La politica del Met è chiara: gli sponsor ed i privati che investono nelle produzioni hanno bisogno di un ritorno di immagine e di successo da parte del pubblico. Se la produzione ha una larga approvazione da parte di spettatori e critica, e tale consenso si estende di conseguenza alla biglietteria e dunque alla cassa, questo si traduce in un vantaggio sia per il teatro, sia per gli investitori. E’ una macchina economica perfetta che deve garantire qualità per poter crescere e guadagnare in credibilità e, dunque, in successo per il pubblico.
Per questo al Met le produzioni puntano ad una eleganza formale, ad un appagamento dell’occhio, ad un fasto che colpisca immediatamente e che non si lasci dimenticare facilmente, ad una “tradizionalità” un po’ di maniera, un po’ postmoderna, un po’ contemporanea, ma sempre coerente con i gusti dell’ampio pubblico americano, che andando a teatro, ma anche a Broadway, si aspetta un certo tipo di allestimenti, magari prevedibili, ingenui, rassicuranti e scintillanti, ma estremamente logici, naturalistici, stimolanti anche, che appaghino questo gusto. Anche questa è tradizione, anche questo è identità.
Ogni tanto la macchina fa i capricci e partorisce mostri deformi nati da esperimenti che scimmiottano il teatro di regia all’europea, appoggiati dal soprintendente Peter Gelb, il quale ha voluto più volte strizzare l’occhio al “teatro alla moderna”, dopo anni di allestimenti creati per esaltare il singolo cantante o l’intera compagnia di mostri sacri.
Sono nate iatture come il “Ring” di Lepage, tonfo tra i più colossali del Met soprattutto a livello economico quanto statico-strutturale; il “Rigoletto”-Las Vegas, produzione tra le più viste dell’ultimo anno, ma rifiutata dal pubblico; la micidiale “Tosca” di Bondy o la già decotta “Lucia di Lammermoor” della Zimmermann, viste entrambe purtroppo anche alla Scala con unanime riprovazione; la nuova opera “Two Boys” naufragata immediatamente; la ripresa della “Traviata” firmata Decker che forse a distanza di qualche anno non ha sortito l’effetto cercato; l’ “Armida” inutilmente baraccona, etc.
Tali sperimentazioni hanno prodotto una inflessione delle vendite dei biglietti ed hanno evidentemente preoccupato non solo gli sponsor, ma anche il sovrintendente Gelb.
E’ giusto intraprendere nuove strade anche per svecchiare una certa impostazione forse stantia, ma occorre fare dei distinguo e puntare su idee che possano avere un impatto sul pubblico e non sullo scandalo gratuito o sul fattore “stranezza” per considerarsi moderno o al passo con le mode europee, soprattutto di fronte ad un pubblico che continua strenuamente a difendere la propria identità.
Arriva anche tardi Gelb poiché il teatro di regia, ormai diventata nuova asfittica tradizione sta ormai facendo il suo drammatico tempo, anche presso quel pubblico più abituato e beato nel suo ignorante snobismo, mandando in forte crisi i teatri europei, ma anche festival blasonati in evidente emorragia da spettatori.
A questo punto chiamare un regista come Dmitri Tcherniakov che, a ragione, ha collezionato più denunce e contestazioni che applausi, poteva essere interpretato come una dispettosa provocazione, poteva mettere in fuga i privati e allontanare pericolosamente un pubblico già disaffezionato.
Parliamo di un regista, reduce dai recenti cocenti fallimenti di “Traviata” e “Fidanzata dello Zar”, che per pigrizia intellettuale, mancanza di studio del libretto, dell’opera e del suo contesto, ha sempre preferito sovrapporre se stesso, le sue ideuzze sterili e puerili alla messa in scena; una strada facile facile salutata ovunque con disprezzo, tranne, certo, che dalla solita ormai banale “critica”, che va in solluchero per questi tragici onanismi, e dai badanti dell’eurotrash
Ebbene, Tcherniakov, dopo gli orrori perpetrati in Europa (se escludiamo forse la sola “Kitez”), collezionando un fiasco dietro l’altro ed un successo più di “scandalo” che di merito, evidentemente messo di fronte alle esigenze del Met, il quale ha bisogno di produzioni che non si estinguano in un’unica stagione, come in Italia, con sperpero evidente di denaro investito, ma di allestimenti che possano durare ed essere ripresi più volte con eguale forza espressiva, si è adeguato in maniera coatta ai desiderata del teatro e del pubblico.
