La serata era dedicata ad Elena Formica, giornalista parmigiana scomparsa recentemente e prematuramente. Siccome “la Formica” -come chiamavamo noi Elena, che ci manca tanto- aveva espresso a suo tempo perplessità su uno degli elementi del cast, che pure in Parma era stata osannata nei panni di Amelia come la reincarnazione di Leontyne Price, non posso, secondo il dire la verità anche se sgradevole e cruda come nello stile Grisi, che ritenere un bel dispetto alla defunta la dedicazione della serata, benchè nata per certo dall’amicizia, ma risoltasi in un dispetto appunto.
Per la verità, come ha detto serafica ed innocente una loggionista (Grazia la Pasionaria), “è uno schifo”e il dispetto non solo è stato recato alla cara scomparsa, ma a Leoncavallo.
Le tesi della Pasionaria del loggione sono antiche come il teatro, indistruttibili ed indiscutibili secondo ferree e consolidate modalità di gestione del teatro. Ossia non si chiama un cantante vecchio ed a fine carriera a cantare un ruolo come Canio (poi in chiusura mettiamo un ascolto, che smentisce la parmigiana pasionaria, ma si tratta di Beniamino Gigli) e che l’opera, qualsiasi, si programma se si hanno i cantanti adatti. Ovvero l’opera per i cantanti, non i cantanti per l’opera. Poi la Pasionaria ha detto “come si fa negli altri teatri” e qui la smentisco perché quello che vedo da molti anni ed in molti teatri è quanto censurato dalla Grazia.
Alla resa dei conti abbiamo avuto una direzione generica, rumorosa e limitata all’accompagnamento dei cantanti. Certo avere sentito qualche ora prima la Cavalleria di Harding non contribuisce, ma proprio a Parma si sono sentiti in tempi recenti direttori, che alle prese con il capolavoro di Leoncavallo avrebbero saputo esaltare il sinfonismo casalingo, le descrizioni paesane e soprattutto la drammaticità bruciante della recita, che muta in poche battute la commedia nella tragedia del delitto d’onore.
Certo siamo alle solite quando mancano i cantanti. Il peggio è venuto da Marcello Giordani, ripreso alla fine del primo atto dopo il “vesti la giubba” ed alla fine dello spettacolo. Giordani ha sempre cantato così, ovvero in maniera dilettantesca e canzonettara, per essere chiari, ma quando lo faceva nelle stratosferiche tessiture di Gualtiero la scusa era ben ovvia ed imputata all’autore ed a Giovan Battista Rubini. Nei Pagliacci (come in Chenier) opera di tessitura centrale, che richiede ampiezza al centro e squillo nei pochi acuti previsti (il si bem di “meretrice abbietta”) o di tradizione (il si nat di “ventitre ore”) abbiamo sentito una voce che in basso suona opaca e sorda, nella zona mi-sol acuto ingolata e stonata e negli acuti gridata. Parlare di legato, di mezze tinte, di colori con queste condizioni tecnico – vocali è impossibile. Sentire come se la cava l’avanzo del grande Gigli (per giunta mai modello di gusto, tanto meno a 62 anni) nella scena culminante dei Pagliacci. Stesso ragionamento può essere proposto a seguito dell’ascolto di Giovanni Martinelli dal Met 1936.
Moglie degna di tanto marito la Lewis, salutata quale scoperta parmigiana nei panni, questi sì davvero ardui, di Amelia e premiata nelle locali conventicole, che è naufragata nella parte di Nedda che altro non richiede per essere eseguita da manuale che una voce solida e timbrata in centro. Posso dire che al duetto con Silvio, pagina intimista e quasi di gusto francese (Nedda fu cantata da molti soprani d’agilità a fine carriera come la Melba, la Arnoldson o la stessa Huguet della prima registrazione discografica 1907) le cose sono andate meglio che nella Ballatella e che nel finale. Il timbro, però, è talmente depauperato e svuotato da ricordare la Kabaivanska che per tutto, come Nedda ed in generale, si può ammirare meno che per la dote naturale.
Gli altri: abbastanza buono il Tonio di Elia Fabbian, che funziona meglio qui che non nel seguente Schicchi. Quanto al Silvio di Marcello Rosiello si sforza di essere anche dolce ed amoroso, ma è l’emissione “bassa” e l’attacco di “decidi il mio destin” non è quello alato dell’innamorato, che fanno la differenza fra i due baritoni il greve Tonio e il seducente Silvio. Il meglio Davide Giusti quale Beppe.
DOMENICO DONZELLI
Alla fosca e duplice tragedia dei Pagliacci (quella sul palcoscenico e quella delle contestazioni in corso d’opera e al termine della stessa) e all’intervallo, in cui il loggione parmigiano ha dato in larga misura prova, l’ennesima, della propria tendenza all’assoluzione con formula piena, a priori e per principio, dispensando però al contempo, e questa è la vera novità della serata, isolati, durissimi, quasi “grisini” commenti sull’inadeguatezza dello spettacolo allestito dal teatro cittadino, è seguito lo Schicchi. Ovvero quello che, nelle previsioni degli spettatori “che vogliono bene al Regio”, avrebbe dovuto risollevare le sorti della serata. Siccome protagonista, bacchetta e responsabili della parte visiva erano i medesimi dei Pagliacci, previsione e susseguente valutazione appaiono alquanto azzardate, per non dire altro.
