Wagner Edition: Der Ring des Nibelungen. Parte II.

WALKURENietzsche definì Wagner un “grande punto interrogativo del nostro secolo”. Effettivamente, aldilà delle intenzioni polemiche del filosofo tedesco, la sua parabola artistica si è prestata alle più diverse interpretazioni, agli attacchi più furiosi, al culto più fervente: una schiera di sostenitori fedeli, critici presuntuosi, detrattori ottusi, musicisti invidiosi, letterati e presunti esegeti (senza dimenticare eredi e parenti), ha preteso di interpretare il “vero” Wagner. L’autentico culto wagneriano, nasce proprio con il Ring: opera monumentale che è allo stesso tempo coronamento di un lungo processo di maturazione estetica e nuovo inizio di quella che – secondo la visione dell’autore – sarebbe stata la “musica dell’avvenire”, ossia la perfetta sintesi di parola e musica, di significato e significante, di forma e simbolo. La realizzazione pratica di una forte volontà ideale. Dopo aver riassunto la genesi del progetto del Ring, con questo secondo capitolo si entra nel cuore della materia nibelungica, attraverso il suo tratto più distintivo: la rivoluzione musicale. Wagner – giova ricordarlo – non nasce dal nulla, non “demolisce” il melodramma a colpi di “Leitmotive”, non scardina improvvisamente forme e numeri chiusi: la sua maturità artistica (che il Ring inteso come progetto ben può rappresentare) è frutto di una precisa evoluzione che, partendo da una formazione autodidatta sulla più importante letteratura musicale di tradizione austriaca e tedesca, lo porta ad assorbire la lezione di Gluck (intesa non come “rivoluzione”, ma come “riequilibrio” tra il vocalismo e il resto nell’ambito dell’opera musicale) e ad  applicarla all’opera romantica, sfruttando la sua abilità di orchestratore e la conoscenza della materia sinfonica. In quella che, a posteriori, verrà intesa e proposta da Wagner come una vera e propria missione, il compositore si trova a dover confrontarsi con diverse realtà e tradizioni musicali che, allora, avevano il predominio sulla scena: opera italiana e grand opéra francese. Ogni confronto/scontro, però, porta a contaminazioni più o meno volontarie, così  – aldilà delle note programmatiche – quei mondi così diversi e sdegnosamente rifiutati lasciano segni vitali sulla “nuova musica”. E dunque – dopo i giovanili lavori esplorativi e incerti sulla direzione da prendere – le prime prove consapevoli , portano ancora il segno di quello che l’opera wagneriana non voleva più essere: Holländer, Lohengrin, Tannhäuser, persino Tristan und Isolde – pur con sfumature e diverse gradazioni – non nascondono le origini e le radici. Ma col Ring la prospettiva cambia: musicalmente si assiste ad un ribaltamento, ad una nuova ed autentica presa di coscienza. La genesi ventennale, il labor drammaturgico, il magma vivo della materia plastica che muta forma e si adatta a parole e idee. Col ciclo nibelungico cambia tutto: e non solo per Wagner. Da allora l’opera non poteva più essere la stessa. La rivoluzione wagneriana si concentra su due aspetti (sintetizzati poi nelle ragioni superiori del Wort-Ton-Drama): utilizzo dei cosiddetti “Leitmotive” e nuova vocalità. A chi si stupisce del motivo per cui non considero “rivoluzionaria” la scrittura orchestrale, rispondo che certamente impressiona il virtuosismo dell’orchestratore, ma la generale tendenza a sinfonizzare lo “strumentale” era già largamente diffuso in ambito tedesco e francese: la tradizione sinfonica dei paesi germanici si riflette nell’opera già a partire da Weber e, attraverso Gluck e i musicisti emigrati si diffonde anche a Parigi (divenuta ormai la capitale europea della musica, dopo il declino inevitabile della Napoli di Rossini). Emblematiche, in questo senso, sono le parodie e le caricature: il Wagner disegnato alla testa di compagini immense, ricolme