Dopo le sontuose Elisabette della scorsa puntata proponiamo tre sovrane di Spagna che possono sembrano sottodimensionate solo in rapporto a quelle, oltre che, limitatamente ad alcuni punti, rispetto alle richieste dell’onerosa, e anche per questo affascinante, partitura verdiana. Non certo rispetto a un presente che della miniaturizzazione e della liofilizzazione, vocale non meno che strumentale, ha fatto, non già una necessaria virtù, bensì un vero e proprio vessillo, orgogliosamente spiegato. Come se uno strumento di limitata ampiezza dovesse giocoforza condurre l’esecutore verso una più completa musicalità e una maggiore pertinenza espressiva. Caratteristiche che, certi soggetti assicurano, decisamente non si possono rinvenire nelle esecuzioni del passato anche recente, ma solo nelle testimonianze sonore nostre contemporanee. Meglio se prodotte dalle case discografiche e reclamizzate dalle solite centrali del consenso.
Ilva Ligabue, Antonietta Stella e Gabriella Tucci declinano, ognuna a modo proprio, il paradigma della voce d’oro all’italiana, quella del soprano lirico che può affrontare senza eccessivi turbamenti (semmai con qualche limite oggettivo e, per logica conseguenza, una frequentazione non sistematica e magari oculatamente limitata a certi teatri) le parti del repertorio spinto, al cui novero la Valois indubbiamente è riconducibile. Di certo con queste signore, connotate da rigogliosa salute vocale (una salute che è frutto certamente della natura, ma anche di un’emissione e di una disciplina musicale che non concedeva e non si concedeva sconti), non si ha mai la sensazione di assistere all’arrivo al chiostro di San Giusto di una Butterfly o, tanto per restare in ambito conventuale, di una Manon di Massenet. Giunge invece, nei tre casi, una sovrana dolente e afflitta, ma anche decisa ad affrontare a testa alta e in ogni senso nel pieno rispetto del proprio ruolo l’estremo colloquio con il figliastro, già promesso sposo.
La palma dell’esecuzione dell’aria spetta, probabilmente, alla Ligabue, per la capacità di bilanciare austerità dell’accento (scandito e realmente verdiano) nell’incipit della scena e inflessioni melanconiche, con pianissimi eterei ma non larvali o falsettati, quando la regina iberica cede il passo alla principessa francese e ai suoi ricordi. Per lei, come del resto per le altre due cantanti considerate, il salto d’ottava su “Francia” (fa4-fa3) non è l’occasione per esibire suoni pigolanti sopra e sgangherati in basso, ma il punto in cui il personaggio fa i conti con il proprio passato e si abbandona, con lucida disperazione, al ricordo di una felicità perduta, rivissuta nello struggimento di un sogno a occhi aperti. Il suono che esprime un simile sentimento non può che essere dolce e calibratissimo. La solidità e lo slancio nel registro medio acuto, che emerge soprattutto al duetto conclusivo, rendono questa Elisabetta una delle più affascinanti creazioni del soprano reggiano, benché in basso (si ascolti ad esempio “la pace dell’avel” o “il riposo profondo”) la voce non possieda il metallo e l’ampiezza di altre colleghe. Ovvio che “la Ilva” (come affettuosamente la chiamavano i suoi ammiratori) monti in cattedra nella sezione conclusiva del duetto, eseguita a mezzavoce, con un suono denso e ricco di armonici che, proprio per la continenza espressiva adottata dall’esecutrice, si rivela in tutto il suo splendore.
