Il motivo di interesse di questo convento di san Giusto risiede nel protagonista Alain Vanzo, tenore che per le proprie qualità vocali, tecniche e di fraseggiatore in un’epoca già di rarefazione di grandi tenori ha avuto fama limitata rispetto a quanto le qualità avrebbero consentito.E’ chiaro quindi che la grande aria di Elisabetta di cui abbiamo proposto nelle precedenti puntate esecuzioni storiche come quella di Anita Cerquetti passa in secondo piano affidata ad una normale e piuttosto comune voce di soprano lirico che non è in grado di rendere l’ampleur e la tragicità della figlia dei Valois relegata nella poco allegra corte degli Asburgo spagnoli. Al riguardo basta sentire come nelle due ripetizioni dell’aria, il “Tu che le vanità”, la cantante esibisca una voce bianca e modesta che sale con una certa difficoltà agli acuti, che tende a ghermire e che manca del peso in zona grave che una parte scritta per un cosiddetto soprano Falcon. Preciso nulla di grave perché da circa cinquant’anni le Valois che sentiamo hanno questo peso e colore vocale.Quindi -ripeto- il motivo di ascolto è il protagonista. Alain Vanzo ha dato il meglio nel repertorio francese da Gounod in poi, quello, cioè del tenore lirico. La voce era davvero bella, capace di smorzature facili, sempre sonora e piuttosto estesa in alto dove alla bisogna – tenore antico e francese in questo- Vanzo sapeva anche utilizzare il cosiddetto falsettone rinforzato esibendo suoni chiari, dolci e pieni nel contempo. Preciso anche l’esecuzione del duetto è tagliatissima sicchè di fatto rimane la sola sezione del “ma lassù ci vedremo”, tagliata anch’essa, omesse tutte le parti di vocalità epicheggiante e propriamente grandiosa, tipica del genere grand-opéra. Per molti aspetti rimane quello che può mettere in risalto la vocalità migliore di Vanzo, cantante essenzialmente lirico o meglio da opéra lyrique e capace di dire con molto sentimento le poche sopravvissute battute di recitativo e di proporre i passi del cantabile dove sale facilmente, lega il suono e colorisce le frasi. Dall’unica frase superstite del genere grand-opéra, ovvero quella che precede l’ingresso di corte e inquisizione si intuisce, anche, una certa ampiezza.
Anche l’ascolto di Gré Brouwenstijn e Jon Vickers, protagonisti di una famosa produzione londinese sotto la bacchetta di Giulini e con la regia di Lucino Visconti, risulta illuminante, specie se si richiamano alla memoria certi conventi di San Giusto a noi più prossimi nel tempo e, per converso, anni luce da quanto poteva prevedere o immaginare l’autore. Nessuno dei due cantanti considerati ottenne mai nel repertorio italiano, in particolare verdiano, i consensi e la fama che offrì loro, per converso, il teatro wagneriano e più in generale l’opera cantata nelle lingue germaniche. E in effetti la registrazione testimonia, soprattutto per il soprano, una dimestichezza piuttosto limitata con i suoni vocalici tipici dell’italiano e diverse imprecisioni di pronuncia, che fatalmente minano l’incisività dell’esecuzione. E non si tratta di un limite da poco, per interpreti che, in altri titoli, seppero brillare non tanto per intrinseche qualità timbriche o comunque legate alla sfera del suono, bensì per l’importanza assegnata alla declamazione del testo. Declamazione che ovviamente non può prescindere da un’esatta articolazione dei fonemi. Per la Brouwenstijn si evidenzia anche una diffusa difficoltà nel legare i suoni, soprattutto all’ottava medio-grave (quella su cui Elisabetta, di fatto, canta), oltre che una frequente fissità e non sporadici cali d’intonazione nel settore acuto (il si naturale che conclude l’opera è semplicemente omesso, al pari della sezione “Sì, l’eroismo è questo” del duetto). Vickers, seppur in condizioni di maggiore freschezza vocale (del resto