Il convento di San Giusto, il convento del grand-opéra. Settima puntata: San Giusto secondo von Karajan

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freni_valoisA distanza di quasi vent’anni possiamo confrontare la direzione di von Karajan nel don Carlos e, almeno nel caso di uno dei quattro esecutori, anche la sua “regia vocale” perché mai Mirella Freni con altro direttore o sua sponte ha sfoggiato tanta varietà di colori ed intenzioni interpretative come nel ruolo di Elisabetta sotto la guida del maestro austriaco. Ciò nonostante la Freni non è Elisabetta di Valois perché la voce non  quella del soprano Falcon o centrale. Preciso che mai la Freni sarà la Valois anche nella fase finale della carriera allorchè disponeva e sfoggiava ragguardevole ampiezza in zona centrale. Basta sentire l’attacco :non una nota brutta neppure nel registro grave quando scende al do 3 (che nel prosieguo sarebbe stata una nota in poco aperta), ma si ha l’impressione, nonostante il volume negli acuti (il si bem di “mio” è un’ottima nota, ma  non realizza l’indicazione in spartito “grandioso”), di una prudenza e cautela dettate dalla chiara cognizione di disporre di una voce sotto dimensionata per personaggio ed orchestrale. Basta vedere come la Freni amministri le frasette “Carlo qui verrà etc” dove non si sente un suono brutto o “spoggiato”, ma dove parimenti sono estranee l’ampiezza e la regalità di Elisabetta o l’ipostasi del dolore lacerante di chi (Gencer) faccia di necessità virtù. Nessuna forcella (di tradizione, perché lo spartito dice solo “piano” sul fa di FRA che è una minima) sul Francia o al più un mezzo accenno, certo è detta con un suggestivo piano, come tutta la frase seguente, ma il peso vocale e soprattutto timbro ed accento sono quelle dei ricordi di un’ottima Mimì sul letto di morte, nessuna tragicità ne “L’addio da me ascoltò” e tanto meno ne “e questa eternità un giorno sol durò” che scende sino al re grave. Nella ripetizione identica alla prima strofe Elisabetta compita il dolore, poche esecuzioni sono superiori vocalmente, tante la superano e non poco sotto quella dell’interpretazione, ma il timbro regale sono altro ad onta del canto di altissima scuola e il gioco di colori e di dinamica restano quelli di una rifinita Mimì ed il conclusivo “reca al piè del Signore” suona aperto e sordo. Qualche anno dopo la Freni in Scala sempre nei panni di Elisabetta dopo scroscianti applausi alla fine dell’aria si beccò un “bravina”. Azzeccatissimo.

 

Certo quando entra  il figliastro innamorato (Josè Carreras) e si confronta con tanta matrigna il bravina è riduttivo perché il tenore catalano una volta sfoggiato il timbro aureo (in natura) ma senza scansione e senza accento (vedi “sulla terra fiamminga” dove la frase sul passaggio porta la voce ad un si bem e mette in gravi difficoltà l’incolto Carreras, che prende fiato abusivamente e non realizza l’indicazione  con entusiasmo) abbiamo davanti un canto che,  non può essere nè epico nè scultoreo come  irrinunciabile per il tenore del grand-opera, perché carenti preparazione tecnica, gusto e idee di fraseggio. Quando arrivano “i fior del paradiso” la Freni lo dice da grande Mimì e cara grazia che Karajan pratichi un macroscopico taglio che risparmia a Carreras la frase “Vago sogno m’arrise” ed alla Freni slancio grandioso sulla frase (che era eseguita in Scala) “Si l’eroismo è questo” risparmiando alla Freni un passo che appartiene ad una vocalità che le è estranea, ma anche “le donna han per gli eroi “cantato bene come è ben cantato il “ma lassù” sono eseguiti in maniera assolutamente estranea al clima del drammone storico, popolato di personaggi aulici, solenni, statuari e togati. La dinamica di Elisabetta proposta dalla Freni sotto la regia di Karajan è ragguardevole, ma la varietà di colori del lacerto della Russ o del live di Anita Cerquetti hanno un significato di dolore e dello strazio, che competono alla sovranità come noi la vediamo con il filtro ottocentesco.  Quanto è  spontaneo  da un lato assume nella Freni il significato del non si può far di più e diversamente. Anche Carreras ad un livello tecnico assai più basso replica con un bell’attacco “indietro” e una faticosa salita al la acuto pure un poco afono perché provare a cantare piano solo in grazia di  natura sopra il passaggio è mission impossible.

