Lo stradominio del Teatro Alla Scala nel (micro)mondo culturale milanese ci fa dimenticare altre istituzioni decisamente più genuine e sincere nella loro offerta musicale. Tra queste spicca la storica Società del Quartetto che festeggia quest’anno il 150esimo anniversario della fondazione avvenuta il 29 giugno del 1864 grazie ad una felice collaborazione tra Arrigo Boito e Tito Ricordi con l’obbiettivo di «incoraggiare e diffondere il culto della buona musica con pubblici e privati concerti, particolarmente nel genere del Quartetto e della Sinfonia». 150 anni di musica che hanno visto, grazie alla partecipazione i più grandi artisti e compositori del secolo scorso da Sergeij Rachmaninoff a Eugène Ysaÿe e Lorenzo Perosi, da Leonid Kogan al Quartetto Busch, da Toti dal Monte a Sigrid Onegin e Victoria de los Angeles, la Società del Quartetto diventare una raffinata alternativa musicale ad altre ben più note e più ricche ma non sempre musicalmente all’altezza.
Tra i vari avvenimenti che hanno celebrato questa stagione, il recital del pianista Krystian Zimerman dello scorso 20 giugno non poteva assolutamente passare inosservato “a quelli della Grisi” non per il numero limitato di concerti che l’artista polacco offre ogni anno (non più di cinquanta) ma perché, dopo tanto Barenboim e Lang Lang, ricordarsi cosa vuol dire Suonare il pianoforte fa sempre bene.
Il programma prevedeva l’esecuzione delle ultime sonate di Beethoven: la n. 30 in mi maggiore op. 109 la n. 31 in la bemolle maggiore op. 110 e infine la n. 32 in do minore op. 111. Tre pagine musicali diversissime tra loro, di grandissima forza e suggestione davanti alle quali il pianista polacco ha dato prova di straordinaria maturità ed eleganza. Fin dalla prima sonata Zimerman è infatti riuscito a trovare, con una postura e un gesto eleganti e composti, quella rotondità e quella profondità di suono e morbidezza del fraseggio che lo hanno reso ormai una rara avis nel panorama pianistico attuale. Elementi che hanno caratterizzato tutta la serata: sia nella dolcezza e morbidezza del I movimento della sonata in la maggiore, sia nella maestosità dell’ultima grande sonata beethoveniana in do minore, Zimerman è sempre riuscito a imporsi come deciso e sensibile interprete senza mai alterare, come sembrano fare divi cari ai nostri pubblici, lo spartito: mai una spigolatura, un fraseggio balbettante, ma sempre un suono cristallino e scorrevole nel pieno rispetto della partitura beethoveniana.
Una grande, grandissima serata di bella musica. Finalmente un concerto degno di tal nome, un concerto dove l’interprete si pone al servizio dello spartito per elevarlo e mai per usarlo come strumento per dare libero sfogo ai propri divismi, e dove il pubblico (vestali loggioniste assenti, more solito) partecipa con rara religiosità ed attenzione perché è lì per la musica, non per il luogo. Certo resta un po’ di rabbia per alcuni posti vuoti in sala: ma si sa, Milano è una città che conosce solo un teatro e che davanti ad un artista come Zimerman preferisce un concerto di Barenboim in Scala, perché in Scala, di certo non perché preferisce Barenboim a Zimerman, non avendo mai ascoltato il secondo visto che la lungimirante Scala l’ha spesso evitato (9 presenze in 40 anni di carriera).
Una serata che dunque obbliga sì a pesanti riflessioni sulle politiche culturali di certi teatri, sulle forze che le condizionano, sui gusti del pubblico compito che questo blog si è già troppe volte preso e che dunque lascio a voi, ma ci obbliga soprattutto a dire grazie a Krystian Zimerman per averci fatto ricordare, in tempi non certo facili per la musica, cosa vuol dire rispettarla, cosa vuol dire suonare e interpretare, cosa vuol dire essere artisti.
Manuel García
E bello ricordarsi che ci sono ancora dei pianisti in mezzo a tanti pagliacci. Ed è bello sapere di non essere soli a pensarla così.
Ciononostante, Zimerman e il cartone animato cinese incidono entrambi per DG…
non sono d’accordo,ci sono molto pianisti validi ,nel panorama attuale
Sì, ci sono molti validissimi pianisti oggi: grandi esecutori, grandissimi interpreti e straordinari musicisti. Peccato che tutti vengano sistematicamente ignorati dal Teatro alla Scala, così che ogni anno il suo pubblico possa sorbirsi le consuete dosi di Barenboim e Pollini… Ovviamente Pires, Argerich, Lupu, Guy, Lewis, Sokolov, Schiff e molti altri suonano ovunque (anche in Italia) tranne che in via Filodrammatici…
Ci sono, ci sono… ma a quanto pare il mondo d’oggi preferisce fenomeni da baraccone come Lang Lang o demagoghi alla Barenboim.
