Con l’Africaine di Meyerbeer si è inaugurata la stagione 2013-14 del teatro La Fenice di Venezia. Dopo la produzione di qualche anno fa del Crociato in Egitto il teatro veneziano ha inteso cimentarsi di nuovo col grande musicista tedesco, questa volta nella sua veste più celebre e celebrata di compositore di grand opéra, genere musicale di cui in questi ultimi anni si stanno moltiplicando le riproposte un po’ in tutta Europa.
Con l’Africaine il teatro di Venezia ha messo mano al capolavoro postumo di Meyerbeer utilizzando, molto scorciata, la tradizionale edizione di Fétis, che fu quella utilizzata pere la prima rappresentazione postuma. L’operazione non contemplava obbiettivi di natura critico filologica, ma non per questo si presentava operazione meno onerosa dal punto di vista musicale e vocale. Precisiamo che sempre allestire un grand-opéra è stata operazione onerosa sotto molteplici profili. Oggi dopo molti lustri di sistematica assenza questa ripresa, rappresenta la restituzione di un genere musicale cui il pubblico moderno è disabituato ed i cui stilemi espressivi sfuggono. Il senso “culturale” per noi oggi, diversamente da chi, sino agli inizi del XX secolo ha fruito in continuità con l’ottocento Meyerbeer o Halevy etc.., dovrebbe essere quello di rileggere i significati insiti nel testo e riproporli fungendo da mediatori che veicolano il pubblico verso un mondo musicale estraneo a quelli con cui si è soliti confrontarsi. E proprio qui stava il senso dell’operazione che mirava ad un certo target culturale perché il pubblico che conosce il musicista berlinese o appartiene alla specie dei cultori delle registrazioni storiche, le uniche dove Meyerbeer abbondi o ne hanno una conoscenza assolutamente teorica e, consentitemi, cartacea.
Per raggiungere questo fine era necessario, in chi proponeva e patrocinava l’operazione, avere bene a fuoco in primo luogo il genere musicale con le sue peculiarità, che sono le ragioni sottese allo straordinario successo che opere come Africaine riscossero nella seconda metà del XIX secolo ed agli inizi di quello successivo. Una storia, ci piace ricordarlo a noi che del desueto e dell’antico ci riteniamo cultori, costituita di rappresentazioni continue che in Italia cessarono, di fatto, soltanto con la affermazione del Verismo mentre si protrassero assai più in Francia, per ovvie ragioni di campanilismo, nei paesi di lingua tedesca, che conobbero tardi e parzialmente la stagione verista, e soprattutto nei teatri americani, capitanati dall’eclettico Met, recettore di ogni must lirico della vecchia Europa.
Meyerbeer, che molti oggi tendono a vedere come un rossinista senza inventiva o una sorta di musicista deteriore, di tipo “fantasy”, incarnava per i propri contemporanei la massima forma di modernità musicale che aveva superato i generi in auge in Francia e quelli italiani, in una soluzione di koinè drammaturgica, musicale e vocale tanto unica quanto affascinante e la cui varietà poteva prestarsi ad interpretazioni assai varie.
Il dipolo Crociato Africaine proposto dalla Fenice in questi anni è perfettamente rappresentativo di questa evoluzione del musicista tedesco, che partì nell’humus rossiniano, dove ancora cantava il castrato come amoroso, per approdare, attraverso capolavori quali Ugonotti, Profeta, ad Africaine, ove il tenore si ritrova ad anticipare il declamato dei tenori wagneriani. Meyerbeer fu sempre un operista che componeva per la voce e per il canto, anche se non sempre ad personam. Voce che sapeva come spingere al massimo delle possibilità di sviluppo per ampiezza, estensione, duttilità, utilizzando in modo nuovo stilemi e forme ornamentali di ascendenza più antica, che trovavano qui altro senso e nuovo significato, sino a delineare una vera e propria vocalità di genere, quella da grand-opèra appunto. Insomma una sorta di grande eclettismo drammaturgico e, quindi, vocale di tutto ciò che si era scritto sino a quel momento: il declamato della tragedie lirìque francese, il canto rossiniano, la melodia italiana anni ’30, riconfigurati in un nuovo articolato melànge adatto alle molteplici sfaccettature drammaturgiche insite nel genere stesso.
Inutile stare a menzionare i debiti più o meno riconosciuti e/o documentati che su vari piani ed in varia misura ebbero Wagner, Verdi, ma anche Gounod, Delibes, Massenet (per tacere della particolare parodia che ne fa Offenbach nei Contes, una sorta di dramma satiresco nel rapporto con la tragedia) verso Meyerbeer, o polemizzare sull’autenticità delle contaminazioni di questo o di quello.
