Ci siamo domandati, prima di armarci a quattro mani di carta e penna, se fosse interessante ed opportuno scrivere ulteriormente della bavarese esecuzione di Forza del destino. Interessante perché lo spettacolo “di” Martin Kušej, una volta visto, nulla guadagna rispetto al semplice ascolto ed anzi certifica lo scempio perpetrato ai danni di Verdi e della poetica sottostante a questo titolo e, allora, diviene interessante rendere noto il fatto oltraggioso. Opportuno perché sarebbe facile dire che quello del Corriere della Grisi è un accanimento verso questo spettacolo, ma in questi giorni di riposo post natalizio abbiamo, casualmente e per merito di uno dei nostri più assidui lettori, avuto occasione di leggere dello scempio e della rapina perpetrate ai danni del patrimonio artistico italiano e, quindi, si è manifestato più che mai opportuno parlare diffusamente dell’ennesimo scempio nei confronti del patrimonio musicale italiano.
La premessa da fare è che talvolta i grandi titoli del grande repertorio possono, ma non devono, subire una trasposizione temporale o geografica. Alcuni titoli reggono bene l’operazione di trasposizione, altri poco, altri ancora male, pena lo sfalsamento ed il tradimento del messaggio culturale e poetico di cui latori. Forza del destino , parente molto prossima del genere grand-opéra appartiene all’ultima categoria, restia ad ogni ipotesi di trasposizione spazio-temporale perché una della peculiarità di lavori del genere è proporre al pubblico un’epoca passata attraverso il filtro dell’epoca di composizione. Forza del destino parla, anzi proclama, un codice cavalleresco, un codice dei rapporti familiari, una visione del peccato e della sua espiazione, un’immagine di Chiesa che sono quelle che la fine dell’800 riteneva essere del secolo XVIII.
In una sala da pranzo da esposizione de “La casa del mobile, occasionissime per tutte le tasche”, ovvero finto modernariato anni Cinquanta (cifra stilistica dell’intera produzione), la famiglia de Vargas (padre, figlia, fratellino men che decenne, cameriera e prete di casa) consuma il pasto serale, ovviamente dopo la propedeutica benedizione della mensa a opera del sacerdote. È questa la prima di molte “invenzioni” volte a sottolineare il bigottismo che contraddistingue non solo il vecchio marchese di Calatrava, ma un po’ tutti i personaggi dell’opera. Sempre per lo stesso motivo, sulla tavola spicca un crocifisso, presenza fissa in tutti i quadri dell’opera. Il rito bergmaniano del pasto è sorvegliato da bodyguards, verosimilmente allertati dal marchese per vigilare sulla castità della figlia. E già qui abbiamo una notevole incongruenza con il libretto, in quanto dal dialogo che apre il primo atto apprendiamo come il padre di donna Leonora sia completamente all’oscuro dei progetti di fuga della figlia (“fuggisti lo straniero di te indegno”). Sempre in questa scena spicca la brillante trasposizione scenica del commiato tra padre e figlia, tenero il primo e disperata la seconda: i cantanti sono a tre metri di distanza l’uno dall’altro e neppure si guardano. Sorvoliamo su Curra, abbigliata da segretaria stile Monica Lewinsky e recante il trolley che costituisce il bagaglio della pellegrina Leonora (dettaglio pedestre e piccolo borghese, perfettamente in tono con l’allestimento), e arriviamo all’ingresso di don Alvaro, che sempre in onore dei gloriosi anni Cinquanta sembra un capellone in procinto non già di impalmare donna Leonora, ma di reclutarla quale groupie per il proprio complesso beat. Gli amanti piroettano l’uno tra le braccia dell’altra, abbondano in smorfie e gesti da postadolescenti, in quella che a giudizio del regista dovrebbe essere un’efficace trasposizione “moderna” ed “empatica” di un duetto d’amore. Peraltro la parte conclusiva del duetto viene osservata dal marchese e dai suoi uomini, che sono quindi in scena già da un pezzo quando Curra ne annuncia l’arrivo. Le guardie del corpo o agenti di sicurezza che dir si voglia sono probabilmente in agitazione sindacale, in quanto all’involontario colpo di pistola partito dall’arma di don Alvaro non rispondono, come sarebbe logico, aprendo il fuoco, ma limitandosi a tenerlo sotto tiro. Peraltro il morente marchese di Calatrava rivolge la sua maledizione (“lungi da me… contamina tua vista la mia morte”) non alla figlia, ma al figlio, che giustamente fugge terrorizzato.
