In chiusura della stagione 2012-13 il Filarmonico propone una nuova produzione dei Capuleti belliniani, titolo assente da circa tre decenni dalla città scaligera. Circostanza curiosa, ma tutt’altro che inspiegabile, per un’opera strettamente imparentata con la produzione seria rossiniana (anche al di là delle varianti predisposte dal Pesarese per la sortita di Romeo) e in quanto tale collegata a filo doppio (anzi, triplo, considerando, accanto alla coppia protagonistica, la parte del tenore) con le alterne vicissitudini della cosiddetta Rossini Renaissance. La vicenda degli sventurati amanti obbliga a un autentico tour de force le primedonne, chiamate a esibire in pari misura virtuosismo e varietà di accenti, e il direttore d’orchestra, che non può limitarsi a battere la solfa, ma deve sostenere e accompagnare adeguatamente il canto, sostenendone i pregi e occultandone, ove possibile, i difetti, e trovare al tempo stesso colori orchestrali vari e adeguati alle diverse situazioni, ora patetiche, ora eroiche, ora autenticamente tragiche, evocate dal libretto di Felice Romani.
Ben poco di tutto questo abbiamo udito in Verona. Anzi, quasi nulla. A partire dalla direzione di Fabrizio Maria Carminati, che, al netto di una qualità orchestrale superiore alla maggior parte delle compagini dei nostri teatri (non solo di quelli di provincia), cava dal golfo mistico monotoni clangori (introduzione e stretta del finale atto primo, tempo d’attacco del primo duetto) e marcette da teatro dei pupi (l’insurrezione dei Ghibellini), risulta grigio e piatto nelle grandi scene drammatiche (tutto il secondo atto), ha serie difficoltà nel mantenere la coesione degli ensemble e la coerenza dei tempi staccati (notevole, in questo senso, la stretta del finale primo, risolta con pesanti sfasamenti fra solisti, coro e buca). Alcuni sostengono che, nel repertorio belcantistico in senso lato, l’apporto della direzione d’orchestra sia giocoforza molto limitato: spettacoli del genere ci rafforzano invece nell’opinione contraria, ché in assenza di una bacchetta, che apprezzi e conosca il canto e le sue esigenze, un titolo come questo, straordinario per invenzione musicale e varietà di situazioni drammatiche, rischia di trasformarsi in un prodotto anodino e ai confini del ridicolo.
Inadeguate le protagoniste. Daniela Pini era stata non più tardi di sei anni fa una plausibile Italiana in Algeri (ovviamente in secondo cast) al Comunale di Bologna, e questo benché la voce fosse non di autentico contralto, bensì, al più, di mezzosoprano acuto. Nei panni di Romeo abbiamo, invece, un soprano lirico, che esibisce in basso suoni gonfi e aperti (e peraltro poco udibili, anche in uno spazio non immenso come quello del Filarmonico), sale con fatica agli acuti e cempenna la coloratura (delle varianti rossiniane al da capo de “La tremenda ultrice spada” viene peraltro realizzata una versione, in ogni senso, mignon). I duetti d’amore evidenziano la difficoltà a cantare piano e legato in zona centrale, mentre la sfida vede la cantante arrabattarsi, ancora una volta, maldestramente con le previste agilità di forza. Un poco meglio, anche perché la natura è relativamente più fresca, Mihaela Marcu, voce di discreto tonnellaggio in zona centrale, malferma in basso, piuttosto agra e di faticosa intonazione sui primi acuti (notevole per contro, benché fisso in chiusa, il mi naturale inserito a conclusione della seconda aria). Come per la collega, il canto fiorito (a partire dalle “faci ferali” al primo recitativo) è un mistero ben poco glorioso; un poco meglio il legato, anche se i tentativi, generosamente profusi, di smorzare e rinforzare i suoni non sempre si traducono in esiti piacevoli e musicalmente coerenti (davvero brutto l’”Ah” di derivazione baroccara con cui Giulietta si ridesta al finale).
I bassi (Paolo Battaglia quale Capellio e Dario Russo nei panni di Lorenzo) risultano slaveggianti nell’emissione e caricaturali nell’espressione, al punto da far pensare rispettivamente a un Bartolo e un Basilio da terzo cast areniano (di quelli per le recite post ferragostane), mentre Shalva Mukeria (Tebaldo), al solito facile e squillante in zona medio-acuta, brilla nell’aria, languida e sfumata a dovere, ma risulta poco sonoro al duetto con Romeo, complice la tessitura decisamente bassa. In altri tempi, ma soprattutto con altre bacchette, si sarebbe potuto ovviare a questo inconveniente ricorrendo a più che opportuni, doverosi trasporti, ben più consistenti e pregnanti del si bemolle (pur notevole) che conclude la scena.
