Wagner Edition: Der Ring des Nibelungen. Parte III.

SIEGFRIEDPrima di giungere – nell’ultima parte – all’analisi di come l’opera wagneriana sia stata interpretata dai posteri e dei suoi rapporti con la storia, la politica e la filosofia, prendo spunto dalla discussione seguita al capitolo precedente per valutare il lascito wagneriano nell’evoluzione del genere operistico nella percezione dei compositori dell’epoca immediatamente successiva. Con la prima esecuzione completa del Ring, nel 1876, nel teatro/tempio di Bayreuth, si realizza compiutamente la concezione wagneriana dell’opera d’arte dell’avvenire. Il dramma musicale cessa di essere un mero svago, una mera occasione di appagamento estetico, per divenire qualcosa di inedito e di più complesso: musica e poesia si fondono per dar forma ad un teatro di idee, dove si richiede al pubblico uno sforzo di comprensione maggiore e che travalica il mero ascolto (si pensi al già accennato sistema dei Leitmotive che comporta un nuovo sistema di fruizione musicale). Chiaramente l’opera wagneriana si pone come punto di svolta, come snodo epocale tra due differenti concezioni artistiche, generando un inevitabile scontro tra i sostenitori del nuovo e i paladini del vecchio. Già le prime resistenze all’innovazione wagneriana si erano sperimentate a Parigi in occasione della famigerata prima del Tannhauser: aldilà dell’esito disastroso della serata – a cui contribuirono un’esecuzione largamente deficitaria, un pubblico disinteressato ad un impegno maggiore che non fosse sbirciare le cosce delle ballerine ed una campagna stampa ferocemente contraria al compositore tedesco – fu subito chiaro un doppio livello di resistenza. Quello più superficiale e legato alla frivolezza dell’opera, costituito dal bel mondo parigino, dall’alta borghesia annoiata, dai conservatori ad oltranza (quel mondo variegato spietatamente descritto da Baudelaire nel suo saggio su Wagner); e quello più profondo che si sentiva di rappresentare una presunta civiltà musicale messa in pericolo dalla rivoluzione wagneriana. Era il mondo ancora legato ai fasti del grand-opéra e ai suoi effetti senza causa, all’auctoritas di Rossini (che ormai sopravvissuto a sé stesso era ancora visto come baluardo dei bei tempi andati), alla centralità del cantante e alla musica intesa come esibizione. Sarebbe però ingiusto liquidare l’antiwagnerismo col folklore, perché accanto ai consueti duellanti contro i mulini a vento (nel bislacco tentativo di fermare le lancette del tempo nella fallimentare convinzione che la storia, in fondo, sarebbe solo un’opinione) vi era chi criticava l’autore per altre ragioni: principalmente per la sovrastruttura ideale che imbrigliava la libertà compositiva. Così musicisti come Debussy, Bizet, Saint-Saens (wagneriano pentito) non possono essere liquidati come reazionari difensori del passato. Peraltro – come è consueto – proprio nei più strenui avversari del musicista tedesco si leggono le più chiare influenze della sua musica (si pensi proprio al caso Debussy ed il suo cromatismo estremo che non può non richiamare le suggestioni tristaniane). Ma se il dibattito in Francia derivava da una conoscenza più o meno diretta della materia, le maggiori resistenze si ebbero in Italia  dove più viva era la tradizione del melodramma e dove l’opera wagneriana era penetrata con maggior fatica (tanto che molti tra i wagneriani e gli antiwagneriani non avevano probabilmente mai ascoltato una nota dell’oggetto del loro culto o delle loro critiche). La cronologia è emblematica: Lohengrin nel 1872, Tannhauser