E dopo la Lucia dell’oratorio e la Sonnambula della casa di riposo, non poteva mancare all’appello un titolo rossiniano in versione dopolavoristica. Se non fosse per la superba cornice (tanto per usare un po’ di frusto lessico da cronaca mondana) del Comunale ferrarese (prossimamente teatro Claudio Abbado), verrebbe da pensare di trovarsi in un circolo aziendale o in una bocciofila in cui, per il Carnevale, si è pensato di “mettere su”, ovviamente alla buona e senza pretese, la Cenerentola. Siamo invece, per l’appunto, in uno dei cosiddetti teatri di tradizione dell’Emilia Romagna. Per giunta in un teatro che ha conosciuto, nel passato anche recente, produzioni con interpreti di gran nome e che tuttora ospita una stagione sinfonica di un certo rilievo. Doppiamente inspiegabile, quindi, che possa ospitare uno spettacolo, in ogni senso, così modesto. La spiegazione comincia a profilarsi quando, esaminando la locandina, si constata come, di nove nomi in cartellone, tra solisti di canto, direttore d’orchestra e regista, ben sei facciano riferimento alla medesima agenzia teatrale. Viene da pensare che sia tornata in auge la consuetudine di appaltare a un impresario l’allestimento di un titolo, se non di un’intera stagione come era abituale almeno fino all’epoca della premiata ditta Mocchi-Carelli. L’unica differenza è che questo ipotetico impresario non rischia di tasca propria, bensì con i soldi delle stremate, ma ancora presenti (per quanto, non è dato sapere), casse erariali.
L’allestimento, già proposto al teatro di Treviso, è firmato da Lorenzo Regazzo, il quale dopo venti anni di carriera debutta come regista d’opera. E non si tratta di una produzione una tantum, visto che tra qualche mese sarà la volta di Così fan tutte. Non sappiamo dire se queste scelte costituiscano i prodromi di un’evoluzione della carriera, atteso che, all’età di Regazzo, Nazzareno de Angelis, Tancredi Pasero ed Ezio Pinza erano ancora ben lungi dall’addio alle scene e si trovavano, anzi, in pieno rigoglio vocale. Questa Cenerentola “moderna” e volutamente (?) minimalista nelle scene di Guia Buzzi assomiglia a tante altre già viste, tanto in teatri di gran nome quanto nella profonda provincia. L’epoca è vagamente anni Sessanta, con Alidoro in versione prestidigitatore (assistito da un onnipresente maggiordomo interpretato, guarda un po’, dallo stesso Regazzo), Don Magnifico anziana rockstar in disarmo, Cenerentola che stira (senza troppa convinzione) la biancheria delle sorelle, la cui prorompente fisicità vorrebbe ammiccare a Fellini e non arriva alla più paesana Lina Wertmüller. Il regista ritiene suo dovere “vivacizzare” i concertati con l’inserimento di luci e coreografie che dovrebbero essere stranianti, ma che nei fatti risultano solo una soluzione molto diluita di quanto già proposto dagli spettacoli rossiniani di Ponnelle. Allo stesso modo, l’enfasi esasperatamente grottesca con cui vengono tratteggiati i personaggi delle sorellastre finisce per indebolire l’efficacia delle loro scene, mentre il ribaltamento conclusivo (Cenerentola assiste, divertita, allo spettacolo di Clorinda e Tisbe alle prese con i panni da stirare) rende ipocrita e stridente l’apoteosi della bontà prospettata dal titolo dell’opera. Sorvoliamo sui tagli che si rendono necessari, nel recitativo che precede l’aria di Alidoro, per giustificare il fatto che l’ajo del Principe non indossi i mendaci panni del mendicante, qui trasformato in addetto alla raccolta di scorte alimentari e capi di vestiario in favore di un ente caritatevole.