All’inizio del secondo atto non siamo ovviamente nella taverna di Hornachuelos, bensì in un ammasso di macerie industriali, verosimile frutto di un bombardamento (come sembrano testimoniare anche gli impolverati cappotti dei coristi). Peccato che la guerra evocata dal libretto si svolga in Italia e non in Spagna. I fratelli de Vargas e il cadavere del loro sventurato genitore sono nelle stesse posizioni in cui li avevamo lasciati alla fine del primo atto. Ovviamente ora il bambino è stato rimpiazzato dal baritono, quindi tra primo e secondo atto devono essere passati non alcuni mesi, come da libretto, ma almeno quindici anni. Apprezziamo anche lo psicologismo d’accatto in forza del quale viene evocata la “scena primaria” (l’uccisione del padre) all’origine dei traumi di Don Carlo, costretto a uno striptease (limitato, per fortuna, a cravatta e gilet) durante la ballata. Notevoli anche Preziosilla, abbigliata come Curra e che si toglie la parrucca (un must del teatro di regia in salsa mitteleuropea) prima di attaccare “Al suon del tamburo”, e donna Leonora, il cui travestimento maschile si riduce a un cappello e al gesto di rialzare il bavero del cappotto. L’abito e le scarpe, inequivocabilmente muliebri, sono i medesimi per tutta l’opera. Al convento della Madonna degli Angeli, di cui scorgiamo un’anticamera in stile minimalista, regna un poco di confusione: Melitone è in clergyman, mentre il padre guardiano è abbigliato come un pastore evangelico. L’impressione si rafforza alla scena della monacazione, che qui diviene scena del battesimo di donna Leonora, sollevata di peso dai coristi biancovestiti e immersa in una vasca piena d’acqua. Un rito lustrale che ha poco della religiosità controriformata e fa pensare, più che altro, a una comunità di recupero, magari ispirata dalla predicazione di qualche guru televisivo, more statunitense.
Quindi all’aprirsi del terzo atto abbiamo un fondale rappresentato dall’alzato di un appartamento (quale e di chi?) ed il solito tavolo stile high tech svedese anni ’50, utilizzato ora come letto, ora come tavolo operatorio, ora come punto di appoggio per rapidi rapporti sessuali, ora quale ring dei duelli fra don Alvaro e don Carlo, sempre trasandati, sudaticci abbigliati come braccianti da film del neo realismo e che si trascinano per la scena un po’ fatti. Il peggio per gratuito cattivo gusto ed inutile volgarità la scena di Preziosilla, abbigliata come una sfasciata battona del raccordo anulare, che trascina al guinzaglio un ex avvenente manzo, tipo mistress armata di frustino ed è l’incipit di una scena con i soliti accoppiamenti, maschioni e maschietti in mutande, perché di compiacere sino in fondo una cospicua parte del pubblico esibendoli nudi non si osa, dediti all’accoppiamento sul tavolo o nelle vicinanze, come se il pubblico fosse così stordito da non sapere quale generosità praticasse Preziosilla e le altre vivandiere. Sentiamo il dovere di proporre uno stralcio dalla realizzazione cinematografica di Forza del destino di Carmine Gallone (1949) dove Preziosilla con un gesto e lo sguardo, fa comprendere quale sia, oltre la divinazione, l’arte sua. Il film popolare, da divertimento della domenica pomeriggio per l’Italia post bellica ridicolizza quale serie di inutili e volgari facezie la regia dell’altra sera davanti all’eloquente ammiccamento della nostrana Preziosilla.
Il pessimo gusto, l’incongruente ed inopportuno imperversano al convento della Madonna degli Angeli dove fra un taglio e l’altro del testo musicale Melitone distribuisce ai poveri la minestra sotto forma di doggy-bags. Volete mettere la trovata scenica e la comicità della caldaia rovesciata e le mescolate del frate ai poveri?