Altra peculiarità era la monumentalità dell’impianto drammaturgico che si estrinsecava nello sviluppo estremamente articolato dei numeri, negli equilibri di forza tra i vari personaggi e le scene in cui questi cantano da soli o con gli altri coprotagonisti indispensabile nell’ambito di soggetti storici o di storia fantastica come Africaine, i cui temi chiave corrispondevano a quelli del dibattito connotante la cultura del tempo: l’antisemitismo, il contrasto religioso protestanti-cattolici, le nefandezze di questi in nome dell’ortodossia, il colonialismo, l’esotismo etc
Quella che a noi oggi appare come una forma d’arte prolissa, era intimamente legata ad esigenze di genere radicate e vive nel pubblico del tempo: essa si alimentava di un sistema di “regole” non scritte ma chiaramente note cui non si poteva derogare e che non è questa la sede per delinearli. Inutile guardare oggi ad Africaine come ad altre opere con i parametri artistici di taluni contemporanei, come Verdi, o del dopo, che pure tanto di Meyerbeer e del genere si dichiarerà tributario. La sua natura è racchiusa nel semplice aggettivo “grand”, che significa “grandioso”, cioè la massima amplificazione di ciascun aspetto, sicchè l’architettura di questo melodramma è un impalcato tanto pregnante ed intimamente legato alla composizione musicale stessa che può subire tagli, ma a patto di non intaccarne la struttura grandiosa. La nostra grossolanità potrebbe tirare fuori, quale metro di paragone, il cinematografico genere “kolossal”.
Se Meyerbeer non fosse stato un grande musicista ed un compositore capace di scrivere per il canto, il grande canto, non avrebbe incontrato tanta fortuna presso il pubblico ed i cantanti, dato che avere in repertorio anche Meyerbeer era sinonimo di top star, in un mondo di valori vocali riconosciuti ed indiscutibili, di altissime capacità tecniche, interpretative e di mezzo naturale. Il cantante del grand-opèra, che si esibiva all’Academie era contrapposto a quello dell’opera-comique. Mai la Galli-Marie (prima Carmen e Mignon) calcò le scene del Palais Garnier. Edmond Clement, uno dei più grandi tenori francesi di tutti i tempi, mai affrontò gli eroi di cappa e spada e, del pari, colleghi come Affrè, DeRezke o Escalais mai furono Werther o Des Grieux. In fondo lo stesso accadde in Italia fino alla generazione di Tamagno e de Lucia o Garbin, che approdarono al nascente Verismo. Solo le generazioni successive, a partire da Paul Franz e molto di più con Thill ed Ansseau, abbandonarono la rigida antica divisione affrontando contemporaneamente Halevy e Massenet. I cantanti italiani virarono subito verso la produzione verista e la sopravvivenza italiana di Meyerbeer dagli inizi del secolo (ritirati Masini, Tamagno e Marconi) sino agli anni ’30 è legata a cantanti dal repertorio vario quali Zenatello, Bassi, Martinelli, sino a Gigli, proprio con Africaine ( le prove di Lauri Volpi in Ugonotti furono occasionalissime, mentre mantenne in repertorio il Tell, che non veniva considerato un grand-operà). L’esperienza di Gigli,.va dettagliato, nasce nella parte americana della sua carriera, dove le opere di Halevy e Meyerbeer rimasero in cartellone sino agli anni ’30. Il mondo di lingua tedesca e russa, invece, resistettero più a lungo nel praticare Meyerbeer, con cantanti come Slezak o Jadlowker, il tenore più vicino alla vocalità alla Donzelli, o con le voci femminili attive sino agli anni ’20-’30 anche sul versante wagneriano ed italiano. Impressionante il caso della leggendaria wagneriana Amalie Materna, che fu per circa un centinaio di sere Selika allo Staatsoper di Vienna. Wagner, Verdi e Meyerbeer rappresentavano a quelle latitudini i tre capisaldi delle stagioni dei teatri più importanti.
Chi ama il canto ed apprezza i cantanti antichi non può non conoscere Meyerbeer, o almeno parte di esso, copiosamente documentato da leggendari interpreti di inizio Novecento. Il disco antico ci ha lasciato una messe di documenti su come e con quale livello qualitativo venisse eseguito questo difficile compositore in teatro nel secolo precedente, da quali voci straordinarie, dotate di capacità tecniche e mezzi vocali oggi perduti. Per chi ama l’opera e la concepisce come arte vocale in primis Meyerbeer è uno tra i maggiori miti musicali e rappresenta il solo ponte verso il buio dei primi interpreti del belcanto della prima metà dell’Ottocento. L’ascolto dell’aria del sonno della Matzenauer, i lacerti di Melchisech o di Marconi, sono per l’ascoltatore di un certo tipo la prova di come potevano cantare la Titjens o Faure o Mario. L’età recente ha riattivato alcuni capolavori meyerbeeriani con la prudenza e la saltuarietà, che si devono ad un compositore estremamente difficile, destinato allora come oggi a pochi e rari esecutori, specialmente dotati sotto ogni punto di vista. Ma nel repertorio, ossia nella rappresentazione consuetudinaria, Meyerbeer non è entrato e non entrerà mai.
