Musica proibita: Loreley

In questo cAlfredo+Catalani+259381he è pensato come un lungo cammino nell’opera italiana dall’ultimo decennio del XIX secolo sino alle soglie del secondo conflitto mondiale quando altri generi dello spettacolo soppiantarono il melodramma inaugurare con Alfredo Catalani poteva rappresentare la semplicistica occasione per ribadire come il compositore lucchese fosse bravo, stimato dai contemporanei e  nel contempo sfortunato. Una sorta di Vincenzo Bellini di fine ‘800, che chissà che contributo avrebbe offerto al melodramma accodandoci, da un lato, alla stima di Toscanini (padre di Walter e Wally!) e dall’altro ai toni patetici di Puccini, che, parlando del concittadino, diceva “il mi’ povero Catalani”.  Configurerebbe un’immagine parziale pur nell’esiguo spazio del sito cercare  solo il sinfonismo e le piccole cose nella poetica di Catalani.

Loreley non è affatto l’opera dove un soprano, vittima di altro una sorte di renana Medea, eleva l’inno dell’amore infelice, che affidato a Madga Olivero diviene l’inno delle abbandonate sui gradini dell’altare o della quale dobbiamo ammirare un paio di belle pagine sinfoniche.

E’, invece, il prodotto esemplare, di là dall’oggettiva qualità ove mai rilevante nella disamina storica, di un lungo cammino dell’opera italiana prima dei titoli più famosi e sopravvissuti del post melodramma verdiano. Non ravviso ragione diversa dall’ignoranza o la disinformazione nel proporre a cadenza biennale Tosca o Butterfly, tralasciano Loreley. E aggiungo più Loreley di Wally.

Dell’importanza di Catalani doveva essere ben conscio Verdi il quale, molto sensibile ai possibili concorrenti,  non prese parte al diffuso cordoglio per la scomparsa, ma  – ben dopo- ordinò un busto del defunto, che allocò  nella villa di Sant’Agata.

Postumo, tardivo, ma congruo omaggio.

La riflessione, o meglio gli spunti di riflessione riguardo Catalani (1854-1893) partono da lontano precisamente dagli anni ’60 dell’800 epoca del Ballo verdiano, ultima opera genericamente definibile “a cabaletta” e si snodano  attraverso l’esperienza di Ponchielli (1872 Promessi sposi, 1875 Lituani e 1876 Gioconda) e nell’avventura boitiana di Mefistofele (1868-1875)  di cui  un conto è la realizzazione e altro e più interessante il pensiero, che vi sta dietro.

Va anche precisato che la portata del dibattito è direttamente proporzionale all’importanza dell’oggetto: il melodramma, che  dal 1830 rappresentava il genere artistico più fecondo e universalmente attribuito alla cultura italiana.

Per sommi capi gli elementi di questo dibattito

a)      L’ampliamento del repertorio.

Basta scorrerei cartelloni dei due maggiori teatri italiani (Scala e San Carlo) dal 1860 al 1890 circa per vedere  l’autentica invasione di  titoli francesi del genere grand-operà cui  si aggiungeva il Fausto di Gounod, che a rigore grand-operà non è, ma gli va vicino.Invasione lo preciso ben anteriore la prima di Carmen (1879), che con superficialità verrà  identificata come l’inizio del verismo anche in Italia. Come se Carmen sia titolo verista e l’opera italiana dal 1890 in poi solo opera Verista.

I dati parlano chiaro:

NAPOLI, teatro di San Carlo

Roberto il diavolo: 1855-’56, 1862-’63, 1876-’77, 1886-‘87

Ugonotti: 1861-’62, 1877-’78, 1881-’82; 1884-’85, 1887-’88, 1889, 1892, 1898-‘99

Profeta: 1861-’62,1978-79, 1909-‘10

Africana: 1867-’68,1878-’79, 1882-’83,1888-’89, 1907-‘08

MILANO teatro alla Scala

Roberto il diavolo:1846,1870,1873,1886

Ugonotti: 1857, 1859,1864,1869,1870,1877,1882, 1899

Profeta: 1856,1963,1875,1884

Africana 1866,1867,1871,1878,1910

Oggi siamo soliti, sulla scorta delle esecuzioni degli interpreti che si sono avvicinati a Meyerbeer e affini a immaginare questo genere operistico discendente diretto di Rossini.

