Il 16 giugno 1956 il Maggio Musicale Fiorentino proponeva, fra i titoli di quella edizione don Carlo. Era una proposta che seguiva, a breve distanza quella del 1950 con cast ben differenti, e che rispondevano all’identica idea di schierare quanto (a torto od a ragione) ritenuto il vertice del canto verdiano di scuola italiana.
Possiamo, poi, in un sadico gioco confrontare entrambi i cast degli anni ’50 con quello offerto sempre dal medesimo ente nella trascorsa stagione ed iniziare la consueta e doverosa serie di doglianze doverose perché don Carlo, uno degli ultimi grand-opéra, impone e pretende voci ed interpreti da grand-opera per emergere nella sua caratteristica di prodotto, fra i migliori, di un particolare ed unico genere di dramma per musica.
Nell’esecuzione del 1956 abbiano, quanto a voci da grand-opera, la più completa realizzazione di Elisabetta di Valois, se si escludono i reperti di Giannina Russ e le fantasticherie, supportate su tardive esecuzioni, circa l’esecuzione scaligera del 1954 di Maria Callas.
Per non cadere nella agiografia acritica preciso che, sotto il profilo vocale, non tutto sia perfetto. Ci sono suoni fissi sui primi acuti come il fa di “si piange in cielo” e di “mio dolore” e il si nat al duetto è irrimediabilmente fisso e stonato. Questo a chiarimento del fatto che celebrare un cantante ed indicare come paradigmatica una sua esecuzione non escluda il sentirne difetti e limiti.
Al di là delle singole realizzazioni la levatura storica dell’Elisabetta di questa ragazzona appena venticinquenne risiede nella combinazione dell’autentica voce di soprano drammatico, capace di galleggiare sui densi orchestrali senza sforzo, anzi oltrepassando solo di rado il mezzo forte e di cantare a tutte le intensità in tutta la gamma dell’estensione, qui – va precisato- molto propizia alla cantante.
Aggiungiamo la dizione perfetta (tratto, che accomuna la Cerquetti a due coetanee ossia la Stella e la Tucci) da attrice di prosa, un sapiente uso delle consonanti a fini espressivi ed abbiamo la realizzazione di quanto, con disarmante semplicità, la medesima Cerquetti ha detto in un’intervista “si canta con la voce”. Aggiungo e preciso con la “sua” voce.
Basta sentire l’attacco regale e dolente sul mezzo forte, il diminuendo sul “trono del Signor”, la messa di voce su “e il pianto mio” (lo spartito prevede solo un morendo su “Signor” e la cantante amplifica il concetto a riprova che il cantante è interprete e non esecutore) per capire che, a differenza di quasi tutte le Valois, non siamo davanti ad una Mimì travestita. Una simile voce mantiene l’esecuzione sul tono della ricordanza e del rimpianto anche nei passi più arroventati come l’allegro agitato “Addio bei sogni d’oro”. Tono giusto perché è la voce giusta per il ruolo. Nel passo molti soprani lirici per non essere impari all’orchestrale devono essere forzatamente tragiche. Prendiamo, poi due luoghi topici del fraseggio “Francia” con una spettacolare messa di voce sul fa e il successivo “Fontainebleau” altra forcella, che la Cerquetti realizza, senza esagerazioni ed affettazioni proprio in virtù della dote vocale. Non c’è la miniaturizzazione di un ruolo che non è tragico e non sopporta liricizzazione e miniaturizzazione, bastando a convincersene l’organico orchestrale con cui Elisabetta deve confrontarsi ad onta del fatto che un paio di ottime Mimì siano delle pseudo grandi Valois.
Il risultato espressivo e vocale più completo è rappresentato dalla frase “Addio, addio verd’anni” dove la voce appare al contempo monumentale ed ampia senza mai scomporsi e cadere un suoni forzati e spinti, con una realizzazione della forcella sulle parole “il cor” davvero unica.
Questa peculiarità della combinazione di voce e di interpretazione emerge ancora alla ripetizione dell’incipit dell’aria con un tempo leggermente più stretto e sonorità più marcate rispetto alla prima enunciazione.
Buona idee in un direttore (Antonino Votto) che di idee non ne ebbe mai molte.