Se ci siamo dilungati nella descrizione dell’allestimento, non lo abbiamo fatto perché convinti che la regia costituisca il fulcro di uno spettacolo lirico, ma perché sulla realizzazione musicale c’è davvero poco da dire. Alla testa dell’Orchestra Città di Ferrara (compagine di limitato rilievo, ma non peggiore di tante altre, anche generosamente finanziate), Sergio Alapont ha staccato tempi adeguati ma non ha dimostrato di saperli gestire al meglio, donde frequenti disallineamenti tra buca, solisti e coro, specialmente nei passi concertati. Dignitosa la prestazione del Coro Voxonus.
E qui finiscono le note più o meno positive della serata, atteso che tra i solisti non abbiamo sentito una sola voce correttamente impostata, e quindi in grado di venire a capo di una partitura che a tutti i cantanti, senza eccezione, impone ampi passaggi di canto fiorito e sillabato, varietà di accenti consona alle situazioni comiche e patetiche previste dal libretto, oltre alla necessità, imposta da consolidata tradizione, di onorare i punti coronati tramite l’inserimento di variazioni, cadenze e interpolazioni. Si potrebbe obiettare come, di fronte a una produzione affidata per lo più a giovani cantanti, sia saggio e opportuno ridurre le preteste, tanto per una forma di rispetto nei confronti della limitata esperienza dei solisti, quanto allo scopo di non incorrere in troppo cocenti delusioni. Possiamo anche concordare, ma non va dimenticato che tre dei convocati solisti (Angelina, Ramiro e Dandini) provengono dall’Accademia Rossiniana di Pesaro e si sono a più riprese esibiti nella prestigiosa manifestazione adriatica. E se ascoltando le voci gravi maschili viene da pensare che la Rossini Renaissance sia trascorsa invano, atteso che il canto di agilità si traduce in borborigmi scomposti e “tirati” in acuto, il sillabato si disperde nel (non certo fitto) tessuto orchestrale e i gravi ingolati fanno pensare più a voci di tenore non sfogate che ad autentiche voci di basso cantante, la prova di Lu Yuan quale Principe salernitano assicura rispetto al modello imperante delle voci tenorili applicate a Rossini, modello che non è più quello di Juan Diego Flórez, bensì quello degli imitatori di Flórez, in primis Yijie Shi (altra star pesarese, et pour cause): gravi maldestramente “affondati” e quindi poco o punto sonori, centro in difetto di appoggio, suoni rauchi e malfermi sul passaggio superiore e, in acuto, autentiche grida eunucoidi, sovente anche stonate. Chiara Amarù (diplomata non solo a Pesaro, ma anche alla non meno illustre Scuola dell’Opera Italiana del Comunale di Bologna) conferma le impressioni suscitate dal Malcom pesarese dello scorso anno: correttamente impostata, sarebbe un soprano lirico da Manon di Massenet, Bohème e Rondine, anche Butterfly in teatri di contenute dimensioni come quello di Ferrara. In una parte quasi sopranile come quella di Cenerentola, sfoggia gravi sordi e opachi, scarsa propensione al legato in zona centrale, coloratura cempennata in stile baroccaro, acuti di maggior consistenza ma poco calibrati e decisamente fuori controllo, al punto che il rondò finale si trasforma, sotto il profilo della tenuta dell’intonazione, in una vera e propria roulette russa. Ma il peggio sta nell’incapacità di trovare accenti e colori tali da differenziare e valorizzare il patetico della canzone iniziale e degli interventi nel quintetto, la solennità dell’entrata alla scena della festa, lo stile larmoyant al sestetto e il grandioso pezzo di bravura conclusivo. Questo riduzione di Cenerentola a una bimba petulante e smorfiosa è il peggior servizio che si possa rendere a uno dei più grandi capolavori della letteratura rossiniana.