di ottoni, grancasse, piatti e archi trova un immediato precedente in Berlioz, che ben prima di Wagner veniva “accusato” di aver sinfonizzato l’opera. La rivoluzione del Wagner nibelungico, quindi, non va ravvisata nella densità orchestrale o nell’accentuazione del carattere sinfonico dell’opera (l’autore stesso non ha mai inteso la sua arte come sinfonie per voci e strumenti), caratteri che derivano dalla normale evoluzione delle modalità compositive, ma nel complesso sistema dei “Leitmotive”. Com’è noto il termine è stato coniato da Hans von Wolzogen – uno dei tanti esegeti wagneriani – che predispose veri e propri elenchi disposti in ordine alfabetico (come i capi numerati di un grande magazzino di vestiario musicale, diceva un ironico Debussy): il “wagneriano perfetto” (non solo nella parodia di Shaw) era colui che fosse in grado di riconoscere e nominare ciascun tema conduttore, declinarne le combinazioni, contarne i numeri di utilizzo, in una metodica da inventario piuttosto che nella vivacità dell’opera d’arte musicale. Questo approccio burocratico (ancora oggi diffuso) deriva da un primo fraintendimento: ossia ritenere che Wagner “inventò” i “Leitmotive”. In realtà l’utilizzo di una determinata frase musicale, di un certo inciso o di una melodia, in modo ricorrente nella partitura, legata ad una particolare situazione scenica, era normalmente in uso nei compositori dell’età romantica. Verdi, Donizetti, Meyerbeer…spesso ricorrevano a temi musicali associati ad un personaggio o ad una situazione. Wagenr, dunque, non si inventa il “Leitmotiv”, ma elabora su di esso un sistema filosofico musicale che non trova riscontro prima e dopo di lui. Il “Leitmotiv” wagneriano, infatti, non si limita a colorare un determinato momento scenico che ricorre nell’opera, ma traduce in note il rapporto tra pensiero e azione, tra ciò che accade e il perché di questo accadimento. Il “Leitmotiv” racchiude non solo il riproporsi di un momento drammatico, ma le ragioni ultime che spiegano una determinata azione e l’idea, tradotta in volontà, di chi attraverso essa agisce nel tempo e nello spazio. Il sistema è complesso ed elaborato: prevede combinazioni e modulazioni (talvolta appena percettibili) di idee musicali che si fondono tra loro, mutano cromaticamente per generare – attraverso una sintesi filosofica – nuovi temi legati ai precedenti da precisi nessi eziologici. Così, ad esempio, il tema della spada non indica semplicemente la spada, ma quel che rappresenta, quel che è stato e quel che sarà. La musica funebre di Sigfrido è emblematica in tal senso: in circa 7 minuti di musica si ascolta il riassunto ideologico del Ring attraverso il farsi e disfarsi di temi lontani, combinati sino a quel punto che diviene il fine ultimo della vicenda. I “Leitmotive” non sono semplicemente centoni da assemblare, né il ricorso a questa visione semplificata e ingenua “fa” musicista wagneriano. Perché dopo Wagner, la definizione di “wagneriano” (intesa a volte come insulto e a volte come elogio) veniva destinata a chiunque “pompasse” un poco più del consueto l’orchestra ovvero riutilizzasse certi temi musicali più volte nel corso della partitura. Altro fraintendimento che per alcuni sarebbe un portato – positivo o negativo – della “rivoluzione wagneriana” è la presunta mancanza di melodia. L’equivoco – che portava a implacabili condanne perché corruttore della tradizione o agli snobismi di chi “finalmente” annunciava l’avvento di una musica “liberata” dalla schiavitù del pezzo chiuso e intellettualizzata per il solo fatto di essere considerata più difficile – nasce in realtà dal fatto che a mancare erano i ritmi scanditi a sostegno della melodia (tipici del melodramma) e che ne enfatizzavano, non senza una certa rozzezza (il verdiano zum-pa-pa), l’andamento. Per Wagner, al contrario, la melodia