La Fenice, col proporre questo secondo complesso titolo del compositore berlinese, ha intrapreso un progetto musicale al di sopra delle proprie forze artistiche ed i risultati poco felici sono stati chiari ed evidenti a tutti coloro abbiano una minimale esperienza di teatro lirico, non nel dettaglio del genere grand-opèra, in sala e alla radio.Operazione segnata del qualunquismo vocale, senza domandarsi se l’interesse e l’ambizione di mettre in cartellone un titolo siffatto potesse essere sostenuto da una possibile triade di voci, Vasco, Selika ,Nelusko, reperibile sul mercato lirico odierno. La storia esecutiva recente e le relative incisioni pirata documentano le difficoltà incontrate a trovare i protagonisti maschili in particolare in anni assai più felici di questi. Oggi si allestisce tutto bellamente alla faccia delle difficoltà e delle reali capacità di conseguire risultati artistici degni di questo nome. Si fa per fare, diversamente dal fare per fare bene, che è ben altra cosa, rispettosa dell’autore, dell’Arte ed anche della propria professionalità.
Passi per l’allestimento mediante trovarobato, argomentato con buon senso dalla sovrintendenza ma a cui si potrebbero opporre i recenti, inutili e dimenticabili nuovi allestimenti di repertorio che potevano essere recuperati anche presso altri teatri.
Dopo tanto diffuso spendere e spandere per allestire e riallestire a distanza di pochi anni gli stessi titoli, si decide di risparmiare sull’operazione più ambiziosa messa in campo nelle ultime stagioni, forse perché si sa che l’opera non verrà mai ripresa. La decisione suona male per un titolo che necessita per sua stessa natura della componente scenografica e registica, ma tant’è, sul lato allestimento si è più disposti, soprattutto di questi tempi, a transigere. Il risultato pare essere stato degnissimo quindi la mia obiezione si limita alla dichiarazione di principio. Molto meno è dato transigere sul piano del cast, perché allora il senso stesso della ripresa viene minato alla radice, come di fatto è stato.
La bacchetta di Villaume aveva già dato ampia prova di sé col Crociato in Egitto e forse era il caso di rivolgersi altrove. Ad una direzione piatta, pesantissima e noiosa nei primi due atti, capace di sfruttare solo in parte la messe di spunti e suggestioni cromatiche e ritmiche dello spartito meyerbeeriano, Villaume ha unito una buona dose di rozzezza e grossolanità nel praticare tagli che hanno finito per snaturare l’opera. I tagli, sia che vengano determinati dal budget vocale che da esigenze di tempi o altro, non possono devastare un titolo sino a renderlo incomprensibile e squilibrato nelle relazioni tra le parti come nell’architettura generale. E qui, per ragioni diverse, si sono scempiate arie, parti di numeri e cassati altri per intero andando ad intaccare profondamente l’equilibrio degli ultimi due atti in particolare. Con Mancini, rincorrendo all’impazzata Villaume su e giù per lo spartito, ho annotato tagli ( e non è detto che non ci sia sfuggito qualcosa) dei duetti Nelusko Selika e Vasco Selika all’atto II, don Pedro Vasco all’atto III, Vasco Selika all’atto IV e, clamoroso, l’omissione completa di quello al V atto tra Selika e Ines, che ha squartato di fatto l’ultimo atto. E’ intervenuto variamente sugli ensemble ed i concertati di atto I ( assai ampio in questo caso), atto II dopo il duetto Vasco Selika ; parte della scena tra Nelusko, Don Pedro e Vasco, il coro e parte di ciò che segue il duetto Don Pedro Vasco all’atto III, idem nella preghiera con coro di Ines, integralmente i balli all’atto IV, e parte del finale dell’opera Nelusko coro. Sulle arie si è poi consumato, al pari dell’omissione del duetto femminile del V atto, l’altra violenza di questa edizione da Bignami meyerbeeriano, sul finale della morte di Selika e sulla parte di Nelusko, che di “Figlia di regi” ha clamorosamente eseguito meno che un moncherino di circa 90 secondi ( grosso modo la prima sezione, tagliando quella centrale e la ripetizione ), mentre nell’atto IV è stata tagliato l’allegro molto moderato della grande scena. I 78 giri sono assai più integrali! Una serie di sforbiciate esagerate, molto gravi su un’opera come questa che esige ancora una struttura con i da capo e le code, incluse quelle dei concertati, carichi di forza espressiva e significato formale e drammaturgico ben precisi. Villaume ha agito in parte per libera scelta ma in massima parte per soccorrere un cast inadeguato, assemblato con leggerezza dalla d.a. veneziana.
