È singolare come Mozart continui a ricevere insulti alla memoria da parte del teatro della città che fu, a tutti gli effetti, la sua seconda patria. Insulti eguagliati solo da quelli che pervengono dai festival ospitati dalla di lui città natale. E sì che la Clemenza di Tito viene ormai messa in scena, nei piccoli come nei grandi teatri, ogni stagione o quasi, al punto che verrebbe voglia di ritenerla un titolo di repertorio. La frequenza della proposta, ovviamente, non è garanzia di qualità, visto che, come tutte le opere serie del Settecento, anche questo in ogni senso estremo titolo del catalogo mozartiano è contraddistinto da fitte difficoltà esecutive, in capo tanto alla bacchetta quanto ai solisti di canto. Ora, a Vienna sono mancati, come già nella prima proposta dell’allestimento di J. Flimm (maggio 2012), tanto una direzione quanto dei cantanti all’altezza del compito. A onor del vero l’allestimento, ripulito di buona parte delle trovatine e caccole sfoggiate un paio di stagioni fa (benché Vitellia continui a distribuire ai congiurati, prima della grande aria di Sesto, kalashnikov e giubbotti antiproiettile), resta brutto, inutilmente lambiccato e identico a mille altri, ma nella media dei prodotti del cosiddetto teatro di regia: quasi non si nota e quindi disturba molto relativamente. Sul podio Adam Fischer, assiduo a Vienna come a Zurigo e in altri teatri di prestigio internazionale, ha assicurato una direzione pesante e letargica, caratterizzata da tempi inutilmente e, quel che è peggio, maldestramente slentati, suono orchestrale lutulento e poco coeso, clangori diffusi alle scene corali, accompagnamento smunto alle arie solistiche, nessun colore, inesistente tensione drammatica, persino in un punto di massima tensione come il finale primo. La drammaturgia di un genere tendenzialmente statico come l’opera seria italiana, in cui il vero interesse è costituito dalla varietà e dalla sapiente indagine degli affetti (oltre che, ovviamente, dal virtuosismo dei cantanti), più che dalla vivacità dell’azione scenica, non può che uscire mortificata da una simile approssimativa lettura. Nei panni del clementissimo Augusto Toby Spence, voce da tenore caratterista (Curzio o al massimo Basilio, insomma, più che Tito), non ha l’ampleur richiesta dal ruolo, canta e sopratutto fiorisce con udibile fatica al centro, mentre sul passaggio superiore compaiono suoni schiacciati e chiocci. Si tralasci la velleità di inserzioni e variazioni nei da capo, quando poi l’esecutore non è in grado di onorare le note previste dallo spartito, arrivando a tagliare uno dei sibem acuti previsti dall’ultima aria. Velleitario pure l’Annio di Margarita Gritskova, che nella seconda aria interpola un do acuto, ed è la nota migliore emessa dalla cantante in tutta la serata, atteso che al centro compaiono suoni sistematicamente fissi e sbiancati, di trasparente matrice baroccara. Modesto, ed è il meno che si possa dire, il Sesto di Michèle Losier, emula, nell’aspetto fisico e più ancora nel canto, di Monica Bacelli: voce di soubrette (caratteristica che l’accomuna alle altre esecutrici, nessuna esclusa, di questa ripresa), poco udibile in prima ottava, incapace di legato e di autentico slancio (limite palese alla già richiamata scena della congiura e soprattutto nelle due arie solistiche), incerta (eufemismo!) in acuto. Nulla di fronte all’autentico punto interrogativo (e se si vuole anche esclamativo) della produzione, ovvero Véronique Gens quale Vitellia. Pensavamo che dopo l’orrore assoluto e totale, sperimentato con la principessa in versione Périchole di Juliane Banse, non fosse possibile fare di peggio in questa parte. Errore. La signora