era il punto di partenza, l’asse portante dell’invenzione musicale: travolta e stravolta dai cromatismi più arditi, trasfigurata in frasi infinite (e qui si ritrova il Wagner ammiratore delle “melodie lunghe lunghe” di Bellini) ed elaborata nelle forme più inconsuete. Non è un caso che l’accezione negativa del termine “wagneriano” si diffondesse prevalentemente in Italia, dove l’ambiente musicale era più conservatore e legato alle glorie del passato: a differenza della Francia infatti – dove si assiste nella seconda metà del XIX secolo ad una vera e propria disputa tra wagneriani e antiwagneriani – in Italia il termine suonava più come un’accusa dalla quale non fu immune neppure il Verdi di Aida. Il secondo tratto distintivo della rivoluzione wagneriana – dopo il sistema dei “Leitmotive” – è la nuova concezione della vocalità. In questo caso è evidente la contrapposizione del teatro d’opera concepito come dramma musicale, al teatro d’opera concepito all’italiana come melodramma. Mentre il secondo è dichiaratamente allegorico, astratto o fiabesco e il suo linguaggio respinge l’imitazione della realtà attraverso un canto spiegato e la stilizzazione della parola accresciuta, inverosimilmente, dalle formule dell’ornamentazione, il dramma musicale ha come obiettivo la verità drammatica e uno stretto rapporto con la realtà (o ragguagliato alla realtà). La tendenza al superamento delle formule chiuse (recitativo per l’azione, aria o simili per l’espressione di idee o sentimenti) era già presente in parte della precedente tradizione (Gluck, Weber), ma innegabilmente con Wagner il processo trova compimento nell’abbandono dei melismi e nel capovolgimento del rapporto voce/orchestra. Nell’opera wagneriana la melodia – che resta il motore della macchina musicale – nasce in orchestra e si sviluppa sulla scena, anche attraverso forme ariose (seppur fortemente atipiche), che generalmente danno origine ad una semplice declamazione. Per Wagner il valore poetico del testo e il suo significato non poteva essere castrato dalle esigenze rigide delle forme strofiche o della metrica tradizionale che, spesso, rendeva macchinosa l’intelligibilità del libretto e la comprensione del senso del dramma. Inoltre per Wagner un canto spiegato e strofico – quasi naturale nelle lingue vocaliche – non poteva essere veramente congeniale all’idioma germanico. Nella visione wagneriana l’orchestra disponeva già – attraverso il sistema dei “Leitmotive” – di risorse espressive ancora maggiori rispetto alla voce umana. Infine non si può nascondere la volontà di contribuire alla fondazione di un teatro nazionale tedesco, svincolato il più possibile dalle “contaminazioni latine”. Sbaglia però chi sostiene che Wagner negasse i valori della vocalità e sostituisse il ruolo dei cantanti – relegati a meri narratori – con gli strumenti dell’orchestra che annullavano i personaggi per mutarli in idee musicali astratte. Semplicemente cercava una via differente al rinnovamento del teatro musicale. Del resto Wagner arrivò a questa concezione solo dopo aver sperimentato strade già battute dalla tradizione operistica coeva. E pure nel Ring non vi è la completa eliminazione della vocalità cantabile (in particolare nel primo atto della Walkiria o nel terzo di Sigfrido). Certo predomina un declamato tagliente e spigoloso, fatto di linee asimmetriche e spezzate che trae origine non semplicemente dagli spunti melodici suggeriti in orchestra, ma soprattutto dal suono e dal significato intrinseco di parole e versi. Il risultato può dare una sensazione di aridità e ripetitività, ma la varietà ritmica, i frequenti ampi intervalli ascendenti e discendenti, il cromatismo e le assonanze, escludono la monotonia. Vedremo poi quali significati comunicasse questa rivoluzione formale, quali idealità racchiudesse, e cosa lasciò in eredità.

