Wagner Edition: Der Ring des Nibelungen. Parte IV

GOTTERDAMMERUNGDopo lo spazio giustamente lasciato alla cronaca degli ultimi giorni relativi all’affaire Pereira, torniamo ad occuparci di Wagner, reimmergendoci nelle dense coltri nibelungiche per l’ultimo capitolo dedicato al Ring. In questa quarta parte il Götterdämmerung, il crepuscolo degli dei – inteso come trasvalutazione di tutti i valori o come annuncio di un’epoca nuova – funge da summa della visione ideologica del compositore e occasione, per noi, di riflettere sul Wagner dopo Wagner, sulle controverse letture della sua opera e su quel che rimane oggi del mito, attraverso i tentativi di attualizzarne il contenuto. Punto di partenza è ancora la biografia dell’autore e la sua formazione politica. Due grandi poli si possono individuare nell’ideologia wagneriana: l’anarchismo rivoluzionario che lo portò ad aderire ai moti di Dresda del 1848 (che gli fecero guadagnare una condanna a morte scampata solo con l’esilio) e l’antisemitismo nazionalistico della sua svolta “spiritualista”. Se il primo Wagner, infatti, vagheggiava il rovesciamento sociale attraverso l’azione violenta (erano gli anni delle sue frequentazioni con Bakunin), ben presto – e in modo abbastanza repentino – abbandonò le velleità rivoluzionarie per concentrarsi sull’essenza dello spirito tedesco, “minacciato” dalle contaminazioni latine e dal giudaismo in musica. Wagner raccolse le sue teorie in scritti piuttosto astrusi e violenti in cui si percepisce il dilettantismo ideologico e la confusione, ma che diventano fondamentali per comprendere la formazione dell’autore. Certo questo guazzabuglio è da  prendersi con la dovuta cautela: l’antisemitismo era largamente diffuso in Europa anche prima del secolo XIX e certi violenti attacchi contro la musica “giudea” paiono più motivati da invidie e livori personali piuttosto che da reali convinzioni filosofiche. A questi due poli ideologici (in particolare all’antisemitismo) si intrecciano due altri fattori che contribuiranno alla più compiuta definizione politica di Wagner: il nazionalismo e la religione. Il primo venne irriso da Marx che definì il compositore “musicante di stato”, il secondo causò la repulsione di Nietzsche che, perso il giovanile entusiasmo, accusò il musicista di essere uno stregone. Per quanto inorganico potesse essere il suo pensiero, il mito wagneriano, finì per affascinare il giovane Hitler, e, paradossalmente, non per la sua componente antisemita, quanto per il nazionalismo, per l’esaltazione dello spirito germanico e soprattutto per la caratterizzazione della figura solitaria e tragica dell’eroe che attraverso la sola volontà conduce il suo popolo all’autoaffermazione nella storia. E’ Rienzi l’opera che il futuro Führer della Germania non smette di rivedere anche negli anni della sua disillusione viennese (che sono poi gli anni della formazione politica). E se si pensa che Rienzi rappresenta la negazione del Wagner canonico (quello che lui stesso si è “inventato” ponendosi sopra un piedistallo di consapevolezza ideale ed estetica, quale profeta e creatore della “musica dell’avvenire”) il paradosso diviene ancora più grande: senza contare, poi, l’influenza che ha avuto – su quel maldestro “polpettone” storico – la musica del “giudeo” Meyerbeer. Hitler arrivò a dire che “senza Wagner non si può comprendere il Nazionalsocialismo”: e infatti durante gli anni del III Reich il compositore divenne (nuovamente) la colonna sonora ufficiale del regime. Certo non si possono attribuire a Wagner responsabilità non sue attraverso valutazioni a posteriori del suo pensiero e senza considerare le circostanze storiche e culturali in cui ha vissuto, però fa impressione leggere nell’ostracismo nazionalsocialista a Mendelssohn le stesse parole che gli dedica Wagner. Ma torniamo al Ring e al suo fulcro ideologico, rappresentato – appunto – dall’ultima giornata: a partire dal monologo finale di Brünnhilde che non chiude soltanto l’opera, ma l’intero ciclo. Il compositore lo modificò più volte, a partire dal primo abbozzo del Sigfrieds Tod, parallelamente alle proprie evoluzioni filosofiche. Nella prima redazione, infatti, l’accento è posto sulla possibilità di un’umanità liberata e trasfigurata dall’amore universale: gli dei vengono spazzati via, come un soffio, distrutti dalla loro stessa avidità e brama di potere, lasciando libero l’uomo attraverso l’amore. Dice Brünnhilde, di fronte al rogo dell’eroe: “Né i beni, né l’oro, né lo splendore degli dei; né palazzi, né corti, né fasti meravigliosi; né perfidi legami di loschi trattati, né la legge imperiosa di un vivere ipocrita: solo l’amore rende felici nel piacere e nel dolore”. Siegfried rappresenta ancora il futuro dell’umanità finalmente liberata dalla schiavitù della proprietà, della religione, del capitale: lotta contro Wotan (liberazione dell’uomo dalla schiavitù religiosa) e uccide Mime e Fafner (liberazione dallo sfruttamento e dal potere del denaro). Sono evidenti le suggestioni di Feuerbach – avidamente letto dal Wagner di quel periodo – per cui l’unico fine dell’uomo è l’uomo. Il