Al proprio approdo e diffusione italiana Meyerbeer colpì  perché superava l’opera a pezzi chiusi. Interessante l’opinione, di A. Manselli, scuola desanctisiana, lontana da Milano e dall’ambiente scapigliato,  che in “ragione della musica moderna” anno 1859, pag. 102) scrive “ le scene senza strofe cantabili sono quasi pari ad un accentato discorso ed il Meyerbeer è impareggiabile nel dipingere quei quadri in cui predominano la forma discorsiva. L’istrumentazione è eminentemente drammatica”. Facile parlare di melodramma come sintesi. Donde la scontata simpatia della critica di origine desanctisiana. Si comincia a sostenere la superiorità di un genere drammaturgico differente dal melodramma. E’ una delle prime volte in cui in Italia venga nominato -e con favore- il concetto di dramma musicale.

b)      Il dramma musicale

La parola “dramma musicale” evoca nel nostro comune sentire Wagner, reputato inventore del genere, contrapposto al melodramma. Il termine, paradosso, invece vien proprio dall’ultimo  padre del melodramma, che lo utilizzerà in periodo non sospetto ossia nel 1869  con riferimento alla prima esecuzione di Forza del destino (versione di Milano), sotto la guida di Angelo Mariani (che poi diventerà il primo direttore wagneriano in Italia): “sono convinto che i pezzi musicali a solo e a soli siano resi mirabili ma l’opera,m intendi bene l’opera ossia il dramma scenico musicale, non sia stato eseguito che imperfettamente” da “I copialettere di Giuseppe Verdi”, Milano 1913, pag. 619. Salvo poi, sempre Verdi, nel 1879 in una corrispondenza con Arrivabene (Genova 30 marzo) scagliarsi avverso la  “tedeschizzazione” della musica italiana auspicando, in luogo delle società di Quartetti, Quartetti e Orchestra, Società Orchestrali,  l’educazione del pubblico per tramite di Palestrina e polemizzando con Filippo Filippi, mentore di Wagner ed in generale delle opere straniere in Italia. Agli occhi degli addetti ai lavori è la produzione operistica francese la più completa realizzazione pratica di questi ideali. Non dimentichiamo che  la conoscenza diretta di Wagner sarà tardiva e molto  contrastata.

La verità è che gli attori di  questo cammino sono altri ossia

c)      Le case editrici musicali e la critica

Siamo in un’ipotesi felicissima, oggi sconosciuta, in cui gli interessi commerciali divengono stimolo culturale.

A Milano, infatti, nel periodo considerato operavano tre case editrici animavano il dibattito culture con le relative riviste.

“La Gazzetta Musicale” era  editata da Casa Ricordi ossia dell’editore di Verdi e degli autori del melodramma italiano ottocentesco, (in attesa di diventarlo di Puccini)  e sulle sue colonne scrivevano Filippo Filippi (1830-1887) critico musicale del quotidiano moderato e monarchico “La perseveranza” talvolta  vi collaborò Arrigo Boito (1842-1918) con proprie cronache da Parigi.  Nonostante  Casa Ricordi fosse l’editore della tradizione Filippo Filippi fu il primo critico italiano a  seguire le rappresentazioni wagneriane a Bayreuth. A verdi Filippi non piaceva. Ovvio.

Le case editrice e collegate riviste più all’avanguardia furono dapprima l’editore Lucca (o meglio la sua proprietaria Giovannina Strazza Lucca  1810-1894) che editava  “Italia musicale” e deteneva i diritti della maggior parte delle opere francesi ossia Meyerbeer, Gounod, cui si aggiunsero, negli anni’70, Wagner e, poi, gli astri emergenti del secondo ottocento Italiano come Marchetti e Catalani. Fu la prima voce al di fuori ( e tanto) della tradizione rappresentata da casa Ricordi (che, poi, la assorbì nel 1888) e, come vedremo all’intraprendenza della proprietaria si devono le prime rappresentazioni wagneriane in Italia.