P.s.: gli ascolti proposti sono tutti tratti dalla Walkiria, così come quelli della prima parte erano tratti dall’Oro del Reno. Nelle prossime due parti gli ascolti verranno estratti da Sigfrido e dal Crepuscolo degli Dei. Questo per l’esigenza di mantenere separate – almeno per quanto riguarda l’ascolto musicale – le diverse giornate del ciclo, preservandone la scanzione.

Gli ascolti:

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21 pensieri su “Wagner Edition: Der Ring des Nibelungen. Parte II.

  1. In tutte – ma proprio tutte – le recensioni che ho letto su Wagner e la sua opera, ho sempre – e dico sempre – riscontrato che i compilatori si producono in fantasmagoriche costruzioni filosofiche atte a spiegare il significato più o meno recondito dei ritorni tematici e delle varie simbologie teorico-morali che permeano il testo cantato. Ed ogni volta questi colossali castelli di parole vanno a parare sullo zum-pa-pà verdiano e sulla volgarità del canto all’italiana. Ora, io non ho niente contro Wagner e i wagneriani, e capisco pure che questa volontà denigratoria parta proprio da Wagner in persona, ma è possibile che ancor’oggi non si riesca a leggere il melodramma teutonico come “alternativo” a quello mediterraneo e non per forza come “migliorativo”?

    • Caro Marco, sono cose che non si dicono più perché – purtroppo – si danno per scontate.

      Da parte mia non trovo “Weia Waga Woge du Welle” più “profondo” (o meno ridicolo?) di “Libiamo libiamo nei lieti calici”.
      Un abbraccio da Lily.

  2. Sono d’accordo con Ninci…ma dove le avete lette recentemente quelle cose? Peraltro nel mio pezzo ho parlato solo di evidenti differenze tra dramma wagneriano e melodramma. E ho parlato di rivoluzione perché vi piaccia o meno dopo Wagner l’opera non è stata più la stessa. Non dico migliore o peggiore, ma diversa. E poi dire che l’Italia era un paese musicalmente conservatore è solo un dato di fatto: a parte Rossini e Puccini. Berio aveva profondamente ragione quando scrisse che senza Verdi la storia della musica nn se ne sarebbe neppure accorta, perché Verdi non ha aperto mai alcuna nuova prospettiva a differenza di Puccini e Rossini. Due cose però gridano vendetta:
    1) nei paesi tedeschi l’arte si è sviluppata eccome. Non l’arte classica certo…ma siamo sempre lì: voi ritenete arte di serie A solo quella classica così come musica di serie A solo Rossini (che grazie a voi sto cominciando a detestare).
    2) mettere sullo stesso piano il richiamo delle Figlie del Reno (che non ha alcun intento letterario, ma una funzione meramente onomatopeica) e le modalità espressive di un libretto da melodramma significa davvero non voler capire nulla: ma non perché uno sia migliore dell’altro, ma perché si tratta di cose TOTALMENTE differenti.
    Ps: ciò di cui voi accusate i cosiddetti “wagneriani”, lo continuate a fare quotidianamente: avete la convinzione cieca per cui solo ciò che piace a voi (il vocalismo) sia opera, mentre il resto sarebbe una schifezza…
    Pps: “temevo” che il pezzo andasse immune dalle solite polemiche pretestuose…

  3. Io non ho mai detto quello che mi attribuisci (tant’è che amo le opere di Mussorgskij), al contrario l’accenno alla presunta volgarità del canto italiano sta qui “…ne enfatizzavano, non senza una certa rozzezza (il verdiano zum-pa-pa), l’andamento.”
    Come ha detto benissimo Lily, sarebbe da vedere se ““Weia Waga Woge du Welle” è poi tanto più profondo di “Libiamo ne’ lieti calici…”. Dici che non bisogna mettere le cose sullo stesso piano: sono totalmente d’accordo, così come bisognerebbe sempre ricordare che se nel brindisi o ne “La donna è mobile” Verdi fa zum-pa-pà, quando il contesto cambia e la situazione passa da frivola a tragica, anche gli accompagnamenti cambiano e solo in quest’ottica si ha una visione corretta della drammaturgia verdiana.
    Quanto alle cose che ho scritto, le leggo e le sento dire regolarmente: d’altra parte sono le tue stesse parole a confermare come l’attuale interpretazione della musica sia soggetta ad un radicato quanto enorme fraintendimento.
    Berio chiaramente “tira l’acqua al suo mulino” quando avvalla la tesi secondo cui la grandezza di un musicista – come di qualunque altro artista – si basa sul seguito che questi ha saputo creare. Se la smettessimo di scrivere storie della musica secondo il criterio di “quanti gli sono andati dietro”, certamente Verdi – e con lui tanti altri – non sarebbero “rimovibili” così facilmente. E poi, dopo tutto, non è colpa di Verdi se per scrivere quello che ha scritto lui bisogna proprio essere lui, mentre per fare il wagneriano basta capire l’antifona.