 

Jurinac_as_Elisabetta[5]Vent’anni circa prima le cose andavano meglio nel rapporto fra esigenze di spartito e scelta di cantanti. Per esemplificare: mai nessuno avrebbe pensato di proporre, ufficialmente in nome del lirismo, in realtà per legge inesorata di mercato o  di agenzia la parte di Elisabetta a Rosanna Carteri.Tanto meno la Carteri, che era un soprano assai simile per peso e colore e volume alla Freni, l’avrebbe accettata. Tanto per avere chiari certi concetti base. Sena Jurinac non era neppure lei un soprano drammatico cantava il Wagner lirico, Strauss lirico, Mozart, cantava benissimo con un gusto misurato, interpretazioni sempre calibrate e pur non essendo italiana, ma signora Bruscantini una dizione scolpita e perfetta. A parte Elisabetta di Valois e Desdemona ebbe rapporti saltuari con Verdi, anche se invito ad ascoltare il “suo pace mio Dio”. Era anche una bellissima donna e si dice molto apprezzata dal maestro Karajan. Ho il sospetto che la parte fosse stata poco preparata o provata perché la Jurinac canta, more solito benissimo, ma incorre in errore di testo o di articolazione dello stesso, che non le erano propri. Dico subito che è introdotta con un’orchestra solenne ampia e nel contempo  dolente, che restituisce magistralmente il momento scenico e psicologico del personaggio e, infatti, il soprano croato attacca con piglio tragico e controllo del suono l’incipit dell’aria.  Anche se alla chiusa emette qualche suono un poco aperto “ripaso profando” la salita al  di si bem di “ piange in cielo” fa sentire suoni immascheratissimi ed al tempo stesso dolci, paradisiaci, che giustamente spettano alla regina ed all’anima semplice ed innamorata. E’ un po’ fisso il  si bem “di pianto MIO”, ma fiato e suono sono al servizio dell’interprete, che alle frasi “Carlo qui verrà” senza essere solenne non è certo una grisette, ma sbaglia  parole e scansione. Rispetta la tradizionale messa di voce di “Francia” con un altro suono purissimo e paradisiaco ripetuto su Fontainbleau e sbaglia le parole, che precedono la ripetizione dell’incipit. Chi volesse sentire come si fa a scendere quando per natura non si dispone delle note gravi deve sentire la discesa di Sena Jurinac al “conoscesti del mondo” e “riposo profondo” oltre tutto Karajan, che stacca un tempo un poco più sostenuto di quello che farà con Mirella Freni,  riesce a rendere più agevole la simulazione di drammaticità e tragicità. Gli acuti della Jurinac, poi, sono penetranti e squillanti  salvo un si bem in chiusa attaccato scoperto ed un poco spinto

 

Versione tagliata per il duetto conclusivo, come Karajan continuerà a proporre (e non capisco perché) dal vivo. Fernandi è un poco nasale nelle frasi iniziali, ma l’idea dello squillo imposto al personaggio gli è ben chiaro e lo rende facilmente anche perché il colore orchestrale è bellissimo caldo e dolente come pure l’accento di Sena Jurinac alla frase “le donne han per gli eroi” cui segue un tenerissimo e sfumata attacco di “ma lassù..” che senza svenevolezze  connota la tragedia del distacco fra i due mancati amanti anche se il la nat di “sospirato ben” è cantato forte  la prima volta ed alla ripetizione durante l’unisono suona piuttosto fisso e  fa venire meno il clima di triste addio cui, forse, è un poco estraneo anche Fernandi, che a differenza di Carreras, però, canta. E sarà uno degli ultimi!

25 pensieri su “Il convento di San Giusto, il convento del grand-opéra. Settima puntata: San Giusto secondo von Karajan

  1. non trovo che la jurinac emetta sempre gli acuti alla tedesca. Basta sentirla in manon, butterfly e nell’aria della forza. Qui però forse per il peso della parte tende a suoni fissi. se ascolti l’esecuzione del 1968 i suoni fissi non ci sono o quasi.

  2. Per carità la Jurinac è una grande (e si sente!), ha una grande eloquenza, ma gli acuti qui sono davvero fastidiosi e abbruttiscono la performace! La Freni non avrà lo stesso allure, ma disegna una grandissima regina, più dolente e dimessa, inoltre, non si può che ammirare il suo canto e il fraseggio. Personalmente mi è piaciuta moltissimo :)

  3. ho ritenuto di citare la Meier in relazione a tutta la m. che le é piovuta addosso nei giorni scorsi e dopo averla riascoltata nei suoi primi due trionfi nel ruolo di Kundry (Fenice e Scala 1991). Peraltro se si tiene conto che il valore di un cantante non lo stabilisce un Mancini, un Donzelli o un Albertoemme ma il riscontro del pubblico in un apprezzabile lasso di tempo, Meier e Freni possono effettivamente considerarsi sullo stesso piano seppure siano state eroine in diversi repertori e non credo che la Freni (persona assai scaltra e intelligente) si senta offesa dal paragone.-

  4. la Freni non era certo la voce verdiana da Elisabetta di Valois ma qui ne da una lettura del personaggio interessante e a mio avviso convincente; funziona molto di più qui che in altro Verdi dove invece non è mai riuscita a convincermi.
    Certamente soprano d’altro repertorio ma se un soprano volesse fare un incursione in un repertorio più pesante, vorrei sempre che fosse fatto con la musicalità, l’intelligenza e la tecnica di una Freni.

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