Tosca a Bologna: dirige (eccome!) Bignamini.

BignaminiCome ormai regolarmente avviene, le sostituzioni dell’ultima ora o quasi danno vita agli spettacoli più riusciti. Questa Tosca bolognese si annunciava come una produzione (a essere generosi, ma di una generosità, che sconfina con la sconsideratezza) di routine, schierando in locandina i nomi di Alberto Veronesi sul podio e di Daniele Abbado alla regia. Non sappiamo dire che cosa sia avvenuto, nelle segrete (chissà fino a che punto, poi…) stanze in cui si decidono questi cambiamenti a un programma già presentato a stampa e pubblico: sta di fatto che l’allestimento si è trasformato in quello solidamente oleografico di Alberto Fassini, visto a Parma qualche anno fa e ripreso con mano sicura e professionale da Gianni Marras, mentre la bacchetta è passata al giovane Jader Bignamini, direttore associato dell’orchestra sinfonica “G. Verdi” di Milano, reduce da un bel successo personale nel Boccanegra al Festival di Parma. Speriamo che con questa Tosca si possa consolidare il rapporto tra il direttore e il teatro felsineo (con il quale Bignamini aveva già collaborato, anche come strumentista), perché da questo incarico last minute è sortito uno degli spettacoli d’opera più riusciti che si siano ascoltati da parecchio tempo nella sala del Bibiena.
Intendiamoci bene: quella di Bignamini non è una Tosca rivoluzionaria, iconoclasta, che fa piazza pulita di tutte le edizioni precedenti, tanto per usare un poco del frasario, piatto e ammuffito quanto i prodotti che è destinato a celebrare, che sparuti plauditores spendono, moneta a dir poco inflazionata, per supposti giovani talenti del podio, generalmente assai in affanno quando si tratta di mettere assieme buca, solisti e coro, dare attacchi, contenere intemperanze di solisti strumentali e di canto. Insomma l’abc del mestiere. Questa Tosca dalle sonorità turgide, non fracassone, dal disegno orchestrale preciso anche nei momenti di maggiore concitazione, che spesso opta per tempi lenti e solenni e riesce a non trasformarli mai in pachidermiche esibizioni di velleità mal governate, rivela un pensiero e una pratica direttorali che rimandano direttamente ai grandi esempi della tradizione, osservati con rispetto, ma senza che questo rispetto dia luogo a pedissequi omaggi, che per il solito si trasformano in parodie involontarie. Troppi i punti che andrebbero segnalati, ma soprattutto ascoltati e meditati in questa lettura, vanno elencati almeno i principali: nel primo atto il contrasto, netto e inequivocabile, a livello di sonorità, colore e per logica conseguenza di atmosfera tra le scene di Angelotti da un lato e dall’altro il duetto d’amore e gli interventi del sagrestano e dei giovani cantori, al centro, questi ultimi, di un passo in cui, al pari del finale d’atto, emerge il felice lavoro realizzato con i cori del teatro; l’entrata, solenne quanto terribile, del capo della polizia e dei suoi scagnozzi, il tono mellifluo del colloquio di Scarpia con Tosca e la poderosa architettura del Te Deum; nel secondo atto il contrasto fra le musiche galanti della festa della Regina e l’asprezza dell’interrogatorio, la naturalezza con cui viene assecondato il canto di conversazione, in cui i solisti di canto sono stati adeguatamente sostenuti dal direttore, attentissimo a fornire gli attacchi (altra caratteristica che fa di Bignamini un unicum o quasi nel panorama contemporaneo), l’accompagnamento intenso e misurato alla romanza del soprano e, nella scena finale, l’atmosfera di compressa disperazione che cede il passo alla risoluzione omicida, in una progressione che mozza letteralmente il fiato sino agli ultimi richiami delle percussioni, su cui cala il sipario; nell’atto conclusivo l’alba romana, finalmente non funestata da ottoni spernacchianti o campanacci a martello, la melanconia del clarinetto, vicaria di quella vocale, nel preludio di “E lucevan le stelle”, l’inquietante pomposità della marcia al patibolo, il bruciante finale, benché funestato dalle urla (non certo le uniche della serata) della protagonista. Insomma, una bella, solida Tosca, con un coro e soprattutto un’orchestra che sembrano improvvisamente rinverdire i fasti dei giorni in cui la bacchetta passava, a seconda dei titoli, da Chailly a Thielemann, o per restare a un passato più recente, gli anni in cui Vladimir Jurowski era direttore ospite principale.
Tosca_FassiniÈ insolito che una recensione dei “grisini” cominci e, di fatto, sia per la maggior parte dedicata alla performance del direttore. Non è insolito, però, se si considera quale parte giochi la direzione d’orchestra in un titolo del primo Novecento e in particolare in una partitura che è sempre stata amatissima dalle grandi bacchette. La ragione principale di questa scelta è però un’altra, ossia il livello dei solisti di canto, tutti, con lievi differenze, espressione di una medietà per nulla aurea, sintomatica delle difficoltà con cui i teatri, piccoli e grandi, si scontrano quando si trovano a fare i conti con un’opera che, dalla sua prima apparizione, è entrata stabilmente nel repertorio. Tre i cast che si sono alternati, con differenti combinazioni, nelle dieci rappresentazioni previste. Nelle recite di venerdì 28 febbraio e domenica 2 marzo si sono esibite rispettivamente Annalisa Raspagliosi e Ainhoa Arteta: meglio la prima, ché la voce sgangherata in basso (indizio di un primo passaggio non risolto a dovere) e ululante in alto è la medesima della collega, ma è di maggiore volume, accusa minori instabilità nelle note tenute e l’esecutrice non si abbandona, nel finale del secondo e del terzo atto, alle intemperanze della spagnola. Stefano Secco, voce da opera donizettiana di mezzo carattere, ha una discreta “punta” negli acuti, ma il passaggio superiore è affrontato con i mezzi, non proprio straordinari, forniti da Madre Natura e in punti come “Occhio all’amor soave”, “O dolci mani mansuete e pure” o ancora “Amaro sol per te m’era il morire” le contrazioni di gola, segnatamente nei tentativi di cantare piano, non si contano. Rose e fiori, se lo paragoniamo con Ji Myung Hoon, già deficitario Manrico bolognese, un poco meno sottodimensionato, ma sempre confusionario nella dizione e incerto nell’intonazione, nei panni di Cavaradossi. Attutiti, non cancellati, i malvezzi che aveva sfoggiato nel Macbeth della scorsa stagione e nel più recente Nélusko veneziano, Angelo Veccia è uno Scarpia di contenuto volume e con intenzioni interpretative spesso felici, funestate da una realizzazione a dir poco precaria dei frequenti acuti, di cui la parte è disseminata. Non meno periclitante in alto Raymond Aceto, per giunta quasi afono in basso. Comprimari nella media attuale, quindi sottodimensionati in un’opera in cui le parti di fianco giocano un ruolo decisivo.