nel 1873, Rienzi nel 1874, il Ring nell’83 (ma per ascoltarlo alla Scala si dovrà attendere il 1926), il Tristan und Isolde nell’88, i Meistersinger nell’89 e il Parsifal nel 1914. Negli anni più ferocemente antiwagneriani, dunque, si aveva in realtà una conoscenza solo sommaria delle sue opere. Ma anche tra le file dei cosiddetti wagneriani vi era una conoscenza relativa della sua musica: senza contare che la critica del tempo attribuiva il titolo di wagneriano (con senso ora elogiativo ora spregiativo) a qualunque compositore rimpolpasse un po’ più del consueto l’orchestra o smussasse l’alternanza tra pezzi chiusi e recitativi o reiterasse temi ricorrenti nel corso della partitura (un po’ come Mercadante che – per la critica italica del tempo – era maestro di contrappunto, suscitando l’irrisione dei musicisti di area tedesca – che il contrappunto masticavano si dalla culla – incappati in titolazioni del genere). In Italia, tuttavia, a partire dalla metà del secolo XIX, le cose cominciavano a mutare. Lasciando da parte la parabola verdiana – non rappresentativa della realtà italiana dell’epoca – i modelli rossiniani si cominciavano a sgretolare: l’ouverture su tipico modello di Rossini lasciò il posto alla cosiddetta sinfonia descrittiva, al poema sinfonico (evidente era il modello di Liszt) e la descrizione pittorica dell’ambiente si trasferì presto anche nell’opera lirica – all’Italia mancò una cultura sinfonica vera e propria – e divenne bagaglio irrinunciabile dei wagneriani nostrani. Cominciò Boito a parlare di musica dell’avvenire e a farsi propulsore della rivoluzione wagneriana in chiave anti verdiana (prima, naturalmente, di mettere al servizio di Verdi e dei ricchi compensi garantiti da Ricordi, la sua immaginifica penna di mediocre librettista), ma la sua parabola musicale fu un fraintendimento completo. Più emblematico il caso di Gobatti che consapevolmente volle ispirarsi a Wagner e portare con I Goti, la musica dell’avvenire in Italia. L’immeritato clamore iniziale, però, si tramutò velocemente in un altrettanto immeritato oblio, e Gobatti rimase una vittima della guerra non dichiarata tra wagneriani e antiwagneriani. La questione si ripropose in epoca post verdiana così che la nuova generazione di compositori tra ‘800 e ‘900 iniziarono a rifarsi ai modelli allora identificati col wagnerismo: Catalani, Puccini, Smareglia, Mancinelli si fecero portatori delle nuove idee. Di fatto, però, nessuno riuscì ad abbandonare la tradizionale gestione della melodia tipica della musica italiana e il conseguente rapporto tra orchestra e voce. Così tra battaglie ideologiche, pretesti di realpolitik (era l’epoca dei conflitti mondiali e della politica anti germanica), scaramucce tra editori (i Lucca e i Ricordi che con la scusa di diffondere la musica dell’avvenire e tutelare la tradizione nazionale, cercavano solo di presidiare la loro fetta di mercato) e rivalità campanilistiche (Bologna contro Milano), i contorni paiono più sfumati e le pretese di rivoluzionare o conservare si inquadrano nel normale sviluppo della storia: un’evoluzione che corre diversamente da una parte all’altra dell’Europa e che non può tener conto delle differenze culturali e ambientali che necessariamente influirono sulla diffusione della musica wagneriana e sulle resistenze ad essa. Nel prossimo ed ultimo capitolo verrà trattata l’eredità wagneriana, la gestione del suo culto da parte della vedova e dei discendenti, gli arbitri, i rapporti col nazionalsocialismo e le nuove implicazioni filosofiche dell’opera di Wagner.