Chiamatela censura o autocensura, chiamatela castrazione intellettuale, urlate al divieto di espressione artistica, magari non c’è stato nemmeno nulla di tutto ciò, ma solo un impeto di buonsenso, ma Tcherniakov quando non fa Tcherniakov funziona e riesce anche ad allestire uno spettacolo visivamente suggestivo nella sua veste scenografica, godibile e toccante da seguire nella sua veste registica, cosa che si guarda bene dal fare in Europa certo, grazie anche a soprintendenti che preferiscono anteporre il nome alla qualità o alla semplice ricerca del “bello”.
Una Russia sospesa tra le due guerre, ma forse atemporale che vive un po’ nella realtà cruda e belligerante, un po’ nella testa ferita e allucinata del Principe Igor, e noi la vivremo sospesa su questi due binari narrativi.
Da una parte la corte di Putivl, un’ ampia sala su due ordini, con balaustra che permette l’iterazione tra il popolo assiepato ed i militari che si preparano ad entrare in guerra e decorata da una serie continua di archetti ciechi che si aprono all’esterno attraverso l’alternanza di trifore o monofore dall’altra il sogno, ovvero l’ambientazione polovosiana.
La bellezza dello spettacolo vive nel rispetto delle atmosfere musicali, nell’afflato epico del libretto, nei ripiegamenti più intimi o più esotici, nell’equilibrio tra eroismo e fabula, senza rinunciare mai alla coerenza dei gesti, della recitazione che mai mette a repentaglio il cantante, lo offende inutilmente, o lo umilia artisticamente: così Igor è davvero un capo carismatico, custode dell’amor patrio e di quello familiare, che non esita a rimproverare aspramente il figlio Vladimir per essersi convertito per amore della nemica Konchakovna alla vittoriosa corte polovesiana
Igor è un condottiero ferito e offeso dalla guerra, un uomo d’azione che davanti alle rovine del suo regno saprà, per primo, sollevare la testa con orgoglio, senso pratico, rabbia, dignità per ricostruire dalle ceneri ciò che ormai non è più.
E’ attraverso le sue allucinazioni provocate dalle ferite della battaglia se vedremo il campo polovesiano, un onirico, infinito campo di papaveri rossi, fiore che nel colore vuole richiamare secondo le tradizioni nordiche il sangue degli eroi caduti, esattamente come nella “Walkure” scaligera del 1994 a cura del duo Engel-Rieti (all’epoca fece scalpore e lo si liquidò chiamandolo “Mulino Bianco”, oggi applaudiamo al genio e rimpiangiamo colpevolmente): tra i fiori lui assisterà allo sbocciare sensualissimo dell’amore tra suo figlio e la principessa nemica, la quale porgerà a Vladimir il vino della pace che ne macchierà il candore della camicia di rosso; qui durante il monologo sarà consolato dall’immagine della moglie che ne laverà le ferite e la sporcizia con acqua e bende, ma è solo un’illusione cancellata dall’arrivo del Khan, tanto amorevole, quanto marionetta gonfia e allucinata che trasformerà l’altura in una sorta di giardino di Klingsor nel quale uomini e donne bellissimi danzeranno molli e lascivi intorno al condottiero, un altro sogno forse o una falsa oasi di serenità lontana dall’orrore delle sue truppe trucidate.