A casa Lucca si aggiunse, crescendo rapidamente casa Sonzogno, che dal 1875 detenne i diritti degli autori francesi “nuovi” ossia Massenet, Thomas e soprattutto Bizet. Pubblicava la  rivista “Teatro musicale” e bandiva annualmente un concorso  per la produzione di un’opera lirica. Proprio nel 1890, l’anno di Loreley, mise in scena “cavalleria rusticana” vero ed autentico manifesto del Verismo Italiano. Assorbita nel 1888 la case editrice Lucca dalla Ricordi, la Sonzogno si trovò, gestendo direttamente il teatro Lirico di Milano a rappresentare il contraltare della storica casa milanese nella produzione e nel dibattito musicale  italiano.

d)      La divulgazione della musica sinfonica

Il dibattito scaturito dalla concorrenza fra le case editrici milanesi non era la sola voce che contribuì al rinnovamento e superamento del melodramma, attesa la divulgazione della produzione sinfonica, eminentemente tedesca. La fondazione della società del quartetto a Milano è del 1864 con tanti di allegata rivista.

Ancora più importante è nel 1880 la prime esecuzione in Italia dell’integrale delle sinfonie di Beethoven a Bologna sotto la direzione di Luigi Mancinelli (1848-1921), personalità complessa ed interessantissima. Non solo il direttore, che, nei cilindri Mapleson, dirigeva con assoluta libertà dinamica ed agogica l’opera italiana, ma il direttore dal repertorio vastissimo (da Semiramide a Wagner), il compositore i cui pezzi sinfonici  figureranno sino agli anni ’30 nei programmi da concerto di bacchette middleuropee come Krauss, il maestro di Vittorio Gui (1882-1974), che antecedentemente la fondazione del il Maggio Musicale Fiorentino, dotò nel 1928 Firenze di un’orchestra sinfonica e di una stagione di straordinaria inventiva.

Non solo, ma Luigi Mancinelli era solito, nei propri programmi da concerto, inserire i più famosi brani “sinfonici” delle opere di Wagner, che ebbero così il loro primo impatto con il pubblico italiano.

Approdiamo ad un altro punto essenziale (forse meno di quanto) si creda del rinnovamento italiano di fine ottocento ovvero

e)      L’arrivo in Italia del melodramma wagneriano.

Una premessa deve essere fatta sino al 1871 (anno della prima italiana e Bologna di Lohengrin diretto da Angelo Mariani)  gli italiani addetti ai lavori conoscevano Wagner solo attraverso i suoi scritti teorici ( “L’opera d’arte dell’avvenire” e “opera e dramma”). Non credo di “dirla grossa” assumendo che  questa sia la  più infelice conoscenza, che si possa fare del maestro di Lipsia.

Essenziale nel ripensare l’importanza di Wagner: l’impatto della critica e del pubblico con Meyerbeer  e coevi fu  un felice incontro, realizzatosi in una copiosa rappresentazione dei loro titoli, sino a che (1900 circa) furono reperibili cantanti adeguati; il cammino di Wagner e delle sue opere, invece, contrastato e faticoso. Al successo della prima bolognese di Lohengrin (1871), che Giovannina Lucca aveva convinto Angelo Mariani a rappresentare a Bologna seguì sempre nel capoluogo felsineo l’anno successivo il successo di stima di Tannahauser. Ma nel 1873 alla Scala Lohengrin, diretto da Franco Faccio cadde in una serata  tempestosa. L’Italia si sa è il paese delle fazioni e delle parrocchie e la Scala era il teatro di Ricordi editore di Verdi. Per la cronaca Lohengrin tornò alla Scala solo nel 1888 sempre sotto la guida di Faccio, ma nel frattempo il titolo aveva ottenuto rappresentazioni e successi in tutti i teatri italiani, spessissimo sotto la guida di Luigi Mancinelli.

Non ebbe molta fortuna il tentativo (1882) da parte dell’impresario Neumann di portare in Italia il Ring. A Milano  la  rappresentazione a Milano venne interdetta a seguito di ricorso alla giustizia proposto da Giovannina Lucca, prima imprenditrice e titolare in esclusiva dei diritti tutti sulle opere di Wagner che dissennata patronesse dell’autore di Lipsia.