Lo spettacolo di Arnaud Bernard, accolto, nel consenso generale del non foltissimo pubblico, da parche contestazioni (ancor più flebili quelle indirizzate a Carminati), parte da un’idea, o come si dice oggi, concept già visto e sfruttato in altre occasioni, quello dello spazio teatrale/espositivo che, nella notte, si anima e ospita i fantasmi delle opere d’arte che lo popolano. Medea e Lucia di Lammermoor all’Aslico, Demetrio e Polibio al Teatro di Corte a Napoli sono i primi allestimenti che vengono in mente, tanto per rimanere nell’alveo della provincia italiana. Purtroppo la realizzazione di questo spunto è claudicante almeno quanto la parte musicale, perché i personaggi, in sontuosi costumi d’epoca, si muovono come burattini impazziti: Romeo entra in scena saltellando come Cherubino o il paggio Oscar, Giulietta (specie dopo avere assunto il veleno, ma anche al finale primo) sembra una tarantolata, gli amanti passano il tempo a scagliarsi a terra a vicenda, Capellio esprime il proprio disappunto per il comportamento della figlia (che affronta a mani nude parenti e avversari politici) sputandole in faccia (oibò), i coristi si immobilizzano come nel celebre gioco “Un, due, tre, stella” all’avvicinarsi di restauratori e inservienti del museo, utilizzati anche per insipide controscene durante le struggenti introduzioni orchestrali. Per non parlare di soluzioni ben oltre il confine del ridicolo, come il corteo funebre ridotto a un branco di prefiche che assistono comodamente sedute alla sfilata del feretro di Giulietta, i partigiani dei Capuleti che accorrono a una riunione politica come se andassero all’osteria, tra fragorose risate e pacche sulle spalle, o ancora lo spogliarello (castamente celato da un lenzuolo) cui le ancelle di Giulietta obbligano la padrona, impegnata nell’aria di sortita. Se, come dichiara il regista nel programma di sala, l’intento era quello di ottenere “la leggerezza della recitazione e la trasparenza discreta e nostalgica del sogno e dell’illusione”, la realizzazione fa pensare piuttosto a una farsa rancida, a una parodia dei Capuleti a uso e consumo di un pubblico ormai non più avvezzo non solo alla meraviglia del belcanto, ma all’evocazione di un mondo ideale, distaccato da ogni dato greve e naturalistico.
Gli ascolti
Bellini
I Capuleti e i Montecchi
Atto I
Sì, fuggire: a noi non resta – Martine Dupuy e Cecilia Gasdia (1983), Daniela Pini e Mihaela Marcu (2013)
Ormai le variazioni di Rossini per “La tremenda ultrice spada” (e immagino anche le cadenze dell’aria), sono all’ordine del giorno: le eseguono tutte e sempre. Moda, forse? A mio gusto stan bene se cantate da una primadonna, magari in sede concertistica, ma le ho sempre trovate “stonate” nel corpus della delicata opera belliniana… Se poi vengono pure “scorciate” e storpiate allora oltre al danno vi è pure la beffa!
Qui la beffa era applicata in toto a quanto previsto dall’autore.
saranno anche all’ordine del giorno ma nessuno le esegue: le cemmpennano, le arronzano, le sgallinano, le sbraitano, le storpiano, le morsicano….non ne hanno nemmeno per eseguire quello che è scritto da bellini….fa parte del moderno parco delle velleità, come il mi bem al concertato dell’aida, i bis non richiesti, effettini ed effettoni vari….cantanti velleitari e presuntuosi
Appunto…visto che non sono necessarie, evitino di farle (che hanno senso solo se cantate alla perfezione).
giulia ci sono intenditori velleitari e presuntuosi, consenti che ci siano anche i cantanti velleitari e presuntuosi
Meriteresti la risposta di Fedora.
Ho ascoltato prima la coppia Pini-Marcu,
ma Tamburini caro, vabbe’ suoni gonfi,
vabbe’ coloratura arruffata, vabbe’ tutto
quello che vuoi, ma queste prima di tutto
stonano, stonano. E non si capisce un articolo,
non dico un verbo, dico un articolo.
E poi ho riascoltato le altre, la voce di
Fiorenza che e’ una meraviglia, la classe della Martine
e di Graziella, il fiato della Scotto, e l’emozionante
canto di Giulietta Simionato, che bello.
Per me, su tutte, il timbro, il colore,il pathos della Simionato!
https://www.youtube.com/watch?v=oNa8z9i2uW8
C’è qualche cosa che non torna: Horne,Cuberli,Merritt,Blake,Dupuy=rossini reinassance, Oggi cosa è rimasto? il rudere diroccato del festival di Pesaro. Su altro pianeta vari cantanti ci hanno riproposto Bellini come si deve e i Puritani, e il Pirata hanno oggi alcune edizioni storiche…ma…dopo pochissimi anni siamo nuovamente al punto zero sia su Bellini che in Rossini, tralasciando il Donizetti di cui esiste un festival fantasma. Domanda: Cosa è successo?