Le scene di Putivl rendono ancora più marcato lo scontro frontale tra Yaroslavna ed il fratello Galitzky, l’una nemesi dell’altro; la prima sarcofago monolitico e austero di dolore e devozione, il secondo barile di corruzione e tradimento che porta la corte alla dissoluzione morale.
Tcherniakov a questo punto avrebbe certamente risolto la scena infilando puttane, nudi, droga, cataloghi di perversione e delizie varie; in questo caso si fida solo della parola, del libretto: Galitzky è un uomo sfatto che contamina il coro femminile ed i suoi uomini i quali diventano esattamente come lui, lubrichi e rinnegatori della patria, il che contrasta perfettamente con l’ambiente raccolto e principesco delle stanze di Yaroslavna, la quale rivendica con forza morale il suo ruolo di principessa consorte davanti alle incestuose, ambigue, profferte del fratello, che si trasformano presto in mire politiche e rivoluzionarie.
Nel finale d’atto la corte crollerà letteralmente sul corpo svuotato e gettato a terra di Galitzky, ucciso all’interno della folla non si sa se per intervento divino o per intervento dei bojari fedeli a Yaroslavna, ma il crollo della corte ad opera dell’invasione polovesiana, si traduce nella caduta metaforica, patriottica e morale del potere russo autodistruttosi dall’interno.
Toccante anche l’ultima scena: Igor, stravolto e sconfitto, dopo aver assistito come in sogno all’abbandono del figlio, ricostruirà con l’aiuto di tutto il popolo la corte, il regno. Via le inutili feste, abbiamo fallito, dobbiamo risollevarci, il tempo dei ringraziamenti e dei lutti è lontano, ora c’è solo la rinascita.
Al Met è toccato questo lavoro così curato e complesso, a noi la “Traviata” sbilenca con i parrucchini boccoluti, le paste sfoglie, il trito di verdure, i cup-cake, l’alcolismo mischiato agli antibiotici, una protagonista rubiconda e in salute, due coprotagonisti farlocchi, una Annina al di là del bene e del male, ed una “Fidanzata dello zar” tra Skype, Grande Fratello e trovarobato canoro di terza scelta, perché tale è la lungimiranza dei nostri soprintendenti, incapaci di incanalare le idee giuste nelle opere giuste, ma di badare solo allo scandalo del marketing o al marketing dello scandalo, operazione semplice che non premia ormai più.
Tra le voci spicca l’interpretazione protagonistica di Ildar Abdrazakov: timbro personale ed emissione raccolta e senza brutte sbavature, tranne qualche increspatura nel passaggio che fa leggermente ballare la voce, Abdrazakov canta con dovizia di sfumature ed accento, come ho scritto sopra, sempre aderente all’atmosfera della scena e davvero commovente nei due monologhi in cui può sfoggiare un legato ed una morbidezza più che discrete. L’attore oltre che bello da vedere, riesce ad esprimersi con gesti appropriati e con giusta espressività, senza utilizzare l’armamentario da saltimbanco o volgari gigionate di pessimo gusto, per questo sia vocalmente che scenicamente convince.
Rispetto alle fallimentari brutture inferte al repertorio italiano, Oksana Dyka, in quest’opera riesce ad essere una presenza più che discreta. Certo, l’emissione vetrosa, gli attacchi a lamiera non giovano né al timbro già piuttosto freddo, né all’intonazione; ma la voce, anche grazie alla padronanza linguistica sembra più libera nella proiezione, più attenta al canto, così che le scene d’insieme e le arie fanno soffrire meno rispetto ad altri appuntamenti. L’ultima aria è sempre sul filo della rottura della linea di canto, ma con guardinga intelligenza, il soprano, riesce a resistere: non è molto, ma rispetto a se stessa…
La Dyka, consiglio personale, dovrebbe lasciar perdere il repertorio italiano e concentrarsi su quello, certamente più consono alle sue possibilità, slavo-russo; e stessa cosa posso affermare di Anita Rachvelishvili, Konchakovna dal timbro scuro piacevole, nonostante un’emissione con un po’ di aria, e dall’accento cremoso, che vibra intenso soprattutto nel registro centrale durante il duetto con Vladimir (un Semishkur dalla voce tenorile priva di appoggio, indietro, corta nell’estensione e stonata), ma che rischia di trasformarsi in Santuzza durante il terzetto finale nel quale in pratica sparisce inghiottita da Noseda e Abdrazakov.