Milano venne compensata con la prima di Fidelio!

Wagner, diciamolo pure, rimaneva , per facili ragioni, un terreno per  taluni addetti ai lavori: Boito passò da una fase antiwagneriana ad una di apprezzamento di Wagner, forse per aggiungere un tassello alla sua antiverdianità  e, comunque, dopo essere stato un fautore  del melodramma francese,  Angelo Mariani, direttore d’orchestra e, poi altri direttori come Faccio e Mancinelli e, soprattutto Filippo Filippi, che pur avendo collaborato con casa Ricordi, chiamò con  la più ottocentesca enfasi “viaggi musicali nelle regioni dell’avvenire” le proprie cronache da Bayreuth. Ma restavano intellettuali e sarebbe, infatti,  interessante per esaminarne gli studi e le esperienze, quasi tutte connotate da studi o esperienza lavorative in paesi diversi dalla patria. Non solo spesso avevano ampi e dettagliati studi extramusicale e questo aspetto ci  conduce all’ultimo di questa essenziale premessa

f)       Il nuovo rapporto dei letterati con il melodramma

Nella vicenda compositiva delle opere che preludono la “musica proibita” appaiono come librettisti i nomi di quelli, che erano ritenuti i maggiori letterati del tempo o reputati tali. Mai Foscolo, pure perennemente bisognoso di soldi, Manzoni o anche a livello inferiore Tommaso Grossi o Cesare Cantù avevano pensato di  scrivere un libretto d’opera.

Anche questo aspetto offre una riflessione, quand’anche  meno rilevante nel dettaglio del rapporto con Loreley, ovvero l’interesse  al testo letterario -vulgo IL LIBRETTO- da parte dei più rinomati letterati del tempo. Era uno degli effetti, anzi la realizzazione del concetto di dramma musicale. Aggiungo che  tutti i letterati che vestirono la parte di librettista provengono dalle fila degli Scapigliati.  Non me la sentirei di dire che l’intervento di  Marco Praga (1839-1875), Antonio Ghislanzoni  (1824-1893), possa rappresentare la versione italiana di Wagner (al massimo lo si potrebbe affermare per Arrigo Boito, librettista e compositore in uno di Mefistofele e, poi, di Nerone),  rappresentano altro ovvero l’ufficializzazione dell’interesse del mondo letterario per l’opera, che si avviava a diventare il dramma musicale. Questo assunto va, poi, ridimensionato nel senso che non significa affatto, come per decenni si è creduto e divulgato, che finalmente le opere avessero libretti superiori per qualità letteraria a quelli di Felice Romani, Gaetano Rossi, Salvatore Cammarano o Francesco Maria Piave. Non significa, neppure, che quando “ridotti per musica”, grandi testi letterari questi fossero, finalmente un adattamento congruo e rispettoso del capolavoro di partenza. I versi di Felice Romani per Bellini o quelli di Piave per Verdi sono in sé e per sè di ottima fattura e le riduzioni da Shakespeare  di Maffei, oltre che fedelissime in certi versi, colgono perfettamente  il dramma dell’autore. La riduzione di Macbeth  è esemplare in questo senso.

Dice semplicemente una cosa diversa ossia che il letterato di professione, buono o cattivo che fosse, per la prima volta non guarda al libretto d’opera come ad un genere diverso e, quasi certamente, deteriore.

Da un mondo intriso di cultura melodrammatica viene abbandonato il concetto di ancillarità del libretto verso la musica.

Poi il rapporto di Puccini con  Illica e Giacosa potrebbe mettere in discussione tutto.

 

Ritorniamo a Loreley. Le lunghe premesse  si trasformano  nelle chiavi di lettura che non siamo le paventate all’inizio ossia il compianto per la vicenda terrena dell’autore ed il compiacimento per le pagine sinfoniche del titolo.

Il titolo è stato obliato negli ultimi cinquant’anni. Manca alla Scala dal 1966 e le riprese italiane a Genova e Verona si devono alla  disponibilità di un autentico  soprano drammatico come Ghena Dimitrova ed a Gianandrea Gavazzeni, che nel capoluogo genovese impose la scelta.

