Decisamente in anticipo rispetto ai tempi fissati dagli outlet ed esercizi commerciali consimili, il Comunale di Bologna ha principiato le svendite di fine stagione, offrendo a prezzi modici, o meglio calmierati, poltrone di platea per le recite fuori abbonamento dell’Eugenio Onegin che martedì scorso, giorno del pesce d’aprile, ha debuttato nella sala felsinea. Decisione logica e ineccepibile, visto che il teatro, la sera della prima, presentava qualcosa come trenta palchi completamente vuoti (il conto è approssimativo, e non considera i palchi occupati da una sola persona, né quelli svuotatisi entro la fine del primo intervallo). Appare difficile, nella presente circostanza, tacciare il pubblico bolognese di grettezza, scarsa sensibilità, indifferenza al fascino di una musica insolita ed ostica. Non c’è forse opera, tra quelle del repertorio russo, che più di Onegin sappia parlare alle platee occidentali, persino a quelle digiune di Puskin: la vicenda lineare, le passioni semplici e intense che animano i personaggi, il contrasto fra l’innocenza di Tatiana e di Lensky da un lato, e il cinismo del protagonista dall’altro, unito a brani celeberrimi quali la scena della lettera, l’addio alla vita del giovane poeta e l’aria in cui Gremin declina la propria felicità coniugale, hanno fatto e seguitano a fare del melodramma di Tchaikovsky uno dei favoriti del pubblico. Solo che, per metterlo in scena in maniera adeguata, e suscitare un congruo interesse, occorrono diversi ingredienti, tutti assenti o comunque in larga misura latitanti in questo allestimento “da primo aprile”, o meglio, da profonda provincia bulgara. C’è bisogno in primo luogo di una bacchetta valida, e non già genericamente corretta come quella del maestro Shokhakimov, attento soprattutto a non coprire le voci dei solisti, incapace però di differenziare le scene di colore (al proposito, appare inspiegabile il taglio dei cori dei contadini alla prima scena, soprattutto perché una simile scelta vanifica la citazione di uno dei temi musicali, inserita nell’introduzione al successivo assolo di Olga) da quelle, intense e drammatiche, riservate ai protagonisti. Male anche l’orchestra, che ha sfoggiato suono invariabilmente morchioso, poco brio e nessuna eleganza alla grandiosa polacca, che introduce il terzo atto, clangori bandistici alla festa di compleanno di Tatiana e più ancora al finale dell’opera, in cui solisti e buca facevano a gara a chi sbraitava di più. Identica, sconfortante piattezza ha sfoggiato nella sua grande aria Sergej Skorokhodov come Lensky: la voce è piuttosto voluminosa, quasi “importante” per i tempi che corrono (e anche in relazione alle modeste dimensioni della sala), ma sul passaggio superiore compaiono suoni schiacciati e manca, più in generale, quel saldo controllo della voce, che solo consente la dinamica sfumata, cifra caratteristica del malinconico poeta. Lena Belkina, in predicato per il ruolo en travesti nell’Aureliano in Palmira della prossima estate pesarese, ingola la prima ottava, che risulta gonfia e artificiosamente oscurata, mentre al centro la voce è, per volume e colore, quella di un soprano leggero. Amanda Echalaz, acclamata nei teatri tedeschi quale interprete di riferimento del tardo Verdi, presenta la curiosa caratteristica (curiosa soprattutto in relazione al repertorio abitualmente frequentato) di una prima ottava vuota e sorda, cui si accompagnano un registro centrale un poco più consistente, ma in cui la cantante stenta a legare, ed acuti ora flautati, ora malamente strillati, invariabilmente al limite di una corretta intonazione. Al termine di una scena della lettera sospesa tra il pigolio e il bercio (quello, però, di una voce di limitato calibro) non si può che pensare all’eloquenza