aveva debuttato solo l’anno prima, mentre la Brouwenstijn macinava già da un decennio abbondante i ruoli più onerosi del repertorio del soprano lirico spinto e drammatico), non brilla a sua volta per la qualità del legato, né per la sicurezza nella zona del passaggio superiore, con suoni ora schiacciati, ora in difetto d’appoggio e quindi malfermi a ogni (parco) tentativo di piano e pianissimo (caratteristica che si ritroverà, peraltro, in molte delle sue più acclamate interpretazioni degli anni a venire). Con siffatte premesse non stupisce che le indicazioni dinamiche, sempre copiose, previste dal compositore tendano a restare lettera morta. Eppure un abisso separa questa esecuzione dell’atto conclusivo dell’opera dalla maggior parte di quelle successive. Prima di tutto perché le voci hanno, se non sempre e invariabilmente l’ampiezza, almeno l’accento, aulico e solenne, adeguato ai personaggi e alla circostanza drammatica dello straziante addio; in secondo luogo perché gli esecutori, pur con tutti i loro limiti, cantano sempre e non si accontentano mai di bofonchiare o accennare, come tanti loro epigoni, convinti di potere o magari dovere “dire qualcosa di nuovo”, riducendo la musica, per insipienza tecnica non meno che per studio di modernità, a una sorta di avvilente parodia del teatro di prosa. Potrebbero sembrare differenze da poco, però proprio le differenze di questo tipo permettono di cogliere lo scarto esistente fra un’esecuzione con dei limiti e di certo non memorabile, nondimeno onesta e professionale, e altre, per le quali appare immeritata persino la qualifica di pagliacciate (benché lautamente remunerate e supinamente applaudite).
Gli ascolti
Verdi – Don Carlo
Atto V
Tu che le vanità…E’ dessa! Un detto, un sol…Sì, per sempre!
Gré Brouwenstjn, Jon Vickers, Boris Christoff, Michael Langdon, Joseph Rouleau, dir. Carlo Maria Giulini (Londra 1958)
Germaine Bonnet, Alain Vanzo, Xavier Depraz, Jacques Mars, Lucien Lovano, dir. Charles Bruck (Parigi 1961)
Vanzo e’ veramente un tenore d moda qui sul CdG. Mi fa piacere ovviamente perche’ lo ritengo finissimo artista. Tuttavia mi pare che “alcuni” ne parlino come se lo avessero ascoltato moltissime volte dal vivo anziche’ per quello che risulta dai Decca ufficiali e dalle molte incisioni pirata. Mi piacerebbe sapere se qualcuno degli abitues del sito abbiano avuto esperienze dirette prima d sottolineare la solita circostanza per cui avrebbe avuto fama e fortuna non degna del suo valore.
E poi dopo che hai appurato una cosa piuttosto che un’altra, che cosa dedurrai? Qui di moda? Guarda albertemme che era ritenuto un grandissimo tenore da tutti, altro che qui di moda. Ritenuto tale perché lo era, da un pubblico mediamente utente e non stordito dalla schifezza come oggi. La Olivero quanti dischi ha inciso? Tanti quanti Vanzo. E kraus quanti ne ha incisi rispetto a domingo? E Maria Chiara, o la Ligabue rispetto alla Freni? Ah, già, sono le mode del cdg, non quelle dei discografica caproni che facevano incidere sempre gli stessi e spesso non con merito, vero?
Ciao,
tralascero’ i commenti sulle due cattive Elisabette,
tranne che per dire che la Signora Bonnet ha una
dizione ottima, (ha solo quella poveretta, ma almeno
quella e’ ottima davvero), informero’ il caro AM che,
ebbene si, qualcheduno che frequenta il Corriere
ha visto ed ascoltato in Teatro Alain Vanzo, e
concludero’ dicendo che mi sento un gran modaiolo,
poiche’ sono convinto che Vanzo sia uno dei migliori
Don Carlos. Ciao.
Io mi sento solo di fare due appunti. La voce di Vanzo non so se la si possa definire “bella”. A mio modo di vedere si colloca nella line dei timbri “seinili” alal Kraus e alla Schipa. Ma non vorri alimentare nuovamente qui il ginepraio su cos significhi bella voce…
E comunque lo trovo un po’ fuori parte.