Alla damnatio memoriae contribuisce al di là della scarsa considerazione per il periodo la difficoltà di reperire una protagonista interprete e vocalista nel contempo in grado di superare le difficoltà della parte. Che non sono poche neppure per il tenore alla grande scena del terzo atto. All’integrale proprio della ripresa veronese si devono affiancare le pagine realizzate a 78 giri, che presentano alcuni dei maggiori cantanti, che con titoli e vocalità del periodo avevano ottimi e facili rapporti.

Due premesse vanno fatte prima degli spunti di lettura e di ascolto. Ossia l’origine letteraria dell’opera  e la sua genesi. Quanto alla sua origine letteraria secondo la voga del tempo, che attinge a miti e mitologie estranea all’Olimpo classico, ma provenienti da altre sfere culturali, Loreley  è citata da Brentano  (1778-1842) uno dei padri del romanticismo tedesco, che ne inserì il mito nel proprio poema Godwi, privilegiando non già la maga (una sorta di Medea del Reno), ma la donna infelice, che soffre e fa soffrire costretta a condurre gli uomini, che seduce, alla perdizione. Di Loreley, poi , parla Heine(1797-1856)  nel cosiddetto Libro dei Canti  (1827).

Quanto, invece, all’origine musicale Loreley è il rifacimento di un titolo precedente Elda  rappresentato nel 1883. Rimando per una attenta disamina del  rapporto fra originale  e rifacimento a Guido Salvetti (in “Storia dell’opera” Utet 1978 parte I, vol. II pagg 473 e segg.) il quale evidenzia nella prima stesura una maggiore attenzione agli aspetti coloristici ed alla tradizione del grand-opéra anche per le dimensioni dell’opera.

La struttura dell’opera è la seguente:

Atto primo

Preludio

Coro di boscaioli, vecchiette pescatori che abitano la riva del Reno

Scena Walter -Hermann . Arioso di Walter “nel verde maggio” e  arioso di Hermann

Scena Walter -Loreley. Arioso di Loreley duetto Loreley-Walter “non fui da un padre”

Aria di Hermann

Finale d’atto  cori di spiriti e scena di Loreley  “ove son? donde vengo?”

Atto secondo

Coro ed Anna  aria “amor celeste ebbrezza”

Valzer dei fiori

Duettino Walter-Anna

Epitalamio

Concertato finale Loreley-Anna-Walter-Hermann Margravario

Atto Terzo

Coro di introduzione

Funerale di Anna

Aria di Walter “Chi sei  fantasma pallido”

Danza delle Ondine

Aria di Walter

Duetto Finale  Loreley-Walter

Dall’ascolto dell’opera sentiamo passi, che si inseriscono in quella che era stata (e sempre sarà sino alla Turandot) la tradizione italiana della composizione melodica di sapore elegiaco e descrittivo ossia passi che, per ritornare ad opere paradigmatiche del secondo ottocento Boito nel rifacimento di Mefistofele inserirà sia soprattutto per Faust, ma anche per Margherita con il famoso “Spunta  l’aurora pallida”.

Alludo all’arioso di Walter “Nel verde maggio”, ed alla famosa aria di Anna “Amor celeste ebbrezza”, le due pagine più tradizionali del titolo quelle da melodramma italiano in uno con  il duetto finale.

In questo caso, però, il discorso merita qualche notazione. Ovvero ad Anna, fanciulla innocente, innamorata e sfortunata spetta una grande scena all’inizio del secondo atto con una struttura che richiama da un lato il retaggio delle scene dei soprani  assoluti del grand–opéra (non penso tanto a Margherita di Navarra, ma a Bérthe ed Ines di Africana) e le figure di dolenti, pie ed illuse amanti che, a partire dalla Margherita boitiana in scia con la nascente letteratura popolare e femminista, l’opera post verdiana, privilegerà. Non solo, ma Anna si esprime  utilizzando formule che, come per la delirante Margherita, con trilli e ornamentazioni  attingono lontanamente al melodramma ottocentesco. Il tutto serve a creare il contrasto con la vocalità tesa e spigolosa della protagonista. Con un dettaglio che alla sortita, ovvero prima che il rifiuto d’amore la trasformi in creatura del male Loreley si esprime vocalmente come Anna ovvero con un canto aggraziato e tenue. Vedasi l’ingresso “ Da che tutta mi son data”.