Gens, specialista del repertorio settecentesco (specialismo accreditato da bacchette preclare, illustri filologi, consulenti di case discografiche, agenti teatrali e critici togati), in basso parla, al centro è in difetto di appoggio e risulta quindi ora fioca, ora maldestramente aperta, in alto produce suoni che non hanno nulla, o ben poco, di umano, richiamando piuttosto un ampio spettro di volatili da cortile. Davanti a una simile caricatura non resta altro che “godersi” (si fa per dire) l’ascolto (documentato peraltro da ore e ore di registrazioni live e in studio) e interrogarsi (magari non solo retoricamente) sulle origini e sui possibili sviluppi di una carriera che guarda ormai (e giustamente, verrebbe da dire, visto il pregresso) ai grandi ruoli della tragédie lyrique e magari, come lasciano intuire alcuni approdi discografici, al repertorio francese successivo alla Restaurazione. Valentina Nafornita, che sostituiva come Servilia Chen Reiss (subentrata, a sua volta, all’inizialmente prevista Ileana Tonca), ha voce più consistente delle altre colleghe, ma quando deve accentare con un minimo di vigore (“Si teme che l’incendio” al finale primo) emette in zona medio-alta suoni fissi e striduli, che mal si conciliano non solo con questo personaggio, ma con quello che è il ruolo chiave del repertorio abituale della cantante, ovvero Gilda del Rigoletto, parte in cui la signora si è già prodotta, fra l’altro, anche in Scala. Alessio Arduini è più baritono che autentico basso e la parte di Publio gli risulta, specie negli ensemble, un po’ bassa di tessitura, ma davanti ai colleghi (soprattutto alla Vitellia) sembrava di ascoltare Wilhelm Hesch.
Gli ascolti
Mozart – La Clemenza di Tito
Atto I
Parto, ma tu, ben mio – Michèle Losier (2014)
Vengo… aspettate… Sesto! – Véronique Gens, Margarita Gritskova e Alessio Arduini (2014)
Atto II
Se all’Impero, amici Dèi – Toby Spence (2014)
Ecco il punto, o Vitellia…Non più di fiori – Véronique Gens (2014)
“in basso parla, al centro è in difetto di appoggio e risulta quindi ora fioca, ora maldestramente aperta, in alto produce suoni che non hanno nulla, o ben poco, di umano, richiamando piuttosto un ampio spettro di volatili da cortile”
Tamburini ..sei forte 😀 😀
Per celebrare (…) questa ripresa viennese della Clemenza, sono stati nuovamente inseriti gli ascolti di un vecchio post dedicato al titolo: http://www.ilcorrieredellagrisi.eu/2008/05/oh-vera-delizia-dei-mortali-la-clemenza-di-tito/
Non mi stupisco che a Vienna stiano massacrando Mozart, dopo che hanno invitato ed esaltato un direttore (si fa per dire) letargico e sonnolento che al secolo si chiama Harnoncourt.
Io lo ascoltai alla Scala nel 1978 nelle tre opere di Metastasio, con i complessi di Zurigo. Mi convinsi che quelle fossero delle mete inarrivabili di lexotan musicale. Quale stupore l’averlo risentito a Vienne in teatro e al concerto di capodanno. Siccome il fabbisogno di sonno indotto probabilmente in austria è molto elevato, lo misero a capo della orchestra della staatsoper e fu sonno per tutti, comprese le maschere. Probabilmente la direzione del teatro pensò che era meglio un pubblico addormentato che conrestatore lo riconfermò anche per altre iniziative. Non mi stupisce che finito l’effetto di sonno indotto lì non siano più in grado di affidare la musica di mozart ad una bacchetta decorosa.
Un paio di esempi italiani di come si canta mozart: siamo
A=bologna
B= modene
entrambi diretti da Maag
a bologna c’era la Kathrin Bouleyn feb.1988
a modena la Silvia Mosca marzo 1988
http://www.mediafire.com/listen/pbz6hv51luc3p6f/non_più_di_fiori.BO.mp3
http://www.mediafire.com/listen/0j6028nv6p2m8xq/Non_più_di_fiori.Modena.mp3