La protagonista prescelta ( immagino nemmeno audizionata ), signora Simeoni, era chiamata ad un compito immane, superiore alle sue esigue forze vocali e tecniche. Voce povera di armonici, sonora solo in zona centrale, sorda nei gravi ed incapace di salire al registro acuto, perennemente in debito di ampiezza, di qualità di emissione, di legato, la signora Simeoni ha dovuto per forza esimersi da un’esecuzione che si approssimasse all’integralità. Che per consentirle di cantare il finale, anche scorciato e per altro indegnamente cantato, si sia dovuti arrivare all’elisione del duetto precedente, è cosa gravissima, che bastava ed avanzava per sostituire la cantante ( e con chi poi?). Se il pubblico ha accettato la sua prova è stato per sostanziale indifferenza e misconoscenza del ruolo, al pari di chi ha effettuato la scelta ( non dimentichiamoci che nei fori si inneggiava al duo Kunde Pratt in Africaine, pensando che il soprano australiano cantasse Selika ). Andare a cercare la protagonista di Africaine nelle schiere dei mezzosoprani perché nominali mezzosoprani come la Verrett, la Bumbry o la Norman hanno vestito i panni di Selika, è stata la prima tra le assurdità. Se mezzosoprano aveva da essere , doveva essere tecnicamente ferrato per reggere le salite agli acuti ove Meyerbeer prescrive si sappia fare tutto ed essere dotata di altro strumento naturale. Ma Selika è e rimane soprano, alla Arroyo tanto per capirci, capace di scendere e dotata di voce corposa. Si cerca tra i mezzi perché oggi i soprani non sanno cantare nel centro, per incappare poi in mezzi che sono tali solo perché nel registro superiore, cui in realtà apparterrebbero, non sanno cantare ( vedi la filastrocca moderna del soprano Colbran ).
Africaine non si fa senza Selika, ma nemmeno senza Nelusko. L’opera è rimasta quasi un anno in cartellone senza che questo ruolo fondamentale e molto difficile risultasse affidato a qualcuno. Sulla parte di Nelusko la forbice di Villaume ha dovuto agire oltre la decenza, ripeto, trasformando una delle arie più straordinarie ed affascinanti mai scritte per baritono come “Figlia di regi” nell’abbozzo del motivo melodico oppure cassandole come la sezione principale di quella del IV atto. Taccio poi l’esecuzione dello spettacolare “Adamastorre re dell’onde” offerta dal signor Veccia che rivestiva il ruolo. Per lui vale la stessa considerazione fatta per la signora Simeoni. O meglio, che se non si hanno interpreti adeguati per questi due ruoli, l’opera non si fa.
Diverso il caso degli altri due protagonisti. Jessica Pratt aveva tutto sulla carta per essere una grande Ines. Le sono mancati da una parte, la musica: Villaume ha trasformato il suo personaggio in una comprimaria, svuotando il ruolo di ogni significato. La signorina Pratt poi ce ne ha messo del suo, cercando una voce larga e gonfia al centro che per radio pareva pure oscillare, come già abbiamo sentito accadere con altri cantanti alle prese con il pompaggio della propria voce, tanto da perdere il focus degli acuti. Ne è uscita un ‘esecuzione insignificante dell’aria iniziale, che sarebbe tutta incentrata sulla dolcezza ed il lirismo, cantata con voce stiracchiata e sgradevole, perfezionata da una cadenza assurda e per nulla pertinente alla vocalità del personaggio ed all’atmosfera che esso emana, con un iperbolico tentativo ( non riuscito) di trillare su re sopracuto per poi salire al fa 5, appena toccato, una notina stridente di genere “ultrasonico”, messa lì per compiacere i suoi fans ma non certo Meyerbeer. Virtuosismo inutile che ha peggiorato le cose e che la bacchetta non avrebbe dovuto concedere perchè adeguata alla Navarra degli Ugonotti forse ma non alla assai più lirica e per nulla acrobatica Ines. La Pratt ha fatto sentire cose alterne al concertato II, acuti ora saldi ora meno, per poi eseguire abbastanza bene ma no senza fissità la preghiera col coro. Non abbastanza comunque per la sola voce del cast che aveva tutte le carte in regola per primeggiare, arte nella quale è ben abile il signor Kunde. Altra stoffa, altra e precisa cognizione di ciò che si fa in ogni ruolo, altra esperienza. Ha governato il suo pesante Vasco con una certa facilità in tutta la zona centrale, meno sul passaggio e negli acuti ove ha mostrato la corda e l’età. Rispetto alla precedente prova verdiana in Otello mi è parso meno al limite, perlomeno sino all’aria dove, dopo che il d.a.di Fenice lo aveva indicato alla radio come la reincarnazione di Francesco Tamagno (!), il destino ci ha messo del suo, chiudendogli la benzina sul più bello. L’aria è stata davvero imbarazzante, molto meglio il cabalettone, eseguito integralmente. Ha avuto grande forza declamatoria, un bel senso della frase, ed è stato aiutato dai tagli, in particolare quelli di parti concertate davvero massacranti. Peccato per qualche stonatura e nota sforzata di troppo ai duetti con Selika, soprattutto il secondo ove è arrivato stravolto dalla fatica . Nonostante il calo di rendimento vistoso al quarto atto da cui non si è più ripreso, ha fornito la prova migliore e più pertinente di tutte quelle in campo.
Morale della favola.