All’ingresso del principe delle Asturie la Cerquetti con due frasi “al ciel io raccomando “ ed il successivo “ e poi sol vi domando” mette in secondo piano anche fraseggiatrici insuperate come Renata Scotto. La questione è sempre l’equilibrio fra qualità vocale e situazione drammatica. Angelo Loforese venne scelto perché la voce era sonora e squillante sugli acuti, risulta sempre un poco stentoreo e legare non è la sua peculiarità come accade con frasi come “vago sogno m’arrise” ad onta della posizione sempre avanti e proiettata del suono. C’è anche la circostanza di dover reggere il confronto con l’accento tenero, regale nobile e la voce importante nel contempo de “i fior del paradiso”. Ad attenuante va anche aggiunto che una certa stentoreità, retaggio del grand-opèra si addice a don Carlos, anche se nelle frasi da innamorato “la mia virtù vacilla” Lo Forese è piuttosto piatto e monocorde.
Quando attacca la sezione eroica (indicazione in spartito marziale e con entusiasmo) del duetto, che non dimentichiamo è enunciata da Elisabetta con le parole “Si l’eroismo” la Cerquetti sfodera lo slancio e la scansione che solo un soprano drammatico può avere nella zona centrale della voce. Questo rende per la legge del contrasto (uno dei mezzi espressivi più usato dalla vecchia scuola) ancor più toccante e pertinente la sezione “ma lassù ci vedremo” dove emergono le qualità espressive del suono e del legato della Cerquetti (nonostante il si nat fortunoso). Forse alle ripetizioni del “per sempre addio” con un tempo lento e solenne sono un po’ “cantarsi addosso”, ma talvolta con certi mezzi è quasi un dovere farlo.
Si racconta che, allorquando un suo fans disse alla Tebaldi che la Cerquetti non poteva essere il top per la carriera durata solo un decennio la signorina Renata, che aveva la battuta pronta, abbia risposto “quanto basta”. Segno di stima e considerazione per la collega. Renata Tebaldi non cantò mai in teatro la Valois come pure l’Amelia del Ballo e di fatto dal 1960 in poi nessun ruolo della più autentica vocalità verdiana (tali non sono né Alice né Desdemona). Viene il dubbio che secondo il paramento del tempo. Soprattutto del primo decennio di carriera della Tebaldi, questa non fosse considerata autentica voce verdiana per la mancanza di autentico slancio e della saldezza nelle tessiture “gagliarde” di Verdi. Oggi discutere della autentica verdianità della voce della Tebaldi appare inutile perché nessuna cantante in carriera trova gli accenti (ripeto gli accenti non la voce) del soprano parmigiano nel repertorio del proprio conterraneo.
Renata Tebaldi appesantita ed accorciata, ma sempre la Tebaldi e sempre nome di punta della Decca registrò nel 1965 Elisabetta a fianco di quello che sarebbe stato il Carlo ideale della Cerquetti: Carlo Bergonzi.
Che la signorina Renata sia, come Elisabetta fra due fuochi ovvero la tradizione del canto verdiano (che si chiamava per la sua mentalità Maria Caniglia o Zinka Milanov) e le proprie condizioni vocali nell’aria è evidentissimo dal primo “riposo profondo” dove la cantante è piuttosto dura in alto e in basso suona un poco aperta. Splendida invece appena può alleggerire il suono e limitare il volume all’attacco di “se ancor si piange” ed il successivo “per me la mia giornata a sera è giunta”. Un po’ meno fluido l’attacco con la forcella di “Francia” e qualche suono di petto troppo marcato a “la pace dell’avel”, che prevede la discesa sotto il rigo con tanto di dizione un po’ artefatta per simulare alla maniera verista un registro basso, che in natura non ci sarebbe.
Alla ripetizione del “tu che le vanità” quel che nella Cerquetti era nobile e monumentale al contempo nella Tebaldi diviene stentoreo. Non so se sia facile cogliere la differenza perché la voce della Tebaldi anche se provata è più verdiana di quelle succedutesi nel ruolo dell’infelice regina. E’ più una questione d’accento. Forse.
Bergonzi entra, sussurra “E’ dessa” è siamo davanti all’innamorato. Innamorato e principe al tempo stesso bastando sentire il “sulla terra fiamminga” dove rifulge la dizione e la scansione anche se il la bem? acuto suona un po’ schiacciato. In compenso è elegantissimo nel successivo “vago sogno” dove l’indicazione di “dolcissimo” è resa alla prefezione.