Gli ascolti:

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SIEGFRIED Atto I
Direttore: Erich Kleiber
Teatro Colón (Buenos Aires) 4 Ottobre, 1938
Siegfried – Max Lorenz
Mime – Erich Witte
Wanderer – Herbert Janssen

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15 pensieri su “Wagner Edition: Der Ring des Nibelungen. Parte III.

  1. Detesto Wagner!!! Adoro Verdi e tutto il melodramma italiano. Forse sono superficiale e me ne dolgo ma, arrivato alla mia età, non posso più farci niente. Però faccio i miei complimenti a Duprez per il suo post (anche per quelli precedenti) che condivido, che ho apprezzato e letto con molto interesse.
    Preciso inoltre che il mio detestare Wagner, forse, è un po’ come “la volpe e l’uva”…cioè non sono in grado di capirlo, anche se negli anni mi sono sforzato. Su questo sito poi sono già intervenuto qualche anno fa su questo argomento, suscitando qualche polemica. Voglio inoltre precisare che la mia avversione per Wagner si riferisce soprattutto al drammaturgo. Ecco, io trovo che fu un drammaturgo molto mediocre e presuntuoso e mi ha sempre irritato che nella critica wagneriana questo particolare sia stato raramente tenuto in conto. Secondo me è un errore, avendo avuto il musicista tedesco l’ambizione di essere il rivoluzionario che creava l’opera d’arte dell’avvenire in cui testo (testo, si badi bene, non più libretto-anzi per meglio dire “dramma”) e musica erano un tutt’uno. Ebbene, secondo me, sotto questo punto di vista la “rivoluzione” wagneriana è stata un fallimento: i suoi “drammi” sono pieni di ripetizioni lunghissime, inutili, mi sono sempre sembrati drammi di una persona che sembrava scrivere per un pubblico di deficienti a cui era necessario ogni tanto fare il riassunto di quanto era stato visto e raccontato prima, il tutto in monologhi o dialoghi interminabili. A questo proposito si provi a pensare alla palla infinita del dialogo tra Viandante e Mime nel primo atto del Sigfrido, in cui con un espediente drammaturgico veramente da prima elementare (gli indovinelli) si racconto tutto quello che lo spettatore ha già visto nelle due opere precedenti!!!Ma vi sembra una creazione questa? E di esempi così in tutta la produzione di Wagner ce ne sarebbero tantissimi. Ma qui mi fermo. Sulla musica non mi esprimo perchè non oso.
    Però complimenti ancora a Duprez.
    Firmato. Vivaverdi

    • Stante l’oziosità dell’opposizione con Verdi, certamente in Wagner si apprezza qualcosa di diametralmente opposto a quanto fa grande l’opera del Bussetano. Tanto questo è incisivo, sintetico, capace in due battute di scolpire il Grande Inquisitore o Otello – e si potrebbe leggere l’intera produzione verdiana sotto l’aspetto di tale infallibile immediatezza: dall’ “urgenza” anche corriva dei primordi alla sicurezza delle pennellate mature -, quanto quello maneggia qualcosa che solo nella dilatazione del tempo e delle superfici può realizzarsi. Il recupero del mito è vincolato all’uscita da uno stile narrativo moderno, sintetico, attento anzitutto al dipanarsi delle vicende: il mito vuole ritorni circolari, in un certo senso esso vive della ripetizione del suo racconto. L’esigenza di sentirsi raccontare o vedere sulla scena eventi sempre nuovi è affatto moderna, e nel venirvi meno Wagner riesce ad essere autentico mitopoieta. Di qui le sue “lungaggini”: ma senza di esse, col materiale mitico ridotto a “plot”, il Ring sarebbe un’ inutile recita in costume. La ripetizione, in apparenza drammaticamente irrilevante, serve a che la musica si realizzi come sfondo mitico, svincolandosi dall’ hic et nunc dell’avvenimento: in Wagner il mito si realizza anzitutto musicalmente.
      Gentile Vivaverdi, non credo siano “truffa creativa” espedienti di ripetizione come la scena degl’ indovinelli: la sfida di saggezza è un luogo tipico di molti carmi eddici. La riproposizione wagneriana ne recupera sia il carattere di riepilogo (come si è visto tutt’altro che esornativo) sia quello di tenzone fatale.

  2. VIVAVERDI
    voglio solo fare un paio di precisazioni a seguito del mio precedente commento
    1) Condivido con Duprez anche la valutazione circa Boito pessimo librettista, soprattutto per quanto riguarda il suo linguaggio terribile.
    Però il libretto de “La Gioconda” (Tobia Gorio) è troppo divertente!!!
    2) Infine, sempre per quanto riguarda Wagner e per non farmi sgridare troppo da Marco Ninci i cui commenti su questo blog apprezzo moltissimo: ammetto, dopo Wagner la storia dell’Opera non è più stata la stessa e sicuramente dobbiamo anche a lui, magari indirettamente, per esempio Puccini e quanto ancora di buono è venuto dopo. Quindi per me insopportabile, con le sue sopranone con le corna in testa, ma sicuramente…un grande. Eh, i tedeschi! Pensano (e agiscono…) sempre in grande. Noi siamo più casalinghi e modesti. La storia ce lo insegna. Ma io mi accontento!!!
    Saluti cordiali