La Fenice si è lanciata in un’operazione gigantesca, al di sopra delle sue forze ma anche al di sopra dello status del teatro lirico odierno. La riproposta, come già in occasione del Crociato, è riuscita a convincere il pubblico che Meyerbeer non è un gran musicista, fornendo la misura del fallimento poiché si tratta di deduzione completamente antistorica. Se questi titoli meyerbeeriani sono stati rappresentati sempre meno, o meglio, se le riprese moderne di Meyerbeer sono state legate a nomi di grandissimi cantanti, dalla Horne, alla Sutherland, alla Arroyo, alle Verrett, a Ramey, alla Anderson etc..mentre nei dischi antichi sono stati sempre i cantanti “mitologici” ad inciderlo perché erano i soli ad eseguirli in teatro, è chiaro che il musicista non può essere alla portata di tutti ma destinato ad episodiche apparizioni, quelle dei cantanti fenomenali. Storpiare un gigante affidandolo a cast non all’altezza non è cultura, ma fraintendimento e liquidazione di un compositore che, al contrario, può solo essere gestito dai fenomeni e che con il moderno fare tanto per fare, o millantare di fare, non c’entra nulla. Questo è il GRAND OPERA’!
Giacomo Meyerbeer
L’Africaine
Atto II
Sur mes genoux – Antonietta Stella, dir. Eve Queler (1972)
C’est bien…En vain leur impuissante rage…Combien tu m’es chère – Richard Tucker & Antonietta Stella, dir. Eve Queler (1972)
Atto III
Pays merveilleux…O Paradis…Conduisez-moi vers ce navire – Veriano Luchetti, dir. Riccardo Muti (1971), Richard Tucker, dir. Eve Queler (1972)
Atto V
Là-bas, sous l’arbre noir…Fleurs nouvelles…Ciel! C’est lui!…Avant que ma vengeance – Martina Arroyo, Evelyn Brunner, dir. Gerd Albrecht (1977), Miwako Matsumoto, Franco Bonisolli, Grace Bumbry, dir. David Atherton (1981)
D’ici je vois la mer – Grace Bumbry, Silvano Carroli, dir. Peter Maag (1978)
Chiaro, chiarissimo, equilibrato e molto convincente. Grazie
Una esecuzione che intende farsi rispettare deve attirare l’attenzione anche di chi la ascolta alla radio…Scusate ma ho faticato molto ad attendere che finisca. La Monotonia dell’ascolto, la inutilita’ di questa esecuzione la dobbiamo anche alla qualità depressiva del direttore. Vale quì il detto di Sandra Mondaini: “che barba, che noia”
Mai ascoltata dal vivo da me nota più sgradevole, strozzata e raccapricciante di quella emessa da Kunde all’attacco di “O paradiso!”
Buonasera a tutti quanti:) Questo è il mio primo post quindi mi sento un poco in imbarazzo… dopo vari anni che vi leggo assiduamente (nel senso che mi collego anche più volte al giorno per leggere i vostri articoli, le discussioni interessantissime, nonché asentire gli ascolti, nel bene e nel male, sempre illuminanti ed educativi) ho deciso di registrarmi nella speranza di partecipareal blog, nel mio piccolo e dal basso della mia limitata esperienza
Giusto per presentarmi sinteticamente, mi chiamo Luca, ho 21 anni, studio lettere classiche a Venezia, amo l’opera e prendo anche qualche lezione di canto anche se so che non diventerò mai un grande cantante:) Ah, ho scleto un nick rossiniano dato che Semiramide è una delle mie opere preferite e Rossini il mio compositore del cuore:)
Premettendo che mi trovo complessivamente in accordo con l’articolo sull’Africaine, volevo lasciare anche qualche impressione sulla recita cui ho assistito sabato sera a Teatro. Lo spettacolo nel complesso è stato gradevole dal punto di vista scenico, nulla di straordinario, ma aveva il pregio di essere abbastanza chiaro, tanto da riuscire a seguire una trama che è parecchio ingarbugliata. Personalmente ho trovato l’orchestra un poco disordinata e il direttore non mi è parso sfruttare il potenziale musicale della partitura: pur non conoscendo affatto l’opera si percepivano le belle idee del compositore e, purtroppo, i tagli che credo siano stati copiosissimi. Mi ha infastidito soprattutto il vivace finale del primo atto in cui l’orchestra copriva letteralmente coro e solisti… non so per radio, ma a teatro davvero si sentivano solo gli orchestrali.
Sul versante canoro Kunde mi ha francamente impressionato: era la prima volta che lo sentivo dal vivo e ciò che colpisce è una voce squillante, “grande” e non secca come appare in talune registrazioni che possiedo. Secondo me ha svolto un ottimo lavoro anche se alla fine la stanchezza stava per prendere il sopravvento.
La Pratt mi è piaciuta, ma meno rispetto alla Lucia e alla Sonnambula… lei canta bene, ma sembrava poco convinta di ciò che faceva (forse perché, a quanto ho letto, il suo ruolo è stato tagliatissimo), inoltre alcune prodezze non sono riuscite benissimo, ma, probabilmente, si rifarà alle repliche. Taccio sulla cadenza di cui si parla anche nell’articolo… era davvero bruttissima e senza senso, oltre che imperfetta.