 

Gli ascolti

Puccini – Tosca

Atto I

Tre sbirri, una carrozza – Alfredo Gandolfi, San Francisco Opera Orchestra & Chorus, dir. Gaetano Merola (1932)

Atto III

Io de’ sospiri – George Ryan, Metropolitan Opera Orchestra, dir. Dimitri Mitropoulos (1959)

3 pensieri su “Tosca a Bologna: dirige (eccome!) Bignamini.

  1. Che bravo Bignamini! Ho ascoltato il suo Andrea Chénier a Milano, Simone a Parma e Elisir ad Ancona: veramente un direttore valido. E pensare che rispetto a molti suoi colleghi fino a un paio di anni fa era completamente sconosciuto….

  2. Pienamente d’accordo con Tamburini. Di Bignamini, che non conoscevo, mi ha colpito anche la capacità di adeguare, per sonorità e respiro, l’orchestra ai cantanti, cosa che accade sempre più di rado e che è il sigillo del vero e bravo direttore . Ho ascoltato il cast con la Raspagliosi e Ji Myung Hoon. Fatico a credere che non ci fosse, quanto meno per la Raspagliosi, un qualche “aiutino” microfonico : infatti, pur con tutti i problemi che Tamburini ha evidenziato, ha sfoggiato una voce tanto potente e acuti tanto taglienti (non belli, che è altra cosa ) da non essere del tutto credibili. Il tenore sembrava avere due voci : una accettabile fino al centro, l’altra senza appoggio e quasi casuale in alto. In ogni modo, dopo il Parsifal del mese scorso, siamo tornati a spettacoli accettabili ( Beati monoculi in terra caecorum ).
    Per il futuro speriamo in più Bignamini e in meno Mariotti ( e in niente Veronesi).

  3. Aceto l’ho trovato inaccettabile: voce ingolata, acuti berciati, dizione e fraseggio penosi. Un elemento del genere non è sdoganabile in Italia e men che meno per un ruolo come Scarpia.
    Viceversa ho trovato buona la prova dell’Arteta, che debuttava il ruolo e che è dotata di un temperamento notevole. Inoltre è assai bella ed in teatro specie in Tosca ciò non guasta.
    Bignamini superlativo e l’orchestra in grande spolvero.

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