  3. Ma no, carissimo VivaVerdi, non sgrido nessuno. Sono in pensione dal lavoro e anche dalle sgridate. Comunque, un grazie veramente sentito per l’apprezzamento. Io penso che di queste contrapposizioni non sappiamo più che farcene. Quello di Wagner è un mondo diverso dal nostro, ma tutt’altro che incomprensibile. Io non so se tu sappia il tedesco. Se lo sai, bene. Se non lo sai, magari cerca di studiarlo un po’, è una lingua molto bella, che dà l’accesso a un sacco di cose belle. Fra cui i testi di Wagner. Se cominci a comprenderli, vedrai che tante cose ti si chiariscono, il gioco dei temi, la psicologia dei personaggi che ai temi è legata, le situazioni. In realtà Wagner è comprensibile quanto Verdi, quanto Mozart, perché la grandezza tutti la possono comprendere. Poi ci sono diversi livelli di comprensione. Ci siamo noi appassionati, ci sono i musicologi, i grandi musicologi, gli storici della musica di grandezza assoluta. Noi nel nostro piccolo comprendiamo forse un riflesso di quella grandezza, un riflesso che però è autentico, ci procura un intenso piacere e merita ogni sforzo pur di essere colto.
    Ciao con simpatia
    Marco Ninci

  4. Volevo ringraziare per questi articoli su Wagner che trovo di somma utilità per l’approccio che negli ultimi tempi sto tentando nei confronti di questo compositore. Dopo un inizio burrascoso, ora inizio davvero ad apprezzarlo, magari non tutto, ma molto.

    Ciò che però mi infastidisce sono tutte le sovrastrutture ideologiche che circondano Wagner, alcune delle quali nascono forse da lui stesso. Secondo me non è né meglio né peggio di altri compositori, è semplicemente Wagner, con i suoi pregi e difetti. A mio gusto (e so che verrò biasimato) Meyerbeer, da Wagner tanto odiato, rimane molto più apprezzabile per la vocalità vicina a quella italiana, la straordinaria teatralità e modernità e la bella musica.

    Dissento su un unico punto, che di recente era emerso anche in un altro thread, cioè il valore di Boito librettista. Probabilmente non andrà a genio a molti, ma il valore di quei testi è altissimo, sono una sorta di manifesto della poetica boitiana, che è caratterizzata da un gusto barocco e ricco di immagini che non si può liquidare come di scarso valore. Chissà perché ancora oggi il barocco in letteratura (intendo in un senso ampio del termine non solo la letteratura del 500-600 in Europa) gode di cattiva fama, nonostante questo gusto abbia prodotto opere straordinarie.

  5. Caro Ninia, considera però che quelle che chiami “sovrastrutture ideologiche” sono il fondamento della rivoluzione wagneriana: l’idea si tramuta in musica e la musica veicola idee… Non è più mero “svago”, è proprio un altro modo di concepire l’opera. Non entro nel merito dei gusti personali che sono sempre legittimi e, pertanto, non c’è alcun biasimo nel fatto che tu preferisci Meyerbeer a Wagner perché più vicino alla vocalità italiana. Evidentemente tu reputi la vocalità italiana un modello e quindi chi se ne discosta a te parrà più indigesto. Opinione legittima, ma che io non condivido affatto (senza contare che trovo Meyerbeer scarsamente interessante quanto ai contenuti musicali…mi diverte la grandeur, ma tolto il fumo di arrosto ne rimane un gran poco).
    Mi soffermo invece su Boito, che sarà pure un fine intellettuale, ma resta un verboso e involuto librettista – a mio parere – e non per il gusto barocco dei suoi scritti (gusto che peraltro non vedo affatto), ma per l’inutile sfoggio di nozionismo autreferenziale, l’utilizzo di una prosa involuta e inutilmente complicata, la profusione di retorica, la scelta lessicale arcaica etc… I suoi libretti – non quelli verdiani (che comunque rivelano certo insopportabile arcaismo) sono esempio di tutto ciò: pensa all’orribile Ero e Leandro o la stessa Gioconda. Non hanno nulla a che fare con il barocco, ma paiono una polverosa soffitta piena di cianfrusaglie.