Il problema vero non sta tanto nella presenza o meno di pianisti degni di tal nome (anche se il numero di grandi pianisti è drasticamente sceso) ma soprattutto nei criteri di selezione da parte di chi controlla e gestisce il mondo musicale occidentale e nei gusti di un pubblico definitivamente rintontito dal marketing di immagine e forma delle case discografiche e dei teatri.
Non sono del tutto d’accordo: nel senso che non credo affatto che il numero di grandi pianisti sia sceso, anzi c’è molta ricchezza anche e soprattutto tra i nomi meno pubblicizzati. Ci sono i grandissimi (già elencati) che certamente non hanno nulla da invidiare ai vari Michelangeli, Horowitz, Rubinstein (per citare i più “popular”), ma ci sono anche molti musicisti che meritano attenzione. Peccato che le maggiori case discografiche abbiano interesse solo per le fastidiose baracconate di Bollani o Lang-Lang o per la plastica patinata della Grimaud o, peggio, per quell’aborto musicale di Allevi.
Certo, grazie Duprez, dimenticavo nomi come Pires e Schiff, grandi pianisti che tengono ancora alta la musica, a differenza di quanto avviene nel canto. Ma sono pochi: la maggior parte dei pianisti si è piegata alla dittatura del disco che ne condiziona la carriera, le scelte musicali e il gusto. Zimerman certo ha fatto tanti dischi con la stessa casa discografica che ora pubblicizza Lang Lang: ma i tempi erano diversi. Zimerman appartiene ancora a quella generazione di pianisti, come Schiff e la Pires (e il primo Pollinj), che vedono il disco come un obbiettivo e non come un punto di partenza della propria carriera artistica. I dischi di schiff, della pires sono custodi di una composizione musicale, i dischi di Lang Lang e dell’ultimo Pollini sono specchio del più triste e vuoto divismo (certo con le dovute differenze tra i due. Il primo Pollini è un pianista comunque interessante, non certo ai livello di un Zimerman o un Schiff: poi si è perso completamente affidando al disco la propria vita musicale. Lang Lang è ben altro… ).
In realtà ci sono molti validi pianisti in giro: alcuni grandissimi, altri grandi, altri comunque ottimi. Non credo più alla storiella della dittatura del disco o alle case discografiche brutte e cattive: le vendite di musica classica sono talmente marginali che non ha senso parlare di imposizioni del mercato. Non capisco perché l’incidere dischi per una grande casa discografica venga vissuta come demerito: per la DGG hanno inciso Horowitz, Michelangeli, Kempff (solo per stare al pianoforte), Pires, Argerich…e il fatto che incida Lang-Lang non toglie nulla ai meriti culturali dell’etichetta gialla. Così come le incisioni Chailly/Bollani nulla tolgono alla DECCA di Lupu o Schiff. Pensiamo anche al caso Gould che ha inciso solo dischi in studio. Quanto al divismo bisogna intenderci: se va bene per le primedonne (come spesso sostenete) allora va bene anche con pianisti e direttori… La realtà è che frequentemente il divismo (soprattutto nei cantanti: musicisti spesso men che mediocri) è fatto di niente.
la Decca ha fatto cose splendide fino agli anni 80/90. Penso ai Puritani della Sutherland con Pavarotti che, al di là del pregevole esito musicale, erano corredati da interessanti testi di approfondimento, anche se non di certo a scopo accademico, come è giusto che fosse. Ecco l’obbiettivo di operazioni discografiche come queste era la conservazione e la tutela dell’oggetto musicale, sia esso un’opera o un concerto. Certo, inutile negare il ruolo del nome dell’artista nella vendita di un disco: oggi come ieri la presenza di un artista o meno condiziona il successo di un disco in mercato. Ma la questione non è questa: il problema sta nelle intenzioni che sono alla base di un disco oggi. Basta vedere i dischi di Lang Lang, di Helene Grimaud, Victoria Mullova per vedere come al centro di tutto ci sia l’artista e la sua esaltazione puramente iconografica. La conservazione di un componimento musicale non è neanche contemplata. nel caso vocale tutto ciò arriva ad estremi quasi surreali. Dunque l’incidere per la DG o per DECCA non è un demerito, è l’intenzione che sta alla base, anche se ormai DECCA si è fatta una fama non di certo positiva in tutti i sensi.
La dittatura del disco è ancora molto forte: non si compra ma si scarica. E nello scaricare le categorie di giudizio sono pressoché simili. Cambia sola modalità di acquisizione.