di una Gencer, altra assidua verdiana non assistita dall’importanza dello strumento vocale, nonché a un’altra celeberrima scena della lettera, che proponiamo in appendice. Degno corteggiatore di cotanta Tatiana è Artur Rucinski, qui un po’ meno provato dalla difficoltà della parte rispetto a un tristemente noto Trovatore viennese, ma sempre a mal partito quando, come spesso accade, Onegin si trova a dover fraseggiare sulla zona dei primi acuti, come nel monologo che chiude il primo atto, alla sfida con Lensky e soprattutto al duetto finale. In questi passi i suoni fibrosi e agli antipodi del canto professionale, semplicemente, non si contano. Modesti anche i comprimari, e tra questi includiamo il principe Gremin di Alexei Tanovitski, dalla voce senescente (anche ben oltre la maturità anagrafica del personaggio, che peraltro non ha certo, per usare un’espressione ambrosiana, gli anni dei datteri), malferma e sistematicamente stonata, al punto da meritare, dopo l’aria, un’isolata contestazione sortita dal semivuoto loggione. Avvilente, infine, l’allestimento di Mariusz Trelinski, importato da Varsavia e caratterizzato dai soliti arredi scenici stilizzati e geometrici, una passerella che circonda l’orchestra (come negli spettacoli di Ronconi, o in quelli dell’avanspettacolo), una figura biancovestita che potrebbe essere (va savoir) il vecchio Onegin ovvero la sua rinnegata innocenza, o ancora l’ideale amoroso di Tatiana, la polacca trasformata in una sfilata di modelle-zombie. Poche idee ma confuse, e comunque già viste. Troppe volte.
5 pensieri su “Evgenij Onegin a Bologna”
Lascia un commento
Devi essere connesso per pubblicare un commento.
Il secondo cast, ascoltato domenica, sicuramente è stato -da quanto leggo- superiore al primo, la qual cosa ormai è quasi una regola e non solo a Bologna.
In particolare m’è piaciuto il tenore armeno, che ha ricevuto un’autentica, condivisibile, ovazione dopo l’aria “Kuda, Kuda”.
Sul direttore, in effetti più portato alla caciara che alla ricerca di tinte ed ambienti, non sarei troppo severo. Si farà, magari sarebbe auspicabile si facesse a casa sua. Ma, insomma, se la batte coi “nostri” Rustioni e Battistoni, per intenderci e, rispetto a quest’ultimo ed al recente disastroso Trovatore, quanto meno riesce a dare attacchi giusti ed a tenere insieme il palcoscenico.
Il taglio del coro dei contadini penso sia imputabile alla delirante regia e al non meno “fantasioso” allestimento, che pare sortito dalla mente “fumata” di un Disney da strapaese. Filipievna, vestita come una zarina dei tempi di Ivan il Terribile (e sta cucinando la marmellata nel paiolo!) contesa e palpeggiata da Onieghin e Lensky ha dello straordinario. Ma il tocco demenziale si è avuto con la comparsa di Triquet, una sorta di Malgioglio con trenta chili in più e cresta rosa, accompagnato dagli inevitabili “bodybilderati” in versione trans e con tanto di alucce, nonché la torta per Tatiana a forma di pianta carnivora (ricordate la Piccola bottega degli orrori?) e contenente una ballerinetta.
Essere inseriti e far finta di crederci in un simile contesto non deve essere cosa facile. Quando si finirà di mettere alla berlina i capolavori assoluti? Abbiamo davvero l’urgenza di importare (dalla Polonia, in questo caso) simili schifezze? Boh
Beh…Badalyan a Cagliari come Pinkerton tre anni fa non arrivava alla fine dell’opera… vuol dire che è migliorato…spero…
Caro Vecchiomarobusto, poco più di un secolo fa (1899) esportavamo a Varsavia l’Onegin con Battistini e Salomea Kruscenisky. Oggi il flusso si è invertito, ma soprattutto è profondamente mutato l’oggetto dell’import-export.
Ops… nel post di cui sopra, ho confuso Filipievna con Larina, imperdonabile! 😉
Mica tanto, visto il contesto, caro robusto.