    • Mamma quanti giudizi di valore in una sola volta. Per fortuna la storia non si fa più coi pregiudizi e i preconcetti. Di apparati ideologici come quelli allestiti da Wagner si tende a compiere anamnesi che poi mostrano e separano il nuovo dal vecchio, il mutuato dall’originale. Lo scorrere del tempo in crosta e ispessisce i luoghi comuni che poi lo storico depura. E Wagner è da sgrassatore, a cominciare dai debiti verso meyerbeer

      • Nessuno nega i debiti di Wagner (anche se bisognerebbe valutare dove e come), ho semplicemente esposto su Meyerbeer un mio gusto che ritengo legittimo. L’apparato ideologico di Wagner potrà pure essere pretenzioso, ma è fondamentale per capire il senso della sua opera, altrimenti ci si deve accontentare del mi piace/non mi piace. Non è questione di prenderlo o meno sul serio, ma di apprezzarlo storicamente – poiché anche se qualcuno lo nega, la musica fa parte dell’evoluzione storica. L’opera wagneriana è così per le idee che vi stan dietro. Non nasce per caso. E lo stesso vale per Verdi o per Rossini.

        Ps: su Boito che dire? …prova a leggere Ero e Leandro o il primo Mefistefole o quel guazzabuglio di Nerone…poi ne riparliamo. Trovo molto più teatrale ed efficace lo stringato libretto di Attila (così ottocentesco) che i pretenziosi libretti di Boito.

        • Boito risponde ne più ne meno al suo tempo ed al tentativo di andare oltre verdi etcc Sarebbe come giudicare la pittura preraffaelita in rapporto a
          la poetica di Picasso o a quella rinascimentale. Sui suoi libretti Verdiani non la penso come te, li trovo bellissimi come impianto e per la ricercatezza del linguaggio che persegue un chiaro fine letterario e teatrale, la rivisitazione eclettica del 500 shakespiriano etc
          circa mc vickar, dei suoi Troiani so poco ma mi attirano. Quello che ho visto della sua Aida londinese mi piace assai poco, percio’ non mi sento di condividere un giudizio così unilaterale su di lui . di questi tempi è preferibile guardare una cosa alla volta. Il passaggio Dvd teatro poi spesso ci mette difronte a spettacoli diversi, come abbiamo visto proprio nella recente Lucia della Zimmermann, assai più fascinosa nei video. Il teatro non è il cinema, in bene e in male.

          • Beh io non ho parlato certo del Boito musicista: ma davvero lo vedi come uno sforzo di andare oltre Verdi? Io non trovo…anzi. Circa la sua poetica: non è che Boito rappresenti il suo tempo, ma una frangia marginale – quella scapigliatura che (parole tue, che condivido in toto) voleva distruggere il mondo borghesee finì a dipingere i ritratti dei rampolli di buona famiglia o dei direttori di banche – fu un fine intellettuale, certo, ma i suoi libretti sono assai discutibili. Non parlo di quelli verdiani in cui l’immaginifico Arrigo fu tenuto a briglia corta da Verdi, ma in quelli dove la sua fantasia e il suo arcaismo non avevano freni: prendi Ero e Leandro.

            Su McVicar: io ho visto lo spettacolo (in video) e l’ho trovato magnifico – ripeto, imparagonabile alla boiata di Ronconi, passata un paio di volte alla Scala – e di McVicar trovo altrettanto splendidi i Meistersinger di Glyndebourne, l’Adriana e le Nozze di Figaro della ROH. L’Aida non l’ho vista.

          • Chi parla della musicista? Cmque, sia Arrigo che Camillo non sono affatto marginali, anzi. Poi magari è marginale la loro Italia ma…..si, l Adriana era bella, molto molto poco “MODERNA”

          • Sui Boito probabilmente pensiamo la stessa cosa (l’accenno al musicista era riferito al tuo inciso sul “tentativo di andare oltre Verdi”…). All’epoca c’era la scapigliatura, certo, ma non solo: la paragono al futurismo di Marinetti. In ambito letterario entrambi i movimenti hanno prodotto più ragionamenti che risultati (dalle prese di posizione scapigliate contro il “vecchiume” ai tanti manifesti futuristi). La scapigliatura, poi, è rimasta più o meno marginale anche in Italia (circoscritta al nord) e tutti i suoi esponenti si sono presto o tardi reinseriti nel sistema.
            Quanto a quell’Adriana: McVicar (e altri) diomstra che non è necessario stravolgere tutto per fare una regia d’opera teatralmente moderna (con una recitazione cinematografica) e rispettosa del libretto.

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