Il convento di San Giusto: il convento del grand-opéra

Charles-Quint_au_monastère_de_YusteIl convento, quello di San Giusto, evocato dalla fantasia di Schiller, che proponiamo per l’anno 2013-’14  è spunto, oltre che  di ascolti di autentico canto ed interpretazione, per una riflessione prodromica ad altra più estesa e generale sul grand-opéra, che rientra fra i progetti del corriere della Grisi. Di quei sogni che si realizzeranno.

Genere musicale, il grand-opéra, che annose e contingenti ragioni vocali, rendono impossibile proporre sulle scene, è per noi  di grandissimo interesse per la sua stratificata origine, la complessità drammaturgica, la varietà orchestrale e vocale, che ne fanno, nella storia dell’opera, un unicum.

Proposto in cinque  o quattro atti (ovvero in versione italiana o almeno italianizzante), l’atto di San Giusto impone prima di tutto un esame della struttura musicale, che lo pone assolutamente in linea con tutti gli ultimi atti del genere grand-opéra. Struttura identica o quasi dai primi  prodotti del genere (Muette de Portici 1828, Guillaume Tell 1829 ) sino agli ultimi Africaine (1865), Don Carlos (1867), Roi de Lahore (1877).

Nell’ultimo atto del grand-opéra i personaggi principali si trovano ad essere fuori dalla cornice storica e coloristica (che ha il suo apogeo in genere al terzo atto) che avvolge la loro vicenda e si ritrovano a tirare le somme delle loro vicende, ovvero si ritrovano ad essere essi stessi al di fuori del contesto storico di cui sovente sono vittime.

Sotto il profilo drammaturgico la fase finale del dramma  si esplicita in un’aria solistica  di uno dei protagonisti o meglio degli amorosi, un seguente terzetto o duetto ed un ingresso repentino di coro ed eventualmente altri personaggi  cui è demandato il compimento del dramma ed il commento dello stesso. Compimento del dramma leggi il più delle volte uccisione dei protagonisti, commento perché, appunto, i protagonisti o uno di essi  in quanto morti o morenti non sono più in grado di agire. Inutile dire che la morte rappresenta per la buona parte dei protagonisti del grand-opéra rappresenta  l’unico sbocco a tragici ed impossibili amori, che la Storia largamente contribuisce a considerare tali.

Basta esaminare i libretti e la disamina darà risultati costanti o quasi e tutti a conferma dell’assunto:

Mose e Faraone 1826
Coro Aria di Anaide Terzetto con coro Mose Maria Elisero Finale Numero sinfonico?
Muta di Portici 1828
 aria di Pietro  scena di Masaniello e congiurati  Finale
Guglielmo Tell 1829
Coro Aria di Arnoldo Terzetto Matilde Jemmy Edvige Temporale finale
Roberto il diavolo 1830
Recitativo Terzetto Roberto Alice Bertram
Ebrea 1835
 coro  arioso Rachele  Trio Rachele Brogni Eleazaro  Finale
Ugonotti 1836
Aria di Raoul con cori Coro Terzetto Valentina Raoul Marcello Finale
Favorita 1840
Coro ed arioso di Baldassarre Aria di Fernando Arioso di Leonora Duetto Leonora Fernando Finale
Don Sebastiano 1843
Recitativo Aria di Zaida Duetto Zaida Sebastiano  poi terzetto con Camoes Finale
Martiri 1
 Terzetto Paolina Felice Severo  Arioso Poliuto  Duetto Paolina Poliuto Quintetto Paolina Poliuto Severo Felice Callistene  Finale
Profeta 1849
Recitativo Aria di Fides Duetto Fides/Giovanni poi terzetto con Berthe Ingresso anabattisti Finale
Vespri  siciliani 1855
Coro Bolero Elena Siciliana Arrigo Terzetto Elena Arrigo Procida Finale
Africana 1865
Duetto Ines Selika  Aria Selika  Finale Nelusko e coro
Don Carlos 1867
Aria di Elisabetta Duetto Elisabetta don Carlos Finale con coro
Il sire di Lahore 1877
 Aria di Sita  duetto Sita Alim  Terzetto Sita Alim Scindia
Poliuto 1878
Coro Aria Poliuto (Credo) Ripresa del Credo in duetto (Poliuto, Paolina) Coro e scena finale

 

Oltre  all’esigenza di definire e chiudere il dramma l’asciutta  struttura degli ultimi atti dei grand-opera  talvolta risponde anche al desiderio od esigenza  di offrire ad uno dei protagonisti la possibilità di brillare sotto il profilo solistico, di affermare la propria preponderanza sugli altri o più semplicemente   per “pareggiare il conto” con l’altro protagonista.  Pensiamo alla grandiosa aria di Fidès (personaggio in credito di acrobazie secondo l’insindacabile opinione di madama Viardot) oppure a Raoul de Nangis, che con l’esecuzione integrale del quinto atto raddoppia rispetto a tutti i personaggi (e non solo Valentina) il numero degli assoli, per tacere di Fernando che con “Ange si pure” (in italiano “Spirto gentile”)  distanza tutti gli altri personaggi arrivando a ben tre arie solistiche o Selika di Africana, che muore con una lunga aria solistica, secondo stilemi più da opera italiana protoromantica anche se preannuncia niente meno che il finale di Tristano ed Isotta.