Maggiormente tornita all’ottava grave, decisamente meno ricca di inventiva sotto il profilo del fraseggio, Antonietta Stella, che delle tre cantanti fu l’unica a proporre il titolo nella sala del Piermarini. Il “Tu che le vanità” è magnificamente cantato e questo, complice la dote naturale non comune della signora, restituisce con sufficiente esattezza la nobile mestizia del personaggio. Non molto altro, purtroppo, tanto che al successivo duetto con Carlo non appare casuale il taglio del passo che comincia “Sì, l’eroismo è questo”. In compenso i “fiori del Paradiso” e, più avanti, l’evocazione delle beatitudini celesti colgono la Stella nel suo elemento naturale, la celebrazione di una bellezza ideale, non algida, ma come distaccata da qualsiasi indizio materiale. Latita insomma l’amante, benché casta, ma l’angelo consolatore è ben presente.
Un poco inerte nell’aria, con suoni ovattati in prima ottava (inevitabile scoglio di queste peraltro affascinanti e sempre istruttive esecuzioni) e non sempre calibratissimi in zona centrale, Gabriella Tucci si riscatta al duetto, in cui affronta uno degli specialisti della parte, Richard Tucker, che ha cantato l’Infante di Spagna al fianco di alcune delle maggiori Elisabette del secolo (molte delle quali proposte in questo nostro ciclo conventuale). Verosimilmente stimolata dalla presenza del grande collega, che coniuga al solito in modo ineccepibile baldanza eroica e tenera espressività (nonostante uno strumento timbricamente tutt’altro che privilegiato), la Tucci trova un equilibrio ideale tra la fierezza della regina e la trepidazione dell’innamorata, sostenendo con disinvoltura la tessitura non certo agevole dell’Assai sostenuto “Ma lassù ci vedremo in un mondo migliore” e rifulgendo, in particolare, nei pianissimi (“mio figlio, addio”).
Gli ascolti
Verdi – Don Carlo
Atto V
Tu che le vanità…E’ dessa! Un detto, un sol…Sì, per sempre!
Antonietta Stella, Mirto Picchi, Cesare Siepi, Marco Stefanoni, Giuliano Ferrein, dir. Mario Rossi (RAI 1954)
Ilva Ligabue, João Gibin, Jerome Hines, Bruno Marangoni, Ferruccio Mazzoli, dir. Antonino Votto (Palermo 1964)
Gabriella Tucci, Richard Tucker, Ezio Flagello, Ramón Vinay, Ara Berberian, dir. James Levine (Cleveland 1971)
Adoro queste rubriche! anche le foto sono davvero belle in questo caso, soprattutto la Ligabue.
Non si può che rimanere colpiti dalla solidità di queste cantanti italiane, davvero bravissime e, secondo me, inspiegabilmente meno famose della Tebaldi che mi pare inferiore sotto alcuni punti di vista.
la Tucci non mi dispiace, ma è un gradino alle altre due nell’aria. Il controllo è minore, ma la dizione è perfetta. Tucker, anche da vecchio, è un sogno per l’ accento virile, eroico e il timbro squillante. Concordo sul fatto che nel duetto la Tucci sia molto più a suo agio e realizzi una scena magistrale. Ottimo l’acuto finale
La Stella mi piace anche se è un poco matronale in alcuni passi, forse per enfatizzare la parte drammatica, e non è sempre precisissima (ma è un live in ogni caso). Nel duetto (quel che rimane) non convince più di tanto. L’acuto finale è però preso alla perfezione, una saetta.
La Ligabue è davvero ottima: risolve tutto con apparente facilità e realizza una performance eccellente sia nell’aria sia nel duetto. Davvero ispirata. L’acuto finale non è bello e perfetto come quello della Stella, ma nella situazione scenica è certamente più d’effetto. Ciò che però mi ha colpito maggiormente è la bellezza della voce, sempre così femminile, senza mai inflessioni da virago, una donna matura, ma non vecchia, austera, ma non per questo tendente al mascolino, una voce con un’inflessione dolente e nostalgica che fa commuovere. Io l’ho ascoltata di recente come brillante Alice nel Falstaff, ma qui (sarà il ruolo infinitamente più bello e interessante) mi è nata una grande curiosità di approfondire la conoscenza di questa cantante.