Vickers. Avrà avuto difficoltà colle forcelle del don Carlo, però è l’unico tenore dei tempi più recenti che sento cantare in pianisismo la scala finale dell’aria del fiore e uno degli ultimi a cantare sfumato. Per il resto sono felice che gli venga riconosciuto di cantare ad onta di qualche difetto che potesse o meno avere.
(Miguel non ti ho risposto di là… scusami ma ho avuto giornate convulse… cerco di recuperare)
Vanzo timbro senile alla Kraus e alla Schipa? Questa andrebbe spiegata…
Quello di Vickers è uno “sfumato” fin troppo labile. Un più saldo e più costante appoggio avrebbe garantito una minore aleatorietà.
Che poi cantasse, mi sembra ovvio. In quegli anni, o cantavi o, semplicemente, facevi un altro mestiere.
Antonio non c’è nulla da spiegare: affinità timbriche. Punto. Da lì a dire che abbia la pasta e il colore di un Pavarotti Il Giovane, di un Aragall (li cito pensando alla’tra discussione), di un Gigli e compagnia cantante, a mio avviso ce ne passa. Poi sono d’accordo che sapesse cantare e pure bene. In Don Carlo lo sento molto fuori parte comunque.
Labile lo sfumato di Vickers… mah.. non son d’accordo. Ma ti riferisci a questa registrazione o in generale? Stante che poi “più saldo e costante appoggio” è espressione opinabile: o appoggi o non appoggi e se non appoggi non fai nemmeno uno sfumato labile, squittisci… No?
Aggiungo un’ulteriore notazione: l’intonazione della Brouwenstjn è a dir poco imbarazzante…
Non sento alcun timbro senile nel Don Carlos
di Alain Vanzo, manco se mi sforzo. Capita.
Senile? E perche’?
Mi riferisco solo al colore della sua voce Miguel.
Poi forse senile non è l’attributo più felice e me ne rendo conto… Fané potrebbe andare meglio?
Un po’ come quella di Kraus e Schipa.
No Enrico, non potrebbe andar meglio.
Possiamo dare vari significati al
participio passato di faner : secco,
avvizzito, consumato precocemente,
rivoltato sotto il sole, essicato etc etc etc,….non corrisponde, almeno per me a rappresentare la voce di Vanzo. Ma non c’e’ niente di male. Sono idee ed
impressioni mie. Cosi’ come e’ impressione e convinzione mia che
Vanzo sia superiore a Kraus in quasi tutto. Certo non in “Bella figlia dell’amore”, “Tu che a Dio spiegasti l’ali” o similari, dove la natura e la formazione di tenore contraltino di Kraus, oltre che alla sua bravura, hanno sempre avuto la meglio sul pur
ottimo Vanzo, parlo del primo Kraus eh! Ma, in tutto il resto , Vanzo non e’
secondo a Kraus assolutamente, anzi,
e’ ben piu’ affascinante. Ciao.
Miguel Kraus e Vanzo sono due ottimi tenori e mi accontento di fermarmi qui, nel senso che non mi piace fare le graduatorie. Ma non è della bravura dell’uno sull’altro che intendevo parlare, ma mi riferivo proprio e soltanto al timbro di voce.. Color seppia? 😀
Esiste un Rigoletto del 1961 registrato in francese, e ripubblicato da Walhall, in cui Vanzo plasma il Duca. Un bellissimo Duca, cortigiano, insinuante, elegantissimo. Certo, poi al duetto con Gilda emerge la sua difficoltà col passaggio di registro (non meniamo il can per l’aia, nel passaggio Vanzo aveva qualcosa che non funzionava, se no sarebbe stato un altro Kraus), ma nel resto c’è un personaggio d’eccezione.
Tamberlick
ahahahahah, vada per la seppia,
ma dai, mi son dimenticato di mettere
per Enrico e per Gratta, volevo risponder
ad entrambi. Ciao caro.
Andata col color seppia! 😉
Buona giornata Miguel.