Opposto alla tradizione vocale e strutturale dell’aria, invece, deve essere letto il lungo assolo di  Lorelay, che chiude il primo atto quando la fanciulla cede, per vendicarsi dell’amore infelice, alle forze del male. Va segnalato che  già una protagonista femminile nel ruolo di “cattiva” ossia Amneris non beneficiava di arie, ma di una grandiosa scena al quarto atto. Loreley segue questa strada che in Verdi aveva rappresentato un unicum e lo rappresenterà per tutto il melodramma italiano perché al fascino della romanza soprani, autori ed impresari, ciascuno con validissime ragioni, non potevano rinunciare.

Invece nella generale tradizione del melodramma italiano deve essere considerato il concertato, che chiude il secondo atto, unico momento di incontro delle “rivali” e degli opposti sentimenti di tutti i personaggi, momento che non può mancare sotto il profilo drammaturgico in trame come Loreley. Ma anche qui vanno messe in rilievo talune novità. E’ quasi ozioso notare che i melodrammi, amati dai compositori del secondo ottocento e non solo francesi (vedi Lohengrin) prevedevano ampi concertati, in genere articolati in più sezioni. La pagina è di quelle particolarmente riuscite perché al canto amoroso e “menagrano” al contempo  di Loreley, che si presenta a funestare la festa nuziale si uniscono progressivamente tutti i personaggi sino a quando Loreley riprende sola la seduzione amorosa senza un tempo veloce salvo la rapidissima chiusa con la maledizione su Walter e Loreley, che ritorna nei flutti del Reno.

Nell’esame di un lavoro, che larghissimo spazio lascia ai cori aggiungiamo, poi, che le due antagoniste femminile sono sempre accompagnate da cori, che amplificano e commentano la loro azione ed il loro stato d’animo. Ed anche qui i cori sono profondamente differenti perché a Loreley nel momento si trasforma in donna vendicativa è accompagnata da ritmi infernali (come non vedere l’anticipazione dell’evocazione degli spiriti della maga Esclarmonde 1899 nei cori del finale primo) mentre il coro femminile, che accompagna la scena nuziale amplifica il tratto casto e liliale di Anna, anche esagerato secondo una poetica ancora romantica, quando la giovane serena ed illusa replica a veritiero annuncio di Hermann che Walter non l’ami più.

Uno dei punti  dei punti di superamento verso il dramma musicale, inteso serie di numeri chiusi è la presenza dei numeri corali non solo di contorno o passaggi da una scena ad altra. La produzione verdiana post  trilogia romantica (quindi grand-opéra o prossima  ad esso come accade per la Forza del destino) aveva introdotto cospicue scene di colore. Anche Ponchielli nei Promessi sposi (coro dei penitenti, coro dei contadini, coro dei) e in Gioconda aveva ampliato la presenza della massa corale. In Loreley, oltre alla connotazione e sottolineatura dei sentimenti delle due protagoniste, come abbiamo già detto il coro si sostituisce all’azione drammatica come accade nella secondo parte del secondo atto con il  valzer dei fiori e nel successivo famoso epitalamio, che precede il finale e costituisce un’ampia sezione dell’atto medesimo dove l’elegiaco tema dell’epitalamio si trasforma nella nefasta apparizione di Loreley, che pure canta un invito amoroso ed erotico, dando inizio al concertato finale atto secondo. Sono i famosi pezzi di dramma musicale, che tanto delusero Verdi quando allestita la seconda versione di “Forza del destino” alla Scala e che erano reputati di importanza pari agli assolo. Erano i passi che portavano ad un nuovo schema, mentale, prima che musicale di opera.

 

Immagine anteprima YouTube Bianca Scacciati “o forze recondite”

Immagine anteprima YouTubeBianca Scacciati/Francesco Merli “Vieni del vieni”

Immagine anteprima YouTube Madga Olivero “amor celeste ebbrezza”

Immagine anteprima YouTube Frances Alda “amor celeste ebbrezza”

Immagine anteprima YouTube Arturo Toscanini “danza delle Ondine”

Immagine anteprima YouTube Beniamino Gigli “nel verde maggio”

Immagine anteprima YouTube Claudia Muzio “Dove son?”

