Merita appena due righe in cronaca, e forse neppure quelle, l’Otello proposto dal Teatro Alighieri di Ravenna, a coronamento della trilogia Verdi-Shakespeare realizzata in collaborazione con il Ravenna Festival, auspice la co-direttrice artistica della manifestazione estiva, Cristina Mazzavillani, qui in veste di regista. E tanto per sgombrare il campo da possibili equivoci, diciamo subito che la regia era la cosa migliore dello spettacolo, assolutamente tradizionale pur nella parsimonia dell’allestimento scenico (forse stimolata da oggettivi limiti di budget), funestata solo a tratti (finale terzo) dall’ormai frusta abitudine di utilizzare a ogni costo, e in modo “creativo”, gli immancabili figuranti (nel momento in cui Otello atterra Desdemona, cadono “spontaneamente” a terra anche molti degli astanti). La direzione di Nicola Paszkowski, alla testa di un’Orchestra Cherubini decisamente acerba per una partitura di questo calibro, funziona nelle scene in cui predomina l’elemento lirico o patetico (primo duetto, inizio del quarto atto) e, almeno in parte, in quelle di colore (al netto degli “svarioni” corali nel quadro in cui Desdemona riceve l’omaggio del popolo), soccombendo fatalmente nei passi concertati e più in generale ovunque sia necessario esprimere grandeur e magniloquenza (il risultato è sempre e solo baccano e confusione). La Desdemona di Diana Mian dà prova di generosa natura, ma anche di note medio-acute fisse e spesso prossime al grido, mentre il baritono Matias Tosi, annunciato indisposto all’inizio della rappresentazione, e che di fatto ha ora cantato, ora parlato, ora accennato, ora risolto all’ottava la parte, rammenta in primo luogo a coloro che hanno l’incarico di reggere le sorti dei nostri teatri, la necessità di avere sempre a disposizione, o di potere alla bisogna reperire, un sostituto, almeno per i ruoli di primo piano, quale indubbiamente il perverso alfiere è nell’economia dell’opera. Grande attesa per Yusif Eyvazov, che giunge per la prima volta in Italia ed è già in predicato per cantare Des Grieux nella Manon pucciniana a Roma, al fianco della divina Netrebko, sotto la bacchetta di Riccardo Muti. Grande attesa ma scarso esito, atteso che la voce, di modeste proporzioni anche per una sala non certo immensa come quella dell’Alighieri, fa pensare più a Nemorino che non al valoroso Moro. Se a questo si aggiungono un registro grave vuoto e sordo, un centro artificiosamente ispessito e quindi con abbondante sfoggio di suoni gonfi e duri, difficoltà nel legato e incapacità di produrre piani che non sconfinino automaticamente nel falsetto, acuti faticosi e sovente stonati (come il la bemolle finale del primo atto, mentre il do in “oppure” su “quella vil cortigiana” è saggiamente evitato), e più in generale un progressivo venir meno delle forze, vocali non meno che sceniche, man mano che gli atti si succedono, viene da chiedersi in quali condizioni il giovane Eyvazov giungerà al previsto cimento romano. Ma non è il solo dubbio che circonda quella produzione.
Verdi – Otello
Atto III
Ora e per sempre addio, sante memorie – Nicolai Figner (1901)
visto che il consorte prende esempio da toscanini la signora potrebbe assumerlo da donna carla toscanini, che stava a palazzo durini. Quanto al tenore la macchina del tenore di forza io russia è rotta da cinquanta anni e più!
Che bello! L’Opera in attesa di chiudere definitivamente i sipari, si esercita nella espressione “vorrei ma nol posso” Capisco che molte persone si troveranno disoccupate, tipo i vari Stinchelli, le carle Moreno, i signori Giudici, e novella arrivata la Pier Anna Franini che oggi (24.11) sul Giornale ci delizia su Alfredo della arrivanda Traviata Scaligera. A Donzelli vorrei far notare che se in Russia il tenore di forza non esiste da almeno 50 anni, ora con Kaufmann non avremo più neppure il tenore normale, ma dovremo rassegnarci a sentire le lagne (di canto) di presunti cantanti tipo fritto misto (ten+Bar+birignao) o ex tenori (Domingo) ora baritoni e in futuro non si sa. Allegria!