Qui finiscono le note positive in quanto Nelusko era pessimo e molto affaticato: semplicemente affogava in una parte troppo al di sopra delle sue possibilità. La presenza scenica e la bella figura non bastano se manca la voce…
La Simeoni mi ha colpito perché è riuscita ad arrivare alla fine dell’opera viva… io mi chiedo come faccia a cantare Azucena ed altri ruoli pesanti da mezzo quando è palese che la signora sia un soprano! Il problema principale è che la voce, di per sè provvista di timbro gradevole, e la personalità sarebbero perfette per Zerlina o Despina, non certo per un ruolo che dovrebbe essere altamente drammatico. Detto ciò, le note le fa, non sempre bene, ma almeno non disturba l’ascolto generale e non fa soffrire chi ascolta! Cerco di vedere il lato positivo…
Ammetto di essere uscito felice da teatro perché ero curioso di sentire per la prima volta quest’opera, che, nonostante tutto, mi ha affascinato Ho ordinato su amazon il live con la Verrett e Domingo per approfondire l’argomento, oltre ad aver seguito con attenzione i brani da voi postati nei giorni precedenti.
Mi scuso se sono stato troppo prolisso o noioso… e sì che mi ero ripromesso di entrare quasi in punta di piedi! Spero mi perdoniate:)
benevenuto!!! Gran bel post come debutto….a presto
Benvenuto, Luca.
Grazie mille ad entrambe
Cara Grisi, ho sentito solo l’ultima parte della diretta, da dopo “O Paradis” in poi per intenderci; più che tagliata l’opera è stata castrata! Quando non mancavano, i pezzi rimasti spesso erano ridotti ad un riassunto irriconoscibile, illegibile. Ridicolo! Dici bene quando scrivi che i 78 giri sono più integrali di quel che si è sentito. Andrò a teatro, perchè quando capita di ascoltare una rarità simile val la pena comunque pagare il costo del (caro!) biglietto, peccato però, quando mai riaccadrà l’occasione di riascoltare in teatro “L’Africaine” di Meyerbeer senza tutti questi tagli?
“Più che tagliata, l’opera è stata castrata”. In otto parole, la sintesi perfetta di una serata grottesca.
torno adesso dalla Fenice. Forse al termine dell ascolto su radio tre dell anteprima abbiamo prematuramente recitato il de profundis ad una produzione che ibvece e’ risultata interessante e ha riscosso un franco successo. Come speravo Kunde si e’ riscattato e ha nascosto bene l usura della sua voce. Simeoni ha questo registro acuto incompiuto su cui pero’ puo’ lavorare. Pratt alterna anche questa sera. Cose notevoli ampie alternate a suoni se non opachi offuscati e cadenze molto al limite. E’ mia convinzione che al livello di una Andrerson (lo dico ai neofiti per avere un termine d paragone) non c arrivera’ mai. Spettacolo interessante che non si puo’ definire minimalista e che il pubblico ha molto apprezzato. Direttore poco brillante e sicuramente non un fulmine d guerra.
Davvero Kunde è riuscito a cantare almeno gradevolmente “O paradiso”? davvero è riuscito a modulare almeno un poco la voce nel duetto con Selika (urlato in modo rozzo e brutale alla prima)? Stento a crederci. Nella mia lunga carriera di ascoltatore mi è capitato di ascoltare bravi cantanti in serata NO (una su tutti la Kabaivanska) ma mai che scendessero sotto il limite della decenza come è capitato a Kunde sabato. Tre acuti sparati, metallici e brutali, non salvano certo la serata!
Dalla radio più che metallici sembravano legnosi, gridati, privi di squillo. A me dalla radio non è piaciuto neanche un po’, so per averlo sentito dal vivo che la voce è voluminosa, ma questo non basta a farmelo piacere. Fatico davvero a definirlo il migliore della serata, posto che in serate simili non di “migliore” si dovrebbe parlare, ma di “meno peggio”. Forse la sua, rispetto ai colleghi, è la prova con più carattere (se così si può definire l’essere riuscito ad arrivare alla fine per puro miracolo: c’erano le note, brutte e faticose, e non altro). Ma considerando che in nome dell’ortodossia tecnica ho e abbiamo fatto le pulci a cantanti messi cento volte meglio, resta comunque un orrore vocale.
