Non è la prima volta che proponiamo, nelle nostre settimanali comparazioni, la cavatina di Romeo Montecchi. E la presente non sarà certo l’ultima, perché “Se Romeo t’uccise un figlio” e la susseguente “tremenda ultrice spada” costituiscono una superba ed esaustiva esemplificazione di quello che l’opera del primo Ottocento richiede alla corda del musico, che non può essere che en travesti, dato che questa e tutte le altre parti del medesimo genere furono pensate e scritte per voci femminili, che appartenessero a donne (per lo più) o a cantanti evirati (i pochi all’epoca superstiti, su tutti il sommo Velluti). La precisazione sarebbe pedante e superflua solo in un mondo ideale, visto che nel nostro abbiamo già assistito, e certamente in futuro nuovamente assisteremo, allo spettacolo, per il quale mancano gli aggettivi, di falsettisti che, avendo già fatto scempio di Vivaldi, Haendel e Mozart, riducono ad altrettante caricature gli eroi del melodramma rossiniano e belliniano. Alla dolcezza della perorazione prevista dal recitativo e più ancora dal cantabile (la dolcezza non deve, però, far dimenticare che è pur sempre un guerriero colui che, sotto le mendaci spoglie dell’ambasciatore, si rivolge al suo principale nemico e al di lui stato maggiore) segue, dopo un breve tempo di mezzo, l’impeto ardente, a stento temperato dal simulato distacco del mendace intermediario, della cabaletta, che si può a ragione definire rossiniana, non solo per le varianti che il Pesarese predispose, con ogni verosimiglianza, per Giuditta Grisi, ma per l’utilizzo, a conti fatti piuttosto parco, dell’agilità di forza (quartine vocalizzate), stilema prediletto e autentica sigla degli eroi rossiniani colti nel momento del massimo furore.
Abbiamo scelto di comparare due cantanti che, avendo esordito sotto il segno esclusivo o quasi di Rossini, hanno scelto in seguito di percorrere altri sentieri. A volte certe scelte sembrano ben poco tali e appaiono, piuttosto, passaggi obbligati, benché non risolutivi. Per Daniela Barcellona era quasi scontato, vista l’importanza del mezzo naturale, l’approdo a Verdi, mentre la consuetudine con la lingua francese ha assicurato ad Anna Caterina Antonacci una posizione di rilievo tra le “diseuses”, schiera sempre folta nel mondo della tragédie lyrique come della melodia da salotto transalpina.
A parte Cenerentola e la Rosina del Barbiere, le due signore non hanno affrontato, di Rossini, i medesimi ruoli (“specialista” dei ruoli virili, anche per la monumentale complessione fisica, la Barcellona, impegnata a rinverdire i fasti, più interpretativi che vocali, di Isabella Colbran l’Antonacci), ma entrambe hanno sostenuto la parte di Romeo ed è interessante ascoltarle in un brano come questo, che insiste, salvo sporadiche incursioni sotto e sopra il rigo, tra il re2 e il sol3, come dire su quella zona che dovrebbe costituire la base della voce mezzosopranile. Interessante e istruttivo, poiché dimostra che si può cantare in maniere differenti, ma comunque in modo tale da legittimare seri dubbi circa la fondatezza di taluni incensi, generosamente profusi, nonché, presso l’ascoltatore meno avvertito, circa il valore della musica belliniana. La voce della Barcellona risulta bassa di posizione, artificiosamente gonfia, con una grottesca discesa ai gravi, sui quali si avverte il proverbiale “scalino” della voce (“e piange ancora”), mentre dal fa acuto in su (“incolparne dêi la sorte”) il suono perde ogni parvenza di morbidezza, risultando fisso, quando non viene sostituito da autentiche urla (i maldestri tentativi di ascensione al si naturale nella cabaletta). Faticosissimo il legato in una frase come “altro figlio troverai nel mio signor”, che insiste sulla zona di transizione tra il centro e i primi acuti, ma la cosa peggiore è che questo Romeo non possiede una parvenza di fraseggio, un indizio di nuance: tutto è cantato solo ed esclusivamente forte, depauperando il personaggio del suo lato elegiaco. Quanto al ritratto del guerriero offeso, che minaccia vendetta, l’abborracciata esecuzione, peraltro scorciata e semplificata, delle varianti rossiniane alla cabaletta permette di comprendere come i limiti espressivi di questa interpretazione siano, in primo luogo, limiti tecnici.
Un poco meglio, anche perché in ogni senso più sorvegliata, l’esecuzione dell’Antonacci, che almeno nel cantabile si sforza di essere dolce e suadente, riuscendovi in massima parte, salvo per il fatto che nella zona del passaggio superiore compaiono suoni malfermi e non sempre intonati, mentre al centro la voce risulta larvale, conseguenza di un appoggio non sufficiente e soprattutto non costante. Bazzecole di fronte a quanto, nella medesima pagina, combina la Barcellona. Alla cabaletta la cantante ferrarese scivola, al pari della triestina, sull’esecuzione del canto fiorito, che sembra richiamare i più nefasti esempi di scuola baroccara, e nelle velleitarie interpolazioni in acuto (in chiusa viene toccato, per un istante, il do5) esibisce una voce acidula, da sopranino di coloratura d’antan (accorciato in alto). Ricordiamo peraltro come l’Antonacci abbia iniziato la carriera come soprano puro, e solo in seguito si sia dedicata dapprima a tessiture più centrali, successivamente a repertori in cui la scansione del testo è spesso considerata preminente rispetto alla compiuta realizzazione di quanto previsto dallo spartito.
Di fronte a questi due esempi, del pari costernanti, della poca consistenza e dell’inesistente pertinenza vocale e stilistica di buona parte di quella generazione di belcantisti, che secondo molti avrebbe relegato nel giusto oblio quanto prodotto dalle generazioni precedenti, il solido mestiere, anzi diciamo pure l’ARTE di Fiorenza Cossotto, applicata solo occasionalmente a questo repertorio, ma sempre con risultati all’altezza del professionismo e della rigogliosa natura vocale della cantante, è un autentico balsamo. Anche perché la cantante vercellese riesce, a differenza delle colleghe, a restituire il senso del cantabile “Se Romeo t’uccise un figlio” proponendo una dinamica varia e appropriata, “smorzando” senza alcun problema (“nel mio signor”), trovando anche su note scomode quali il sol4 di “a lui diè morte” e il fa4 di “dêi la sorte” un suono sempre alto di posizione e quindi facile, penetrante e al tempo stesso dolcissimo. Alla cabaletta manca lo slancio della consumata virtuosa, ma l’esecuzione delle quartine vocalizzate è fluida e precisa, l’accento sempre estremamente misurato ma non per questo inerte, la discesa ai gravi (“e tal sarà”) incomparabile rispetto a quella delle colleghe (che, difatti, trasportano all’ottava la frase in questione, senza peraltro cavarne chissà quali meraviglie). Legittimo biasimare il taglio della ripetizione della cabaletta e, di conseguenza, l’assenza delle varianti rossiniane o di altre consimili, e d’altra parte il fatto di eseguire integralmente, e magari rimpolpare, quanto previsto dall’autore non può e non deve costituire un’attenuante generica per qualunque risultato, che al rispetto della lettera non unisca analogo rispetto della poetica dell’autore e di un intero genere musicale. In questo senso c’è ancora molto da imparare da certa tradizione, al netto dell’impiego più o meno generoso, più o meno indiscriminato delle tanto deprecate “forbici”.