Don Ramiro Lu Yuan
Dandini Clemente Daliotti
Don Magnifico Umberto Chiummo
Clorinda Caterina Di Tonno
Tisbe Elisa Barbero
Angelina Chiara Amarù
Alidoro Fabrizio Beggi
Un maggiordomo Lorenzo Regazzo
direttore Sergio Alapont
Orchestra Città di Ferrara
Voxonus Choir
maestro del coro Alessandro Toffolo
regia Lorenzo Regazzo
scene e costumi Guia Buzzi
disegno luci Roberto Gritti
Coproduzione Teatri e Umanesimo Latino S.p.A. – Treviso e Fondazione Teatro Comunale di Ferrara
Cenerentola è la vittima designata della cialtroneria, spesso costosissima, dei teatri emiliani. Non ho visto lo spettacolo di Ferrara, ma ho ancora negli occhi e negli orecchi la Cenerentola che il Comunale di Bologna perpetrò alcuni anni fa, con la inqualificabile regia di Irina Brook. Il cast che mi toccò era il secondo cast, ampiamente nutrito di allievi della Scuola dell’ Opera dello stesso Comunale : non voglio infierire su questi poveri cantanti, dirò solo che la cosiddetta Scuola (come tante altre, Pesaro e Scala compresi ) mi richiama sempre alla mente l’ adagio secondo cui “chi sa fare, fa; chi non sa fare, insegna”. A questo punto, in attesa della trasformazione della lirica in musical para-parrocchiale, resta solo da sperare che prenda sempre più piede l’opera in play back .
riuscirebbero a servirti il play back con la baltsa!!!
per non sbagliarsi
Sempre pregnante e cristallino ernani!
Ho visto la recita a Treviso e tutto sommato l’allestimento non mi è dispiaciuto, anche se eccessivamente portato a creare gag di cui non si sarebbe sentita la mancanza.
Concordo soprattutto con il giudizio sul tenore, il quale pur avendo un discreto mezzo, presentava un intollerabile e marcatissimo difetto di pronuncia delle “s” e delle “z” (lascio immaginare il piacere nel sentire i recitativi…). Così come i venditori spesso vendono oggetti gravati da vizi e difetti, parimenti chi predispone i cast propone agli spettatori cantanti difettati (con la sola differenza che al pubblico presente in sala non è data azione di garanzia per ottenere la riduzione del prezzo pagato…!). Sgradevole anche l’interpretazione, con assoluta incapacità di rendere i sentimenti che caratterizzano il personaggio e completa passività in scena (soprattutto nelle parti in cui non canta).
Cenerentola tutto sommato – rispetto alle altre secondarie voci femminili – è quella che meno ha sfigurato, anche se ha un mezzo vocale tutt’altro che importante. La voce, soprattutto all’inizio, mi è parsa sempre “indietro” e sottoscrivo pienamente il fatto che non ha minimamente reso i diversi stati d’animo del personaggio sottesi alle differenti fasi dell’opera. A differenza del tenore, invece, è rimasta costante fino alla fine, senza dimostrare segni di cedimento e spossatezza vocale verso la fine.
Non mi è dispiaciuto Dandini (Clemente Daliotti), in quanto è uno dei rari che mi è sembrato non “ballare” con la voce soprattutto nelle note tenute. L’effetto “tagadà”, soprattutto nei bassi e baritoni, mi infastidisce molto. Mi accontento con poco io.
Probabilmente sono uscito contento da teatro perchè il giorno prima avevo assistito all’inqualificabile Clemenza di Tito alla Fenice; là si che si sono toccati livelli bassissimi (sia di allestimento, peraltro risalente a 30 anni fa, sia e soprattutto a livello canoro)… quindi ci voleva ben poco per farmi apprezzare un qualsiasi spettacolo del giorno dopo.
Che oramai in quasi tutti i teatri non solo italiani l’opera lirica sia talmente caduta in basso da non meritare più neppure i commenti, è ormai fatto assodato. Il mio augurio (esplicito) è che finiscano i soldi gettati al vento dalle gestioni teatrali. Per far questo occorre che dal mondo politico pubblico non vi sia più finanziamento a mo’ di regalia. La crisi che stiamo vivendo è un segnale propizio.
Vabbè che il cupio dissolvi può produrre qualche piccolo godimento ma questa mi sembra davvero una prospettiva balorda. Non sarebbe meglio battersi perché i soldi vengano spesi meglio?
Si, hai ragione. Ma per spenderli meglio come facciamo se passano sempre per le mano degli stessi?