l’interpretazione, sono quelle di quei soprani e quelle venute dopo non hanno più applicato e praticato quel metodo. Tutto qui confermato dal fatto che al suo esordio in Puritani la Callas venne definita “un grosso soprano leggero” e non si alludeva al fatto che allora la Meneghini fosse la Menegona!!!!!
          ciao dd

          • Ho letto, ho letto, ma continuo a pensare che la Callas abbia praticato una vera e propria rivoluzione interpretativa (c’entra sino ad un certo punto l’aderenza stilistica, anche se mi chiedo dove si possano sentire “suoni sbiancati” nelle sue splendide Lucia e Amina – che restano le migliori mai incise, “stupenda” e “bubble” comprese). E non è solo questione di vezzi del tempo precedente! Se ascolto quel belcanto (in senso lato, ovviamente, ossia nel modo in cui il termine è usato per definire Rossini, Donizetti e Bellini) non vi trovo nulla di paragonabile a quel che si cantava prima: ghirigori svenevoli, voci chiocce, sospiretti, bamboleggiamenti e tutto l’armamentario che era in uso tra le primedonne dell’epoca. Prendiamo Norma che solo con la Callas si vede restituire la statura tragica venata di romanticismo che è cifra essenziale nella definizione del personaggio, così diverso dalle sguaiate veriste della generazione precedente o dalle astratte e inerti filatrici di note di quella successiva. Più la ascolto più mi rendo conto che fosse un unicum nella storia della vocalità.

  6. Il concetto di decadenza (un cambiamento giudicato come un regresso nella civiltà) implica un giudizio di merito (di valore), che può essere più o meno fondato. Ma non è che per parlare di decadenza si debba per forza abbracciare una mistica dell’età dell’oro, no?

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