Dopo essere stato un limitato Tonio, Fabbian è uno Schicchi di voce legnosa ed emissione faticosa, più che affaticata dal duplice cimento. Impossibile, in simili condizioni, cantare sulla parola e, più ancora, dire, in una parte in cui dire è, semplicemente, essenziale. Di analoghe limitazioni soffre (e con loro autore e pubblico senziente) il folto stuolo di caratteristi, che dell’opera è o dovrebbe essere l’autentico deuteragonista. Non per nulla nei gloriosi anni del Met (quelli che per i laudatores temporis praesentis non sono mai esistiti) i cast dello Schicchi pullulavano di nomi quali Pinza, Segurola e Didur. Negli stessi cast Rinuccio era magari Lauri Volpi o Jagel, non il pur volonteroso Giusti, che allo stornello difetta di squillo e di autentica morbidezza. Tutt’altro che encomiabile anche la prova di Ekaterina Sadovnikova, che in una parte breve e vocalmente elementare evidenzia soprattutto l’incapacità di respirare correttamente, con conseguenti problemi di tenuta non appena la tessitura si alzi anche solo di poco (“addio speranza bella” e duettino finale). L’applauso a scena aperta dopo “O mio babbino caro” è stato, peraltro, l’unico degno di questo nome nell’intera serata. E questo la dice lunga sulla qualità complessiva dello spettacolo.
Lo spettacolo di Federico Grazzini, di ambientazione più o meno contemporanea (scelta che peraltro è ormai, nei titoli considerati, la regola e non già l’eccezione), risulta assolutamente tradizionale nell’impostazione delle scene d’assieme (Schicchi, in cui peraltro molti spunti offerti dal libretto, come la contrapposizione tra Betto di Signa e gli altri Donati, cadono nel vuoto, come regolarmente accade) e nella diffusa immobilità dei cori (Pagliacci). Nei momenti migliori, un bel concerto in costume (notevole soprattutto la scena tetra e claustrofobica ideata da Andrea Belli per lo Schicchi).
ANTONIO TAMBURINI
Leoncavallo
Nedda – Queena Mario
Canio – Giovanni Martinelli
Tonio – Richard Bonelli
Silvio – George Cehanovsky
Beppe – Giordano Paltrinieri
Direttore – Gennaro Papi
Metropolitan Opera House
29 febbraio 1936
Puccini
Gianni Schicchi – Sesto Bruscantini
Lauretta – Daniela Mazzuccato
La Zita – Rosa Laghezza
Rinuccio – Dano Raffanti
Gherardo – Sergio Bertocchi
Nella – Giovanna Di Rocco
Gherardino – Simona Della Penna
Betto di Signa – Giovanni Savoiardo
Simone – Ivo Vinco
Marco – Tino Nava
La Ciesca – Aracelly Haengel
Maestro Spinelloccio – Giuseppe Morresi
Ser Amantio di Nicolao – Claudio Giombi
Pinellino – Gianni Brunelli
Guccio – Ivan Del Manto
Direttore – Bruno Bartoletti
Teatro Regio di Torino
2 marzo 1982
Ammmmé Lauretta è piaciuta, e molto.
La Lewis, da lapidare: in che lingua cantasse, poi, non è dato sapere.
Sono meno severo nei confronti di Fabian, ma si sa, io sono buono 😉
Il tenorino, Beppe e Rinuccio, m’è parso insufficiente su tutti e due i fronti. Per il resto concordo quasi su tutto. La regia, a me non è dispiaciuta. Una cosa tranquilla, forse un po’ troppo infarcita di controscene nei Pagliacci, ma sostanzialmente azzeccata in Schicchi.
Serata tiepidina, scaldata da i “buhh” a Giordani, che in effetti oggi come oggi appare piuttosto cotto e bollito. Ma almeno ci mette l’impegno, poraccio.
Saluti
PS. Mille grazie per aver caricato lo Shicchi dell’enorme Sesto!!! 😀
Anche a me l’allestimento e’piaciuto
poraccio si…permaloso com’e’ giordani…me lo ricordo dopo una recita d traviata con edita gruberova. Gli dissi che lo avevo trovato in forma e in crescita, ma quando gli dissi che forse in “Parigi oh cara” c erano margini d miglioramento, con garbo m prego’ d accomodarmi fuori dal camerino…
Non si fosse capito, il “poraccio” era ironico 😉
allora il tenore donzelli è molto molto più educato dei colleghi oggi in carriera anche se al capolinea!
ma forse il tenore donzelli é sempre stato al capolinea e lì si impara l’educazione
c’è chi sta al capolinea e chi sta al lampione