Il resto della compagnia, se convince scenicamente, vocalmente è oltre l’osceno, perché Petrenko, Kocan, Ognovenko, Popov, Vekua, Dever hanno tutti problemi di raucedine, di asma e di digestione, mentre il coro canta con proprietà e intonazione senza sbandare e senza incorrere in suoni queruli.
Se proprio bisogna fare un appunto alla magnifica direzione di Gianandrea Noseda è forse la lentezza, che per quanto aiuti il clima generale di una lettura improntata più sull’intimismo che sull’esteriorità, ed esula il coro dagli eccessi pompieristici, dall’altro lato diventa micidiale per l’accompagnamento delle voci più scarse che agiscono sulla scena: così l’aria di Vladimir, quella del Gran Khan, quella di Galitzky sono certamente dirette con senso di stupore e malinconia, con colori più marcati e sfacciati, con il giusto tasso di parodistica protervia e suonati splendidamente da un’orchestra finalmente dal suono rotondo e variegato, ma il cui indugiare fa aumentare con accanimento lo strazio procurato dalle voci.
Una narrazione fatta di contrasti, coerente con l’episodicità della partitura, che usa la tavolozza timbrica delle dinamiche borodiniane per unificare il frastagliato libretto, quasi mutandolo in un grand-opéra russo, dal respiro epico, ma senza quella profumo “commerciale” francese.
Così la corte di Putivl possiede davvero un afflato patriottico, ma non bandistico, tragicamente austero, ma senza fronzoli e ben poco oratoriale, che solo con Galitzky si sporca letteralmente di una vivacità minacciosa; la scena del campo polovesiano coniuga l’astrattezza onirica e dolente della musica dedicata ad Igor, con la vellutata seduzione del duetto dei due innamorati, gemella della grandiosa danza che si esalta nell’esotismo russo e nella purezza lunare della melodia corale; il finale spogliato da ogni riferimento ottimistico, ma reso più reale dai contorni crudi del canto di Yaroslavna prima e sempre più drammatico di Igor poi, in cui nemmeno la gioia del coro trova posto, subito smentito dal ritorno al tema già ascoltato nel prologo.
Se nelle stagioni tra il 1915 ed il 1917 al Met si metteva in scena un “Principe Igor” in italiano con un cast formato da Pasquale Amato, Frances Alda, Adamo Didur, Angelo Badà, l’edizione scelta dal duo Noseda-Tcherniakov non tiene conto dell’orchestrazione di Rimsky-Korsakov e Glazurov, ma prende in considerazione soltanto la musica che Borodin è riuscito a completare, tagliando e rimontando però l’ordine delle scene tenendo sì conto degli appunti di Borodin, ma rimescolando le scene con una disinvoltura anche arbitraria che magari avrebbe lo scopo di rendere appetibile al pubblico del Met la vicenda del “Principe Igor” o riportarla ad una pura coerenza che la frammentarietà della vicenda non risolve completamente, ma che in realtà ingarbuglia non solo di più l’ordine creato da Borodin, ma altera anche l’eqilibrio drammaturgico e musicale.
Come vorrebbero gli appunti di Borodin autenticati da Pavel Lamm e Arnold Sokhor, utilizzati anche nell’edizione diretta da Gergiev, dopo il prologo, abbiamo il II atto ambientato nel campo polovesiano, a cui fa seguito il primo ambientato invece alla corte di Putivl.
