A cinquant’anni di età e dopo venti di carriera, Augustarello Affre sbalordisce per l’ampiezza e la sonorità dei centri, per l’omogeneità della voce in tutta la gamma e più ancora per la facilità nel reggere una tessitura che, soprattutto nella seconda parte del brano, insiste tra il fa diesis e il la diesis acuto, zona tra le più spinose per la voce di tenore. Del resto, legare, sfumare e fraseggiare in quella scomodissima fascia, e non già emettere suoni più estremi e isolati, è una delle caratteristiche peculiari del tenore contraltino (quello autenticamente grande, almeno). Altri lamenteranno che Affre sia, al pari di un Tamagno o di un Escalais, “poco interprete”, monumentale nell’esecuzione e nella qualità strumentale della voce, quanto inerte nell’accento. Possiamo anche riconoscere il limite, che nei titoli del grand-opéra è del resto ben poco rilevante, ma faticheremmo a rinvenire i presupposti di una grande interpretazione, o anche solo di una maggiore varietà di fraseggio e di colori, in altri cantanti, che per sistema giocano a imitare la rana che volle farsi bue.
Un pensiero su “En attendant l’Africaine II. Augustarello Affre”
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mentre riascoltavo Affrè mi sono posto la domanda se oggi si presentasse questo gigantesco contadino francese come pure il moravo slezak la gente guarderebbe quei chili in eccesso (affre oltre tutto ai suoi tempi passava per bello in raffronto ad escalais) o la qualità del canto e dell’interpretazione?