mito è calato nella società industriale, tra insurrezione e lotta di classe: la fine del mondo degli dei (il filo spezzato tra le mani delle Norne) diventa necessaria per la nascita di un nuovo mondo dove regnerà quel comunismo non marxista, ma mutuato dai modelli della società greca (più volte citato in Arte e Rivoluzione e L’opera d’arte dell’avvenire), che costituisce ancora l’unica speranza di salvezza e redenzione, da raggiungere anche a costo del sacrificio personale. Proprio questa chiave di lettura sarà riproposta dopo l’esperienza del III Reich, quando fu necessario ripensare Wagner e affrancarlo dalle sovrastrutture ideologiche del Nazionalsocialismo: su ciò si snoda l’operazione di “ricollocamento ideologico” operato dai nipoti Wieland e Wolfgang  nel dopoguerra, culminato col rivoluzionario Ring di Chereau/Boulez che espliciteranno tale “ritorno a Feuerbach”. Ma accade qualcosa tra i moti di Dresda e la veste finale dell’epopea nibelungica: Wagner legge l’opera capitale di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione. L’interpretazione filosofica del Ring cambia e all’ideologia umanitarista dell’amore positivo, trionfante e redentore dell’umanità liberata, si sostituisce un più cupo pessimismo: l’amore diviene negazione dell’io e pietà. Lo stesso sacrificio dell’eroe non è più un gesto volontaristico, ma l’abbandono al non vivere per compassione dell’uomo. Protagonista non è più Siegfried, ma Wotan che incarna il divenire della storia, tra desiderio e negazione. L’oro non è più il simbolo del mondo industriale, non rappresenta più lo sfruttamento e il potere del capitale, ma l’insieme delle tentazioni offerte all’egoismo umano. Cito J.J.Nattiez (autore di un fondamentale saggio su Wagner, e studioso di Boulez e del suo approccio teorico e musicale): “Wotan rappresenta l’incarnazione della Volontà organizzata e assoluta che, in virtù di questo, non può negare sé stessa. E’ dunque necessaria una volontà individuale ed è con questo fine che l’intelletto di Wotan lo spinge a creare un eroe libero. Il Ring sarà allora il luogo di combattimento tra egoismo e rinuncia. I giganti incarnano la materia sulla quale poggia il mondo dello spirito; Loge, l’intelletto sempre rinnovato, esprime la Volontà pur restando il servitore di Wotan; Erda è il Sapere, il destino che guida il mondo per opposizione all’azione rappresentata da Wotan. Siegfried, Siegmund e Brünnhilde sono anch’essi oggettivazioni della Volontà, ossia creature di Wotan. Il dio si rassegna nel momento in cui raggiunge il termine della sofferenza morale. Disobbedendo, Brünnhilde manifesta la rappresentazione che inizia a emergere dalla Volontà. Siegfried, invece, respinge il giogo della volontà: inconsciamente mostrerà alla donna la via della rinuncia e, per primo, negherà la Volontà. E’ nel momento della morte che egli accede pienamente alla coscienza. Sul suo corpo, Brünnhilde comprende che la soppressione della volontà è l’unico modo di abolire il dolore. Ma il sacrificio di Siegfried non è stato volontario, non ha riscattato veramente il mondo. Brünnhilde invece, presa da pietà, accede pienamente al Sapere e, col proprio sacrificio voluto, trionfa realmente sulla morte. Si può ritornare al mondo primitivo della materia. In tal modo, il tema musicale della redenzione attraverso l’amore annuncia la nascita di un ordine nuovo creato dalla compassione, dall’amore e dalla coscienza”. Questo forse è il significato ultimo del Ring – Wagner non ha lasciato analisi precise in senso schopenhaueriano della sua opera – anche se all’autore, probabilmente, non è ascrivibile alcuna coerenza filosofica (troppe volte si era buttato con passione cieca sull’ultima filosofia letta o conosciuta: passando da Feuerbach a Schopenhauer, dal Buddismo al Cristianesimo, dal socialismo al nazionalismo etc…). Proprio questa incoerenza lascia aperte molte strade e rende possibili le più differenti interpretazioni, anche se i poli opposti tra speranza e pessimismo devono essere compresi per comprendere l’evoluzione dell’autore. Un animo inquieto che cerca con disperazione una missione e un compito per i secoli a venire. Hitler lo fraintese – fermandosi solo all’esteriorità del mito – ma non aveva torto nel definirlo indispensabile per comprendere il Nazionalsocialismo e lo spirito tedesco, perché un’opera, un testo, un’idea hanno senso per ciò che dicono alle generazioni future: nel bene e nel male. Ecco perché trovo fuorviante la negazione così come grottesca l’attribuzione di responsabilità. Solo attraverso la storicizzazione dell’epopea wagneriana si può comprendere l’uomo, il Ring e il suo mito.

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3 pensieri su “Wagner Edition: Der Ring des Nibelungen. Parte IV

  1. Vivaverdi
    Da un antivagneriano (proprio non lo sopporto…però però…La Walkiria…il Parsifal…insomma qualcosa riesco a sopportarlo), comunque, ripeto, da un antivagneriano tanti ringraziamenti a Duprez. Bellissimo articolo, interessante, chiaro ed esaustivo. Bravo davvero.
    Saluti

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