Quando la tessitura di Elisabetta a “i fior del paradiso” tende a salire la dizione della Tebaldi diviene problematica ed anche la scansione, mentre Bergonzi è sempre nettissimo ed il “or che tutto finì” è dolcissimo ed accorato. Arrivati alla sezione conclusiva del duetto che inizia con “ma lassù” l’attacco della Tebaldi è ispirato e supportato da un timbro ancora bellissimo, notevole il legato e dalla nostalgia che la voce trasmette anche se la cantante esagera un po’ con i portamenti e ogni tanti la dizione non è scolpita quanto quella del partner, che emerge per la combinazione di legato ed espressione. La dizione è scolpita, ma alla parmigiana come inesorabili ricordano le due sibilanti di “lassù”.
Ma diciamolo pure sarà anche alla parmigiana, vista l’origine dei due protagonisti, ma della Parma che fu piccola splendida capitale, non l’attuale!
La mia preferenza va alla Cerquetti, davvero magniloquente e imponente come interprete e voce. Peccato per gli estremi acuti non perfetti… in effetti la storia della durata della carriera è relativa, basti pensare a Domingo. Il periodo d’oro in ogni caso più di tanto non dura e conservare la voce con la tecnica non significa essere pari al proprio periodo d’oro, si pensi alla Devia, o alla mia amata Edita.
Per la Tebaldi non ho mai avuto una grande passione: timbro bellissimo, ma troppo gonfiato nei centri così da precludersi la via degli acuti, e anche le note gravi sono un poco pompate… secondo me se avesse cantato con meno voce, se non avesse voluto fare a tutti i costi il vocione, sarebbe stata ancora più maliosa e precisa in tutto il registro.
hai perfettamente ragione nella sua prima aida è chiaro che una minor foga e turgore al centro avrebbe consentito acuti più facili e timbrati anche se meno voluminosi. Credo però che il gusto del tempo e la presenza di grandi voci imponesse quelle scelte. Come fosse la giovanissima tebaldi lo raccontò celletti in un articolo st discoteca nei primi anni ‘ 70.
Non credo sia solo una scelta legata al gusto del tempo ma anche alle qualità della voce della Tebaldi. Un lirico spinto non è un soprano lirico che ingrossa la voce. Altrimenti avremmo molte Tebaldi in giro al giorno d’oggi invece di soprani lirici sfasciati e ballanti che tentano la via del Puccini e del Verdi maturo 😉
Ho sempre trovato il duetto finale del Don Carlo eseguito dalla Tebaldi come una delle sue peggiori esecuzioni. Vabbè che ormai era (vocalmente) anzianotta, ma come si può rispondere al fraseggio ispiratissimo e lancinante di Bergonzi con accenti così superficiali, prosaici, da casalinga neanche tanto disperata? Insopportabile veramente
Visto che si taccia il grande Votto di essere un direttore generalmente con poche idee, potete postare anche l’introduzione orchestrale? Per quel che si può capire dalla registrazione, a me pare che il gusto per il colore orchestrale sia molto raffinato e l’equilibrio generale dei tempi rimarchevole.
A proposito, voce strepitosa la Cerquetti, ma visto che stiamo a spaccare il capello, vogliamo dire che l’imprecisa e “molto morbida” scansione ritmica della prima frase compromette la solennità dell’enunciazione?
anche a me spiace non avere postato l’introduzione che non c’è . Siccome appartengo al secolo scorso quel don Carlo l’ho in vinile….. e trasferire il vinile su cd e poi aggiungerlo è un’operazione che richiede un tempo, che non ho ed una cognizione tecnologica che mi manca. Quanto alla scarsa fantasia di Votto ascolta la seconda Norma della Scala e confronta con Gui di Londra o il Trovatore sempre della Scala 1953 e forse capisci il motivo della mia affermazione. Poi aggiungo, ma questo già lo sapevi, che con i tempi che corrono avercene di Antonino Votto e della loro arte di accompagnare e creare atmosfere e della sicurezza nel tenere buca e palcoscenico. Perché a Votto gli incidenti in cui Dudamel, tanto per non fare nomi, è incappato nel finale secondo di Boheme non sarebbero MAI accaduti.
ciao dd
Della Tebaldi ho sempre apprezzato alcune, poche, interpretazioni fra cui Desdemona, Wally e un bellissimo II atto di Boheme. Mi ha dato sempre fastidio l’intonazione calante negli acuti, molto calante secondo me. Non ho mai capito o meglio non ho saputo apprezzare la cosiddetta “voce d’angelo”. Sul piano interpretativo, poi, alcune cose è meglio dimenticarle.