ottima puntualizzazione. diciamo che era quello che sapeva cosa cantava.ma era tutto sforzato, fibroso e duro…..una voce vecchia insomma
allora Billy la voce di Kunde da quando si é cimentato in ruoli spinti é, era e sarà sempre legnosa. Alla soglia dei sessant’anni é sicuramente una voce a tratti usurata, ma non ha connotati di senilità che sai quanto infastidiscono.-
Ho verificato il quarto atto. Credo che con molta umiltà il nostro Greg abbia meditato sulla recita del 23. Si sia appropriato meglio della parte e grazie alla sicurezza raggiunta ed ai due giorni di riposo e sia riuscito ad evitare quegli attacchi terribili nell’aria, nella cabaletta e nel duetto di cui tutti siamo rimasti inorriditi (cfr. chat del 23.11 dove Grishalla e tutti i fedelissimi erano schierati in uniforme da combattimento).-
E’chiaro che nel duetto, cantato a mezzavoce, non era limpidissimo nell’emissione, ma, scegliendo di procedere a lunghe frasi e limitare al massimo le riprese di fiato, non é mai rimasto a corto di polmoni e la sua intonazione é stata buona se non buonissima. Solo in un paio di salite alla nota tenuta (che lui da belcantista cerca sempre di lavorare) c’é stato qualche squilibrio, ma in una recita dal vivo ci sta. L’importante era arrivare fresco alla fine, cosa che all’anteprima non si era verificato. Aggiungi che due o tre si naturali ampi e squillanti e di bel colore (come descritti da Ninja92) non sono mancati e capirai perché platea palchi e loggione non smettevano di applaudirlo e gridargli bravo.-
caro alberto, ti faccio presente che la voce di kunde è TUTTA fuori fuoco…..e se non è un tratto senile non riuscire a tenercela, vedi tu. è tutto duro e legnoso…lasciamo perdere che è meglio, sennò mi tocca dire cose che non avevo voglia di dire anche in recensione
parlando sul serio per me la voce con tratti senili e’ diversa dalla voce usurata. Non basta dire che una voce dai tratti senili e’ una voce usurata. Ma tu vuoi darmi sistematicamente torto anche quando non c’e’ bisogno…
Albertoemme dice che anche dopo i 60 anni non è detto che la voce sia usurata… mi può spiegare allora cosa è quel mix di niente a nome Palcido Domingo, credo sia circa 71 ?
Aggiungo qualche mia considerazione dalla performance di ieri sera, anche se la recensione ricalca abbastanza bene quello che è successo.
– il quarto e quinto atto sono stati massacrati da tagli pesantissimi che hanno snaturato e rovinato la già labile trama (il duetto Ines-Selika tagliato!avrei anche ascoltato volentieri i balletti ieri sera);
– Kunde il migliore in campo: ha resistito, peggiorando lentamente, fino alla fine. Ha cantato l’aria del quarto atto in maniera migliore della prima radiofonica, ho sentito alcune note davvero belle (diciamo che frequentando i teatri da pochi anni ho avuto poche occasioni di sentire note belle dal vivo ehm ehm…);
– Jessica ha eseguito la sua aria di ingresso molto bene, ha eseguito una cadenza molto più composta di quella sentita per radio. Dal punto di vista del canto suoi sono stati i momenti più belli: sembrava essere la voce meno udibile, ma certamente quella emessa meglio, a mio parere.
– Su Nelusko (Veccia) aveva ragione miguelfleta ad essere molto preoccupato. Male dall’inizio alla fine.
– Simeoni non ha sbagliato nulla ma neanche ha mai risvegliato la mia attenzione (a parte quando cantava male e forte alcuni acuti).
– l’allestimento è piaciuto nei primi tre atti, poi si svuota (tutto si svuota dal quarto atto, palco e canto), come se avessero iniziato il lavoro con energia e non fossero riusciti a terminarlo.
– il direttore raramente è riuscito a dare respiro alla musica, peccato.
poco altro da aggiungere, secondo me bastava un poco di lavoro (e qualche voce) in più per rendere onore a meyerbeer.
marco
Cari amici del Corriere, anch’io ero alla Fenice ieri sera e sottoscrivo quanto detto da Marco. Sarei però più duro nei confronti del direttore, assurdo nell’alternare momenti in cui il suono era trattenuto allo spasimo e senza alcun corpo, e altri di fracasso totale.
Il dubbio con cui sono uscito da teatro è: se proprio si voleva celebrare Meyerbeer (cosa giustissima), avendo a disposizione la Pratt non sarebbe stato più intelligente scegliere un’opera più fattibile con un soprano leggero come protagonista? Il pubblico sarebbe impazzito e si sarebbe rispettata di più la musica, magari tagliando ugualmente qualcosa ma di certo senza dimezzare l’opera come invece è accaduto. Triste anche vedere com’è stato sprecato il lavoro immane dei ragazzi dell’Accademia, che hanno realizzato le scene. Mi riferisco soprattutto al veliero del terzo atto, durata totale trenta minuti cronometrati.
Enrico
Caro Enrico/Schaunard,
Sono d’accordo a grandi linee su cio’ che
hai scritto riguardo alla rappresentazione
di iersera. Sarei ancora piu’ severo pero’
con il direttore d’orchestra, responsabile
di questa falsa riproposta. Falsa. E non
stiamo piu’ a dilungarci sulla falsita di questo
spettacolo, che gia’ e’ stato detto….