  4. E poi, Lily. La persona più competente di musica che io abbia mai incontrato è stato il Prof. Francesco Orlando, grande studfioso di letteratura e musicologo finissimo. Oltretutto con una competenza wagneriana senza pari. Ebbene, una frase come quella cui si riferisce Frezzolini non l’avrebbe pronunciata neppure sotto tortura. E con assoluta sincerità. Che poi ci sia qualche demente attardato che ancora pensa una simile sciocchezza è possibile, ma si tratta di un fatto irrtilevante.
    Ciao
    Marco Ninci

  5. Caro Frezzolini, allora parliamo senza polemica, perché è chiaro che se mi contesti quanto hai scritto, significa che non ci siamo capiti:
    1) non ho mai parlato di “volgarità” del canto all’italiana, ma di una precisa caratteristica della costruzione melodica tipica del melodramma in confronto con quella wagneriana (e dell’opera romantica). Ho parlato dell’accusa di “mancanza di melodia” mossa a Wagner dagli ambienti più legati ad una certa tradizione compositiva: per dire che non era la melodia a mancare nell’opera wagneriana, bensì la scansione ritmica della stessa. Il ritmo scandito (lo zum-pa-pa verdiano è solo un esempio, ci sono anche le figure di arpeggio, i tempi di marcia etc…) crea un effetto trascinante e – per certe orecchie – rende la melodia più accattivante. Che questo tipo di costruzione sia un poco più rozzo non lo dico io, ma è un dato di fatto: e non c’è nulla di male. E’ solo una scelta espressiva che privilegia l’immediatezza della comprensione melodica, poiché nel melodramma la melodia nasce dal canto che va sostenuto (accompagnato) mentre nel dramma musicale nasce in orchestra. Nessun confronto di valore, ma solo due tipologie differenti di intendere l’opera (derivanti da tradizioni diverse).
    2) il richiamo delle Figlie del Reno e il “libiamo ne’ lieti calici” sono due cose completamente diverse e non confrontabili. Il primo non ha valenze espressive, ma valore onomatopeico, il secondo ha modalità comunicative ben precise. Ma neppure si può confrontare un testo wagneriano con un libretto da melodramma: hanno funzioni differenti e formule espressive non paragonabili. Il libretto funge da sostegno strofico con metrica rigida alla melodia da cantare entro precisi limiti formali (il numero chiuso per cui viene sacrificata la comprensione testuale per garantire “quantità” coerente alla melodia: si spostano accenti, si scompone la sintassi, si disarticola la frase, si inventano termini…tutto deve “star dentro” una metrica prestabilita su cui – rigidamente – il compositore stende la musica). Il dramma wagneriano privilegia il contenuto e lo declina scomponendolo in versi irregolari dai quali emerge una propria musicalità. Ancora: nessuno dice che uno è migliore dell’altro…sono solo cose completamente differenti. Poi si può parlare di efficacia drammatica e qui – ti confesso – ritengo possieda più efficacia teatrale lo stringato libretto di Rigoletto che le lunghe elucubrazioni filosofiche delle tirate wagneriane. Ma resta un mio gusto personale che nulla ha a che fare con la musica.
    3) sarebbe ora di sottrarre la storia della musica al giudizio estetico: accettare che i gusti personali non facciano parte della valutazione musicologica e ricondurre la materia alla storia, appunto. Solo un approccio storico può condurre l’indagine musicologica: un approccio “scientifico” basato su elementi reali, senza inventarsi regole estetiche, decadenze, errori compositivi etc… Ammettere che la storia della musica è complessa e legata al tempo e che se un dato compositore ha scritto in un determinato modo non è perché sia sindrome di decadenza o di ignoranza, ma solo perché l’evoluzione genera cambiamenti. E rifiutare Wagner o Puccini o Musorgskij perché “decadenti” rispetto a Rossini o Meyerbeer (o degenerati) è come ritenere che dopo Giotto i vari Leonardo, Michelangelo e Caravaggio sarebbero sintomo di decadenza perché “diversi”. Ora: è pienamente legittimo guardare solo dipinti di Giotto o ascoltare solo Rossini, ma restano legittimi gusti personali. Ritenere però che tutto ciò che esuli da Giotto o Rossini sia “sbagliato”, rispetto ad un’ipotetica verità, è un fraintendimento. Uno sbaglio metodologico. Non esiste una verità musicale, esiste un’evoluzione e il resto è gusto personale. Stare ancora nel 2014 a parlare di questo è sconcertante!.
    4) Berio non tirava affatto l’acqua al suo mulino e neppure esprimeva valutazioni artistiche su Verdi. Tutt’altro! Diceva solo – e io concordo in quello che è semplicemente un paradosso – che Verdi ha avuto per la storia della musica, intesa come evoluzione di linguaggio, un’importanza minore rispetto a Rossini (che rivoluzionò l’opera all’italiana) e a Puccini (che legò l’opera italiana alla musica europea). Questo però non significa negare valore ad un autore, ma inquadrarlo storicamente. Considera, poi che quella di Berio è una provocazione: non esiste un musicista che può essere levato senza condizionare il resto (parlo di elementi extramusicali: se Verdi, infatti, non ha portato rivoluzioni alla scrittura musicale, soccombendo – di fatto – al wagnerismo e alla traduzione italiana dello stesso, certamente la sua figura è storicamente funzionale al mutamento di linguaggio…).
    5) di nuovo chiudi con un giudizio di valore dipendente unicamente dai tuoi gusti: per fare Verdi si deve essere Verdi, per fare Wagner basta capire l’antifona… Tralasciando il livello di tale affermazione (roba da loggione di Parma), ma che comprendo essere una provocazione, ti chiedo una cosa: chi “fa” Wagner? Il wagnerismo non ha prodotto copie dell’originale (o meglio ha prodotto mediocri imitatori, così come esistono mediocri imitatori di Verdi), ma ha creato un nuovo linguaggio a cui si sono ispirati compositori diversissimi, e pure da posizioni antiwagneriane: da Saint-Saens a Debussy, da Strauss a Mahler, da Catalani a Puccini…tutti costoro si sono rapportati a Wagner (anche in chiave critica), non certo a Verdi che rimase “il grande vecchio” dell’opera italiana, ma morto lui, muore il melodramma, non si rinnova.