Immagine anteprima YouTube integrale Dimitrova, Ionata, Merighi,Rawsley, Caforio, dir. Masini

Immagine anteprima YouTube Ester Mazzoleni “non fui da un padre”

Immagine anteprima YouTube Ester Mazzoleni “Dove son?”

7 pensieri su “Musica proibita: Loreley

  1. Che dire Donzelli, che a forza di ascoltare le kaufmaniadi rischiamo di dimenticare le cose serie: Impressionante la Magda Olivero in Amor celeste ebbrezza che dipana una dopo l’altra le auree regole del canto: il fiato, le smorzature, le messe di voce, il legato, il colore di ogni sillaba prima che ogni parola; ovverossia tutto ciò che serve per cantare ancor prima della “bella voce” o “bel colore” che certo giovano, ma non sono essenziali. Pensate che la stessa Olivero poi sarà Adriana o Tosca…Provate ad immaginare nelle stesse arie la Netrebko o la Fleming, o la Gheorghiu … lascio a voi la risposta.

  2. Molto interessanti le premesse che bene inquadrano il clima culturale in cui si sviluppò la giovane scuole: soprattutto il ruolo avuto dalla “guerriglia” tra le case editrici (gli interessi economici che hanno veicolato gli ideali estetici). Molto si è scritto sul presunto “wagnerismo” che invase la tradizione musicale della penisola: in effetti non si può enfatizzare troppo tale influenza, per il semplice fatto che l’idea che la maggior parte del pubblico e dei musicisti italiani aveva del dramma musicale wagneriano (che, aldilà delle questioni terminologiche, identifica una certa produzione e delinea un orizzonte estetico ben preciso, assolutamente nuovo per il melodramma italico) era parziale e, soprattutto, inattuale. A partire dagli anni ’70 del secolo, infatti, si inizia a conoscere Wagner, certo, ma quello degli anni ’40 (Tannhauser, Hollander, Lohengrin), un Wagner, dunque, già superato da quello nuovo. E’ più corretto parlare di un’influenza di seconda mano, veicolata da altri fattori. Verissima, invece, la penetrazione del grand-opéra, anche se molto più naturale, poiché formata nello stesso alveo culturale (che è il post rossinismo, pur arricchito da un maggior spreco di effetti).

  3. E’ questo a mio parere uno degli articoli più interessanti che abbiate mai pubblicato e mi spiace che in pochi abbiano aggiunto il loro commento ( tra l’altro su 3 interventi 2 completamente fuori tema ). Al Giglio di Lucca è stato ripreso – negli anni ottanta – quasi tutto Catalani, dopo quasi il nulla assoluto. E’ significativo ( del nostro provincialismo ) il fatto che, se guardiamo i cartelloni 2013/14, leggiamo il nome di Catalani a Ginevra, per esempio, ma non in Italia. All’inerzia dei nostri teatri si assomma la pigrizia del pubblico, disposto ad affluire in massa solo per i soliti quattro titoli. Di cui, a prescindere dal loro reale valore, ho da gran tempo le tasche piene.

  4. grazie per l’apprezzamento. Mi auguro che il lungo ciclo sia così interessante perché il periodo è davvero interessante anche se negletto. Oggi proporre agli studenti ( e prima ancora agli insegnanti) figure della letteratura italiana come Tarchetti, Ghislanzoni oltre che Carducci e Fogazzaro è vissuto malissimo. Ti aggiungo con riferimento a Loreley che si poteva dire ancora di più soprattutto con riferimento all’arrivo e conoscenza della letteratura romantica tedesca in Italia e sulla vocalità dell’opera. La fantasia di chi allestisce è uguale a zero ovvero alla loro cultura. Inutile nascondercelo. Hanno per Loreley una attenuante la difficoltà di reperire protagonista e bacchetta. Anche se sulla seconda un nome mi gira nella testa da un po’ di tempo. Naturalmente fuori dai giri dei protetti di grandi case discografici e bacchette giunte oltre il capolinea.

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