Nel don Carlos l’aria solistica, preceduta da grandiosa introduzione orchestrale spetta ad Elisabetta. Non che la scelta debba rispondere ad esigenze di  bilanciamento con i numeri solistici di don  Carlos (cui in entrambe le versioni gode di una ben poco appariscente aria al rispettivo primo atto). Forse Elisabetta deve bilanciare gli applausi con l’altra donna, Eboli, tradizionale destinataria dei trionfi attesa la potenza espressiva e vocale dei numeri destinatile, ma la ragione sta nel fatto che la regina dei due amorosi  è quello che ha “da dire” maggiormente rispetto al figliastro e mancato marito, che per tutto il corso dell’opera riveste di argomentazioni dinastiche e politiche il livore verso il padre. Presenza ingombrante, ammetto, senza scomodare Freud.

San_Jeronimo_de_Yuste_SAN_GIUSTOAd Elisabetta è affidato nella grande  la memoria della giovinezza,  della speranza di un amore in luogo del tradizionale matrimonio dinastico, cui poi piegata, e del paese d’origine, che identifica con i sogni infranti di una esistenza felice in contrapposizione con la corte spagnola di un marito bigotto e non di meno fedifrago. Ad Elisabetta è anche affidato il commovente addio all’amore con l’attacco della sezione del duetto sulle parole “Ma lassù civedremo” perché la donna, delusa, amareggiata ha maturato espone l’idea maturata in tutto la sezione “spagnola” dell’opera che non le sia riservata gioia e felicità in terra. Don Carlos si associa al canto dell’amata, ma di fatto don Carlos è ancora compreso a cantare con toni epici come si convengono al tenore da grand-opéra l’ideale del modo migliore in terra, quella terra che il morto marchese di Posa aveva immaginato.

Non solo anche gli slanci di entusiasmo ed ardore, diciamo patriottardo, spettano ad Elisabetta con la frase “Sì, l’eroismo è questo”, cui si associa l’infante. Ad onta dell’apparente  remissività del personaggio basta guardare le indicazioni di espressione di Verdi come “grandioso”, “solenne” per capire l’idea della vocalità più autentica di Elisabetta, pensata per Marie Sass e proposta in Italia da Teresa Stolz e dopo di lei da molti autentici soprani drammatici. Categoria vocale che difficilmente troveremo negli ascolti a noi più prossimi.

Tralascio la disamina delle due differenti versioni (1867  ed 1884) del duetto nelle prime battute di recitativo prima dell’incipit del “Ma lassù”. Mi soffermo, invece, sul finale, che è più fulmineo nella versione italiana con poche battute dell’inquisitore e di Filippo, che farebbero presagire l’uccisione di don Carlos (quella ordita nel conciliabolo notturno fra sovrano ed inquisitore), più ampio quello dell’esecuzione parigina con il coro degli inquisitori, che si scaglia contro i due reprobi amanti (restituito nella sua valenza anticlericale nell’edizione del bicentenario della Scala con l’immenso crocifisso, che diventava lo strumento di persecuzione dei presunti adulteri e peccatori), ma fantasioso perché appare il frate ossia lo spettro di  Carlo V, che trascina il nipote. Dove, nel “componimento misto di fantasia e realtà” è una domanda  quasi inutile davanti a siffatto coupe de teatre, che rivaleggia con quello  l’eruzione del  Vesuvio della Muta o l’incendio della città di Münster, che chiude il Profeta.

Verdi – Don Carlo

Atto V

Tu che le vanità – Giannina Russ (1914)

3 pensieri su “Il convento di San Giusto: il convento del grand-opéra

  1. zitta tu che quando facevi il Macbeth abbassavi praticamente tutte le arie.
    Anche se eri una grande tragedienne e perché non racconti che la povera grassona (madama Alboni) nella Fides del Profeta era tua pari!!!!
    dd

  2. Argomento molto interessante, quello sulla codificazione delle forme: del resto il teatro francese è sempre stato più rigido nella suddivisione in generi rispetto ai coevi, non solo quello tedesco, ma – paradossalmente – anche quello italiano (che pur nell’adesione alle convenzioni del melodramma era, al suo interno, assai più mobile). Questo excursus tra i finali dei grand-opéra mostra a mio avviso – non me ne voglia l’amico e collega Domenico – non già l’adesione convinta ad un modello che si reitera, ma i tentativi – a volte mal riusciti – di rispettare un forma ristretta e sempre meno attuale (come, del resto, lo diventa il genere, dopo la fase di massimo splendore a cavallo della metà del secolo, procede stancamente sino alla fine dell’800 in un manierismo ormai stucchevole e artificioso). Tra gli esempi citati, però, toglierei il finale del Tell che in realtà ha avuto una storia particolare e travagliata: quello che si ascoltò la sera della prima e fa parte della partitura “definitiva” è infatti solo l’ultima versione di un quarto atto assai più complesso e ricco. Ma per stare al tema, ossia il convento di San Giusto, si deve considerare che anche Verdi cercò di uscire dalla rigidità imposta dal genere, predisponendo un finale molto più articolato (con quella specie di “processo” che annacqua e allunga il brodo): saggiamente quando trasformò il grand-opéra in melodramma, corresse il tiro e sacrificò gli effetti al senso musicale.

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