In questo secondo atto Noseda-Tcherniakov preferiscono partire con la scena II nelle stanze di Yaroslavna che canta la sua aria, riceve il coro prima e Galitzky poi; successivamente torniamo alla scena I negli appartamenti di Galitzky con il coro, l’episodio di Skouka ed Erochka e poi la grande aria del cognato di Igor; si passa alla III scena tra Yaroslavna ed i Bojari che accoglie l’ingresso di Galitzky ed i suoi uomini (orchestrato da Yuri Faliev); il III atto viene di conseguenza cassato, ma ne sopravvive un frammento, mentre il IV atto si trasforma nel III; siamo quindi di nuovo a Putivl, tra le macerie della corte: dopo la grande aria di Yaroslavna, viene inserito, a mo’ di sogno, il terzetto Igor-Vladimir-Konchakovna del III atto, a cui segue la scena tra i traditori Skoula ed Erochka che riconoscono il principe e chiamano il popolo suonando la campana; seguono il duettino Igor-Yaroslavna, la grande aria di Igor, di nuovo Skula ed Erochka questa volta con il coro ed il celebre episodio dei suonatori di Gudok, per poi passare al frammento musicale, ma senza coro, che riprende il saluto del primo atto e che conclude tragicamente l’opera.
La sequenza degli eveneti, invece, avrebbe dovuto essere: aria di Yaroslavna; coro; duetto Igor-Yaroslavna; duetto Skoula-Erochka; intervento del coro con la scena dei suonatori di Gudok; finale d’opera.
“Versione ideale” come strombazzano le riviste americane?
Nemmeno per idea, ma mostruoso Frankenstein senza alcun senso filologico e con gravi buchi drammaturgici (l’episodio della faniculla rapita da Galitzky, le figure del Khan, Vladimir, Konchakovna ridotte a comprimari appiccicati soltanto alla trama), oltre che una certa spigolosità musicale derivata dall’errata sistemazione delle scene.
4 pensieri su “Fratello Streaming: “Il Principe Igor” dal Met, ovvero, la difesa dell’identità”
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Molto bella la recensione – per un’opera che io considero magnifica (sembra incredibile che un compositore “a tempo perso”, ma geniale e perfezionista, abbia potuto concepire un lavoro di tale potenza musicale) – e molta invidia per il pubblico del Met (ma anche per quello di mezza Europa) che ha potuto assistere al Principe Igor: inutile polemizzare sul fatto che, invece, da noi ci si barcamena tra Lucie e Barbieri e proporre qualcosa di estraneo al repertorio del melodramma è considerato un azzardo o un sfizio culturaloide (e poi non ditemi che non siamo terzo mondo). Detto ciò vorrei dire qualcosa su Gelb: tanto preso in giro da molti sapientoni nostrani, ha dimostrato di saper fare il suo lavoro. Che è svecchiare il repertorio senza scontrarsi con il pubblico: una “rivoluzione morbida” che accompagna un pubblico certamente non incline alle novità, ad accettare un modo diverso di intendere l’opera. Senza cazzotti nello stomaco, senza l’estetica del brutto, ma facendo digerire il fatto che l’opera non è solo Verdi/Puccini/Wagner e non esiste solo Zeffirelli et similia. Gelb ha portato l’opera barocca, titoli rari, nuove produzioni. Ha saputo sfruttare la tecnologia e da bravo manager (perché nel 2014 un buon sovrintendente DEVE essere un buon manager) ha trasformato in evento mediatico anche il Principe Igor che è opera che qui da noi avrebbe sì e no riempito mezza sala e avrebbe scatenato i distinguo di chi – anche sui giornali – si sarebbe chiesto le ragioni per allestire una “sconosciuta” opera russa in Italia… Gelb ha sfruttato tutte le potenzialità del suo teatro collaborando con l’industria cinematografica, l’alta definizione, il mercato homevideo. Si aggiunga una politica di abbonamenti sapiente e un’offerta smisurata. L’orchestra ora è tornata all’epoca d’oro di Levine (che la trasformò dalla