Poi arriviamo alla sfida, che si svolge nel retro del salone parrocchiale stile anni ’60 con tanto di porta a soffietto, dove intuiamo che il padre Raffaele altri non è che un educatore, a sua volta, recuperato da disagi giovanili o tossicodipendenza alle prese con uno sbandato, che cerca aiuto ovvero che stenta sulla via del recupero. Naturalmente niente spade, ma due coltelli. Ammirazione per la scivolata alla “don Lurio” di Kaufmann sul tavolo, in mancanza della possibilità di ammirare l’esibizione vocale. Rimpiangiamo il fascino dei don Alvaro in saio e cappuccio come da libretto e tradizione iconografica. Il rispetto di queste non serve al rimpianto del passato fine a sé stesso, ma a rappresentare il bel tenebroso, che sotto il saio vive lo straziante contrasto fra il presente ed il pesante ricordo (e rimorso?) del passato. Vogliamo poi parlare della fedeltà al messaggio poetico di donna Leonora, che compita, ben ravviata, “in ordine” come dicevano le nostre nonne, passeggia in un deposito di croci e monumenti funebri dei quali sembra chiamata ad erigere inventario e che spezza il digiuno con una fettina di pane di segale di produzione industriale, acquistato in un super mercato. Verdi descrive una penitente che, pur giunta allo stremo delle forze, lacera, sporca non riesce ancora a staccarsi dalla memoria dell’amato, il fascinoso indio.
E tacciamo della incongruente vergogna di un Padre Guardiano, che indossa una divisa diversa da quella di Fra’ Melitone e del Padre Raffaele e che è tanto compreso della tragedia e redenzione che gli si compie davanti che si siede al tavolo, che la presenza di cadaveri sta trasformando in quello di una sala settoria. Oltre all’intrinseca bruttezza, all’ordinario e deja vu, spacciato per arte niente, niente, anzi un c…o di niente (così usiamo un’espressione consona), che evochi, aiuti a comprendere e crei la cornice congrua al sublime polpettone che Verdi confezionò.
Alla fine di questa penitenza autoinflittaci con l’ascolto prima e la visione, poi, della Forza del destino di Monaco di Baviera ci siamo posto molti interrogativi. Ad esempio: i registi di oggi sono assolutamente identici l’uno all’altro hanno una comunanza di linguaggio espressivo che li rende pressoché irriconoscibili l’uno dall’altro; ormai sembra inutile il rispetto di una tecnica di canto che serve a dare al cantante i mezzi espressivi per essere cantante ed interprete, si può urlare, parlare, gridare, stonare, calare e crescere a piacimento in nome di non si sa cosa, certamente non in nome di Verdi o di qualunque altro musicista. E se a questo aggiungiamo un allestimento che non aiuta a cogliere i tratti del pensiero e della cultura dell’autore, volto alla sua deliberata distruzione sorge spontaneo chiedere se si debba o meglio possa mettere sulla locandina i nomi di Verdi, Piave e Ghislanzoni.
Nadia Krasteva, Al suon del tamburo, Parigi 2011, regia Jean-Claude Auvray
Nadia Krasteva, Al suon del tamburo, Vienna 2012, regia David Pountney
Come dice Lily, la tecnica di recitazione del teatro d’opera e’ differente da quella dell’avanspettacolo o televisiva che dir si voglia. Applicare quest’ ultima all’opera e’ semplicemente devastante .
Buon nuovo (?) anno a tutti,con una definizione dei piu’ famosi ( o famelici) registi e cantanti d’opera odierni ripresa da Stendhal : ” detrattori della musica e disturbatori della quiete notturna”.( si riferiva ai biferari abbruzzesi che suonavano la novena)
Bravo, Donzelli.
Me ha venido a la mente la respuesta que dio Liliana Cavani a los periodistas cuando le preguntaron por qué proponía una “Manon Lescaut” de tipo tradicional. Dijo: “Se cree que cambiar de época las tramas de las óperas es ser moderno, pero no es así, es banal y ridículo y por eso no lo hago”, para añadir después que, en ópera, la modernidad equivale a una buena interpretación (vocal y musical) y no a cambios de época de la trama.
Añado que, asegurada la calidad musical, en caso de querer hacer cambios respeto el libreto, éstos deberían tener una justificación clara. Y ya sabemos que los directores de escena (y quienes los contratan) ni se plantean si sus “actualizaciones” sirven para aclarar las cosas o para confundirlas. ¡Buen 2014!
buon 2014, e, su consiglio di Miguel http://youtu.be/2MXlm47iCzU
Bravo e ben ‘spiegato’!
Urge un TSO per il regista, anche se penso abbia fatto una sbornia di birra!
Birra?
Cos’ha combinato di nuovo l’orrido Kusej?
Io mi ricordo un Don Giovanni ed un Tito terrificanti visti a Salisburgo anni fa.