Purtroppo hai ragione: nel senso che la funzione del disco – già denunciata (pur con toni estremi da Celibidache) – non è più la testimonianza di un evento o di un’eccellenza, oppure la fissazione di un riferimento, il premio ad una eccezionalità o la preservazione di un modello (per non parlare della funzione educativa o della possibilità – che ha solo il disco – di fornire repertori dimenticati, varianti, lavori che un teatro non potrebbe permettersi). Oggi la politica è quella della musica pop (con minor serietà però). Il fatto è che comunque il mercato non incide, viste le vendite marginali: se noti le case discografiche ripubblicano (a prezzi sempre più convenienti: per la gioia di tutti noi) i loro tesori. La DGG ha appena ripubblicato l’integrale delle incisioni straussiane di Clemens Krauss e uno splendido cofanetto – che consiglio a tutti – di Strauss che dirige sé stesso (e brani di Mozart e Beethoven). Pubblica anche Lang-Lang e la Grimaud (su cui immagino abbiamo il medesimo giudizio)…ma alla fine cosa resterà? Sulle case discografiche non sono così pessimista: se occorre Lang-Lang o la Bartoli per permettersi di ripubblicare ben altro, beh in fondo mi sta anche bene. Ciò che resta inconcepibile è il fatto che il sedicente massimo teatro italiano non riesca a fornire una rassegna pianistica decente e che anno dopo anno reiteri le imbarazzanti performance di un Barenboim tecnicamente impreparato e di un Pollini che celebra sé stesso in modo sempre più pallido e sterile, lasciandosi sfuggire giganti della tastiera come Zimerman (forse il più grande pianista vivente), la Argerich, la Pires, Radu Lupu, Schiff, Sokolov, ma anche – e ti invito ad ascoltarli – i più recenti Lewis e Guy (splendidi in Beethoven e Schubert, il primo, e Beethoven e Liszt il secondo). E ci sarebbero pure dei talenti italiani – come Cominati (superbe interprete di Ravel) – che neppure vengono presi in considerazione: e anncora quest’anno ci tocca l’ennesimo “concerto straordinario di Pollini” e le dita impastate di Barenboim alle prese con un’integrale di Schubert che farà rivoltare il compositore nella sua dimora allo Zentralfriedhof di Vienna…
Anche se non è un forum sulla tutela dell’antica arte del pianoforte volevo sapere la tua opinione, Manuel Garcia, sull’unico pianista che, all’ascolto dal vivo, mi è sembrato grande, cioè evgeni Kissin (posto che non ho mai avuto l’occasione di ascoltare Zimmerman, Sokolov, Argerich e compagnia bella)
ammetto di non averlo mai ascoltato dal vivo.
Ti rispondo io: Kissin è un pianista straordinario, ma imprevedibile. Una specie di Gould russo. Musicista geniale capace di ricreare il brano interpretato anche attraverso scelte assolutamente atipiche, ma – a mio giudizio – molto discontinuo.
Ci sono i bravi pianisti giovani, ci sono…io quest`anno ho ascoltato Khatia Buniatishvili, Igor Levit, Alice Sara Ott, Rafal Blechacz, Jan Lisiecki e la giovanissima italiana Beatrice Rana, seconda all’ ultima edizione del Van Cliburn. Tutti strumentisti tecnicamente agguerriti e musicisti di ottima qualità
Giovani e non solo: a dire il vero oggi il panorama è più ricco di un tempo. La moda dei “bambini prodigio” finalmente pare esaurita e (Lang-Lang a parte) la produzione di pianisti orientali – fatti in catena di montaggio – pare non abbia più molto appeal. Sono attivi alcuni dei massimi pianisti del XX e XXI secolo (Lupu, Pires, Argerich, Zimerman, Sokolov, Schiff, Kissin, Pogorelich, Aimard, Buchbinder) insieme a interpreti più recenti, ma destinati a lasciare un segno, come François-Frederic Guy e Paul Lewis, o gli italiani Cominati, Prosseda e naturalmente Campanella, o Maria Lettberg (grandissima interprete di Scriabin) o Ragna Schirmer (consiglio il suo Handel) o Boris Berezovskij (straordinario virtuoso che si divide tra Chopin, Rachmaninov e Liszt) o Lars Vogt o Efim Bronfman o Ivo Janssen (straordinario il suo Bach). E tanti altri (dalla Buniatishvili a Levit, Blechacz, Hamelin…etc.). Panorama vastissimo e di primissima qualità…ma alla Scala conoscono solo Barenboim e Pollini!
Lo stesso dicasi per i violinisti. Oltre a Joshua Bell, che per me se la gioca alla pari con i grandi della storia, e alla sempre grandissima Mutter, abbiamo talenti dai quarant’ anni in giù come Christian Tetztlaff, Frank Peter Zimmermann, Isabelle Faust, Arabella Steinbacher, Julia Fischer, Lisa Batiashvili, Leonidas Kavakos e Patricia Kopatchinskaja, tanto per fare qualche nome tra i primi che mi vengono in mente di quelli che ho ascoltato dal vivo.