Vorrei aggiungere a quel che hai scritto,
che la Pratt di iersera, non sarebbe stata
in grado di far meglio di quel che ha fatto,
non e’ una questione di ruolo secondo me,
perche’ Ines, sempre secondo me, e’
quanto di meglio questa svogliata, alterna,
dotata, noiosa e florida Signorina, possa
cantare : il ruolo sembra scritto per la
sua, (purtroppo per lei ed anche per me,
che l’ho sentita cantare non bene, ma benissimo), inconcludente vocalita’.
Sono d’accordo con Aureliano riguardo a Kunde. E d’altro non c’era che il disastro, a partire dai due ruoli protagonistici di Selika
e Nelusko, autenticamente storpiati a livello
vocale. Dell’emissione del basso che
cantava la parte del padre d’Ines, preservero’ eterno ricordo!!!! Mamma mia!!
munito di un biglietto d solo ascolto sono tornato anch io il 26. Come dice Aureliano il quarto atto d kunde e’ stato molto faticoso. Non so quanto sia stato applaudito perche’ gli high light del quinto atto me li sono risparmiati…cmq meglio il 23. Confermo anche la cadenza della Pratt. Che ha in buona sostanza eseguito una scala d picchettati poco piu’ che accennati. Vorrei invece spezzare una lancia in favore del baritono. Ha una sua coerenza e compiutezza che non mi sento d sottovalutare prima di averlo risentito in parti dove ha maggiore concorrenza.
cari albertoemme e miguelfleta… aureliano o aurelio? no perché aureliano potrebbe offendersi eh?
Non credo si offenda. Siete entrambi magnifici.
rettifico…ieri era il 29.11 e la recita migliore era il 26.11…il 23 era la terribile anteprima
Adorabile come sempre Lily :-x,
comunque, per buon ultimo sono andato anch’io alla Fenice, ieri, ultima replica, primo cast.
Rispetto alla diretta radio del 26 e allo streaming della recita del 29 Kunde se l’è cavata meglio, in realtà quello che ho sentito io è un Kunde che nel primo atto spinge tanto, ma tanto da arrivare addirittura corto di fiato a fine di certe frasi, che riesce a forza di spinta tenere la voce a fuoco dal mezzo forte in su; appena alleggerisce e tenta una mezza voce esce aria e il timbro diventa legnoso, normale che si stanchi e peggiori man mano che l’opera va avanti. Il Kunde che ho sentito ieri aveva ancora acuti saldi (ma passaggio difficoltoso), un centro svuotato e legnoso e un registro basso molto problematico. Non a caso le parti cantate peggio della serata sono state la parte iniziale dell’aria del quarto atto (con brutto e sporco attacco di O Paradis), e il duetto Vasco/Selika (sic… forse musicalmente il brano più bello dell’opera :’-( ), per Selika invece non mi spiego la scelta di affidare il ruolo a un mezzosoprano o presunto tale, Selika deve essere soprano, soprano vero, sarò strano io ma come Selika io trovo fuori ruolo anche una Verret nonostante cantasse benissimo e potesse vantare un registro acuto di impressionante compattezza. Jessica Pratt ridotta dai tagli a comprimariato ha cantato bene, non ha pasticciato la cadenza, ha infilato un paio di sovracuti ben piazzati, ha computato la parte correttamente, nulla più. La voce rispetto un anno fa mi è sembrata inspessita, un po’ gonfia, spero di sbagliarmi. Un appunto, l’opera prevede in parti minori una pleiade di bassi, si è dimostrato ancora una volta in quale stato versi la categoria, dei tanti salverei solo Ruben Amoretti come sacerdote di Brahma.
d’accordo al 100 per 100. c’eravamo, e devo dire meglio della radio, ma i difetti son quelli. terrificante però la prova di Villaume che ha massacrato l’opera con una direzione indecente, pesante, noiosa all’inverosimile. quel primo atto gridava vendetta e meritava di essere contestato. davvero orrendo!..molto peggio lui dei cantanti..
una sola nota: per me l’opera è durata…1 secondo! per me è fantastica, e vola via con una presa straordinaria…se questa è un ‘opera brutta, allora….cantata bene, allestita con dovuizia di mezzi e diretta da un direttore vero deve essere una meraviglia assoluta…
vero 4 ore volate! con le pause gestite meglio si potevano evitare tanti tagli e non propinare al pubblico un quarto e quinto atto da riassunto Bignami… L’unica altra esperienza che ho di Meyerbeer in teatro è la Dinorah allestita a Parma oramai tanti anni fa e che ricordo come l’opera più noisa della mia vita, ma l’Africaine no, opera bella, decisamente piacevole.
Non potrei essere più d’accordo! Sarà che mi sento davvero vicino a questo genere di opera, ma io davvero non mi sono accorto che lo spettacolo è durato 4 ore. E non avevo mai sentito questo capolavoro prima della recita in questione! Avrei potuto senza alcun problema ascoltarla per intero e senza pause:)
Lily cara, mi sono accorto che all’inizio del mio intervento mi è scappata per errore una faccina arrabbiata, Non sia mai! scherzi della tastiera, anzi! voleva essere un bacio