  6. Non capisco perchè si debbano fare dualismi alla Italia-Germania come se si trattasse di una partita di Calcio, ogni volta che si parla di Verdi e di Wagner. Il patriottismo, nel mondo dell’ arte, è aberrante. l’ Opera è universale, indi, anche se offre mille spunti critici ed interpretativi (come la offre se riferita anche ad altri grandi compositori) va valutata ed accettata per ciò che è.
    A me personalmente piace più Wagner, non perchè sia meglio di Verdi, ma semplicemente perchè mi da certe sensazioni che cerco negli ascolti, ma non posso disconoscere l’ immenso patrimonio musicale verdiano, anche se non è proprio affine ai miei gusti e non mi da le emozioni del tuttologo tedesco. Accusare di rozzaggine musicale Verdi o di pomposità Wagner, significa fermarsi alla forma o, se vogliamo, all’ apparenza. O, infine, essere schiavi della propria presunzione…

  7. Caro Duprez, apprezzo molto la tua risposta e sono lieto di aver trovato un wagneriano che non senta il bisogno di denigrare Verdi: credimi, è la prima volta. Fuor di polemica, io non userei mai la parola “rozzo”, che suona come un tremendo giudizio di qualità, quanto meno per evitare che qualcuno risponda “prolisso” e così via…
    Vorrei precisare, solo per chiarezza, che l’antifona non si riferiva a Wagner bensì ai wagneriani, proprio nel senso che dici tu, ossia che mentre Verdi non ha creato sistematicamente un nuovo linguaggio e quindi oltre lui era impossibile “essere verdiano”, al contrario Wagner delinea un modello al quale ci si può – piu o meno – adeguare.
    Sarebbe bello, ma assai fuori luogo, disquisire di musicologia: per parte mia respingo una visione totalmente scientifica dell’arte, il che non significa che consideri alcuni dei modelli e altri dei corruttori, ma semplicemente che apprezzo un artista non in base a quanto ha saputo rinnovare, ma in base a quanto ha saputo creare.

