Chiudiamo questa piccola rassegna, dedicata al capolavoro di Meyerbeer (anche se le reazioni della critica e di parte del pubblico alla ripresa veneziana di questi giorni farebbero pensare piuttosto a un’opera minore) con un’ultima, grandiosa versione della scena finale. L’Arte (la maiuscola è d’obbligo) di Salomea Kruscenisky ci rammenta in sommo grado due principi:
a) è possibile cantare anche ruoli estranei alla propria vocalità, a condizione che lo si faccia con saldo possesso della tecnica e piena cognizione di quello che si sta cantando (il che esclude ipso facto la maggioranza dei cantanti oggi in attività, in primis quelli coinvolti nella ripresa veneziana sopra richiamata);
b) la bellezza, il sex appeal e la presenza scenica sono caratteristiche certamente utili, ma non necessarie e men che meno sufficienti per costruire una carriera solida e duratura. A un secolo di distanza i dischi della Kruscenisky sono ancora un punto di riferimento per chi voglia comprendere il mito della cantante attrice, laddove il fascino della donna è inesorabilmente tramontato. Un po’ come il plauso, in ogni senso facile, di certi ammiratori.