Della Cerquetti, invece, amo tutto ed in particolare quella incredibile interpretazione dell’aria dell’ Agnese di Hohenstaufen, insuperata, per ora, sempre secondo la mia opinione, eh!
saluti a tutti!
insuperata oggettivamente l’aria dell’agnese.
sbaglio o trovi la Cerquetti molto molto più voce d’angelo della tebaldi?
fallo felice digli di SI!
Non ce n’è bisogno! A me l’espressione “voce d’angelo” ha sempre fatto sorridere. Una voce può anche essere brutta e comunque riusltare espressiva e migliore della cosiddetta voce ‘angelo. Quella della Cerquetti era una bellissima voce, se d’angelo o di serafino, non lo so. Ma trasmetteva qualcosa. Quella della Gencer, ad esempio, non si poteva certo definire una “voce d’angelo”, eppure era molto, molto espressiva, anche se con qualche cedimento d’intonazione!
In generale sono d’accordo con l’argomento introdotto da Donzelli riguardo al confronto sul Don Carlo.
Non sono quasi per nulla d’accordo, però, sul tentativo che ne segue nei post successivi di sminuire la Tebaldi a una cantante di cui si dice solo che era calante, che faceva molti portamenti, etc.
Limiti ne aveva (come tante), soffriva sicuramente dell’influenza di un gusto di una certa epoca che portava a essere “lirici spinti”. Però, devo dire anche che a lei non si perdonano difetti che, invece si perdonano ad altre.
se posso cercare di capire le posizioni di molti. La Tebaldi disponeva di un mezzo di grandissima qualità, nel genere lirico e lirico spinto. Le capitava, però di essere vittima della sua bella voce e del desiderio di esibire in primis la sua bella voce. E quello che la Tebaldi sa fare come Leonora di Forza con Mitropoulos è la prova che se avesse voluto avrebbe potuto dire molto di più. Certi personaggi come Adriana le sfuggirono o li centrò solo in parte proprio perché non li approfondì vocalmente. Un peccato, diffuso in molte “voci d’oro”.
Mi permetto di aggiungere che la bellezza del mezzo vocale in sé e per sé non è cosa che si possa giudicare appieno nelle registrazioni. Che la Tebaldi abbia avuto una vera “voce d’angelo” lasciamolo dire a chi l’ha ascoltata dal vivo. Io mi fido.
Io ho sentito l’ ultimo concerto scaligero. Insomma si intuiva
La ho ammirata dal vivo in Otello,Tosca e in concerto.La voce soprattutto in prima ottava era ricca,piena,luminosa,la dizione perfetta (meno scolpita della Maria).Aveva un’intonazione felicissima,carezzava un certo edonismo canoro:nelle violette,Ombra mai fu,O del mio dolce ardor resta insuperata.Come in Desdemona.Il problema delle note alte c’era,anzi sembrava che avvicinandosi,ad es.,al si nat de La mamma morta cercasse di abbassare da prima,comunque oggi con le live e YT si percepisce quel che allora,specie nel canto non scoperto dei veristi,era meno evidente.Ho scritto questa nota dopo aver ascoltato la Sembrich e la Diana,certo in altro repertorio.La voce della Tebaldi era discesa dal cielo.
Io purtroppo non ho mai potuto ascoltarla dal vivo, ma se poco sopra ho scritto che nel Don Carlo la trovo insopportabile devo anche aggiungere che in Tosca la Tebaldi è irresistibile! La preferisco alla…. Callas… (aiuto, l’ho detto!)
per giocare allè classifiche irraggiungibile la muzio. Poi olivero e price. Terzo porto pari merito callas, tebaldi, steber
Hai ragione, l’ho sempre trovata eccellente nelle Violette.