  8. Caro Frezzolini, perché mi definisci “wagneriano”? Quando mai? Non amo le etichette, soprattutto in campo musicale (atteso che poi, ad essere sinceri, preferisco su tutto Mozart e per il resto prediligo la sinfonica). Detto ciò vorrei precisare ulteriormente:
    1) è vero che l’arte in quanto tale non può essere ridotta ad argomento scientifico, ma la storia dell’arte sì: se si parla di linguaggi, di mutamenti, di evoluzioni, di scuole, di stili…allora non si può fare un discorso basato sui propri gusti. Cioè, lo si può fare, ma non è più una riflessione storica, ma una chiacchierata tra amici.
    2) riconoscere il ruolo di un determinato autore non significa esprimere un giudizio di valore sullo stesso: sono due discorsi differenti.
    3) l’aggettivo “rozzo” ha il significato di “poco rifinito”: e spesso Verdi è poco rifinito (soprattutto nei primi lavori e negli anni di galera). Ma questo non è inteso come “difetto”, perché se fosse più rifinito non sarebbe più Verdi. E’ l’espressione di una volontà che, ovviamente, va calata nelle personali conoscenze e nel percorso formativo. Rozza non è l’opera verdiana, ma certe soluzioni lo sono: è ovvio che sia così però. In ogni musicista c’è un’evoluzione e il Verdi di Falstaff non è più il Verdi dei Masnadieri…però senza i Masnadieri non ci sarebbe Falstaff: non esistono “errori” in campo compositivo, ma scelte ed evoluzione di scrittura. Non è un tabù dire che Verdi è, in certe soluzioni, rozzo (soprattutto quando marca le melodie con ritmi scanditi e derivati da elementi “bassi”), così come non è tabù dire che Donizetti (che amo particolarmente), soprattutto nella sua produzione minore, è spesso poco ispirato. Ma neppure è tabù scrivere che Wagner è prolisso.
    4) sui “seguaci” di Verdi e di Wagner: in realtà entrambi hanno avuto imitatori maldestri, ma mentre con Wagner si sono poi confrontati anche compositori di diversa estrazione, riconoscendo il suo linguaggio come un punto di svolta (non ti parlo di imitatori, ma di grandi compositori: Debussy, Saint-Saens, Puccini, Strauss, Mahler etc…), con Verdi non si è confrontato più nessuno. Anche in Italia (Catalani, Mascagni, Zandonai, Cilea, Leoncavallo…guardavano tutti – con diversissimi approcci – al nuovo linguaggio wagneriano). Che vuol dire questo? Che Verdi era inimitabile? Beh, il parmigiano loggionista direbbe così mentre cronometra il DO di petto della Pira senza accorgersi che magari è un SI bemolle….in realtà significa solo una cosa: che il melodramma verdiano probabilmente aveva fatto il suo tempo, non interessava più a nessuno e nessuno ha voluto proseguire in un linguaggio ormai sorpassato. Non significa sminuire Verdi che occupa nella storia dell’opera un posto fondamentale, ma vuol dire prendere atto che la parabola verdiana si esaurisce nel melodramma. Non è vero che non ci si potesse adeguare al modello verdiano: si poteva eccome (Marchetti, Rossi, Gomez, il Ponchielli di “Marion Delorme” o dei “Promessi sposi” l’hanno fatto), semplicemente non interessava più molto, e dopo i primi imitatori – che rincorrevano una moda proficua e un modello evidentemente di successo – non ha prodotto alcuno sviluppo (anche in Italia).

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