mediocrissima compagine che era sempre stata ad una vera orchestra, anche se un po’ troppo “bombastica”) ed è frequentata da direttori importanti. Certo qualche buco nell’acqua capita, come il nuovo Ring di Lepage (non solo per una regia che univa in modo maldestro la più statica tradizione alla moderna tecnologia, ma per i fallimentari aspetti musicali dovuti, principalmente, all’abbandono di Levine e il subentro del sopravvalutatissimo Luisi), o la Lucia tradizionalissima della Zimmermann. Tra i buchi nell’acqua metterei anche le scelte editoriali relative a questo Principe Igor: certamente Rimskij-Korsakov e Glazunov sono intervenuti pesantemente sul testo, non solo integrandolo e orchestrandolo laddove necessario (quasi tutto il III atto e l’ouverture non sono di mano di Borodin), ma anche revisionando arbitrariamente quel che era già stato ultimato dall’autore. Oggi le fonti sono più certe e grazie a Pavel Lamm conosciamo molto più del Principe Igor originale. Certo la mano di Noseda è stata molto pesante…e francamente poco giustificabile (identico scempio aveva fatto col Boris)…
Vivaverdi
Complimenti per la recensione. Anch’io come Duprez considero un capolavoro Il principe Igor e mi dispiace molto che da noi non venga rappresentato, però da quello che leggo l’adattamento fatto al Met mi sembra una grande boiata, tanto più che ora esiste un’edizione (adottata anche da Giergiev nelle sue edizioni in CD e in DVD) che drammaturgicamente sistema meglio le cose. E’ orribile questa mania che da molti è invalsa di manipolare la drammaturgia delle opere, soprattutto quelle poco conosciute. Già i tagli sono ormai inaccettabili perchè alterano il senso di una composizione, secondo me, come molte volte si usava fare negli anni 50/60 anche da noi, nel tentativo di trasformare un’opera come Anna Bolena, ad esempio, in un’opera “verdiana” anzichè lasciarla come opera in qualche modo ancora protoromantica.
Bravo Duprez nel puntualizzare i pregi e i difetti del nuovo Metropolitan, anche se non sono d’accordo sula giudizio negativo riguardo alla Lucia (approdata recentemente alla Scala) che io invece ho trovato molto interessante quando l’avevo vista su Youtube. Un allestimento tra “La voce nella tempesta” e “Via col vento” che, a mio parere, aveva il suo fascino. Ma qui capisco che è questione di gusti. Ad ogni modo mi sembra che fosse molto lontana dall’orrore dell’ultima Traviata con le verdure e Violetta trasformata in una signora tedesca degli anni 30 (vedere le ondine della permanente…) moglie di una gerarca delle SS.
Non son niente de I Troiani (altra opera che amo molto e per la quale ho comprato il biglietto) ma temo che sarà una boiata. Qualcuno del blog sa qualcosa in proposito?
Saluti
Chi ha visto l allestimento a Londra ne ha ben parlato. Interessa molto pappano, ma dal punto di vista delle vendite di biglietti l interesse pare scarso. Vedremo, anzi, sentiremo. Circa la Lucia, hanno molto infastidito le sciocchezze registiche, sulle quali si poteva intervenire.
Dei Troyens esiste anche il dvd, registicamente sono straordinari: spettacolari e rispettosi della drammaturgia originale. Del resto McVicar è grandissimo regista: era ora venisse alla Scala (splendida anche la sua Adriana e le Nozze di Figaro). Una vera boiata era invece lo spettacolo di Ronconi…grazie a Dio non più ripreso. Pappano è uno dei migliori direttori di oggi (e finalmente arriva alla Scala…dopo anni). Le vendite dei biglietti interessano relativamente: in un teatro trasformato in attrazione turistica per analfabeti musicali (ormai la Scala fa parte dei pacchetti viaggio dei tour organizzati) è ovvio che si vendano solo Aide, Trovatori, Barbieri Lucie o Tosche…insomma le stagioni dell’ASLICO o dell’Arena.