Parma fa marcia indietro e riscopre la “cifra Meli” per questa produzione di Masnadieri e puntuali le interviste ai loggionisti arrivano entusiastiche, mentre l’esito artistico è infausto. Opera storpiata, mal cantata e mal diretta, soprattutto fraintesa, colpa grave per un festival dedicato a Verdi. Del resto a Parma si mangia pane e Verdi, si festeggia Verdi, si parla di Verdi, ogni evento è dedicato a Verdi, tutto è aggettivato come “verdiano”, ma poi solo alcune delle opere sono effettivamente patrimonio collettivo, le altre regolarmente ignorate dagli intervistati tv. Miracolo tutto locale! Apprezzamenti diffusi per una serata minima, con punte di parrocchialità aperta; questo è stato il decreto della prima recita. Nel dubbio tra assecondare e rieducare, per Masnadieri la d.a. si è comodamente adagiata sull’andazzo passato, perdendo peraltro bussola e rotta: le scelte di casting effettuate hanno dimostrato come ci si sia astenuti dal domandarsi quale sia lo stato dell’arte esecutiva di questa opera e quali le serate importanti che hanno fatto la storia della sua riscoperta, per trarne una guida ed una fonte di ispirazione. Hanno trionfato i luoghi comuni, ossia alcune presenze abituali del Regio che dovevano garantire il successo perché gradite ai più, circoli e gruppi melomani. Ma da questo a realizzare una buona ripresa dei Masnadieri ce ne corre e parecchio, al di là del buon successo registrato dall’applausometro.
La fruizione streaming ha restituito un’opera soporifera, priva di invenzione musicale e dai tratti terribilmente bandistici, vociferata più che cantata al punto da non riconoscere la cifra del compositore. In tal senso il primo problema è venuto dal maestro Ciampa, impreparato a reggere il gioco delle relazioni canto – orchestra, a cogliere anche i momenti drammaturgici più riusciti e a far cantare un po’ di più la propria compagine orchestrale. Penso a momenti come il duetto tra Francesco ed Amalia o la sua stessa aria ad inizio atto secondo, per non parlare dei momenti corali, dagli interventi nella scena di Amalia stesa o quelli, disastrosi, alla scena terza del terzo atto, nella foresta. Il duetto d’amore aveva la stessa cifra di quello in cui Francesco attenta ad Amalia, ma anche le due cavatine iniziali di Carlo e Francesco, senza differenziazione di clima, che pure Verdi connota con chiarezza. La latitanza nell’indirizzare i cantanti ha perfezionato questa prova negativa. Il maestro Ciampa non è un direttore che sovrasta il canto col volume o con tempi impossibili, ma uno di quelli che non lo governa per nulla, come se ciò che ha luogo sul palco gli fosse estraneo. Il malcanto continuo dei due protagonisti maschili, ad esempio, è stato tale da non poter distinguere il buono dal cattivo. Il signor Aronica si è prodotto in ciò che meglio gli riesce, la vociferazione. Sempre sul forte, il suono costantemente aperto ed appiattito in una generale sguaiataggine che imponeva venisse moderata dalla bacchetta. Abbiamo ascoltato un protagonista sempre a squarciagola, mai nobile, nel canto amoroso, come nell’ira o negli accenti dolenti, sempre estremi e fuori dal personaggio che resta comunque, in Maffei come in Schiller, l’eroe stuermer, l’uomo in conflitto tra sentimenti e ragione illuminata, e non un bifolco o un realistico fuggiasco da bagni penali. La voce, tra l’altro, ha perso ogni propensione all’acuto: ogni salita oltre il passaggio è stata resa con falsettini o suoni strozzati ( formidabile il bercio in chiusa alla scena della foresta con i masnadieri ). Suggerire qualcosa in merito al fraseggio era compito del signor Ciampa, almeno sulla carta. Al contrario, la monotonia canzonettistica ha dominato rendendo il personaggio quasi fastidioso. Se poi si continuasse il ragionamento in fatto di aderenza agli stilemi espressivi propri alla fine degli anni ’40 dell’Ottocento ci troveremmo a descrivere un naufragio di imperizia in fatto di vocalità, perché i modi di Gardoni non potevano essere diversi da quelli di Fraschini, che Verdi avrebbe voluto, a di Mario, dominatore delle scene londinesi ancora all’epoca della prima dell’opera. Tenori che praticavano Donizetti e Meyerbeer tanto per intenderci, e qui mi fermo, limitandomi a dire che questo mancare la cifra stilistica è grave per un Festival dedicato a Verdi, ossia l’istituzione preposta a tutelare il compositore. Il Francesco del signor Ruzinci è parso caricaturale: ama evidentemente l’idea di essere un cantante attore ma stenta a praticarne l’arte con eleganza e senza eccessi. Vocalmente suona come un tenore mancato, la voce non bella è priva di legato ( il duetto con Amalia ) e di un’emissione consona ai requisiti del canto verdiano. Il personaggio di Francesco è cattivo, ai limiti del demoniaco ma i modi del cantante mancano della cifra stilistica espressiva consona, che esula dagli effetti, dalle gigionate e dalle espressioni esteriori. Anche per lui valgono le conclusioni tratte su Ciampa ed il festival. La signora Florian quale Amalia, ultimo idolo locale, ha cantato come nella recente Battaglia di Legnano. Voce modesta ed inadeguata a Verdi per volume, estensione ( i gravi mancano quasi del tutto ), per non parlare del registro acuto, ove si avventura solo con falsettini oppure con suoni sgraziati. L’intonazione è venuta meno in più punti, calanti i piani e crescenti gli acuti a voce piena perché spinti. e la difficoltà del canto fiorito pensato da Verdi per la Lind l’ha messa in croce di continuo durante la serata. Una cavatina imbarazzante, un duetto col padre privo di vero slancio come pure il duetto d’amore ( servono altre voci per i cantabili e i momenti di fuoco ), per non parlare della chiusa del primo atto, ove in acuto occorre avere ben altra saldezza. Al secondo atto un ‘aria con poca espressione per via del legato carente, un po’meglio la cabaletta ma poca cosa. Al duetto con Francesco ha sofferto meno che in quello con Carlo ( Aronica ha un mezzo assai più importante del suo ). Un’Amalia insufficiente, comunque, per canto e fraseggio: per abbordare questa parte con un mezzo limitato occorre, infatti, vera preparazione tecnica e non il continuo ricorso ai mezzucci. Taccio della patetica favolina che ogniqualvolta la signora si esibisce a Parma ci viene propinata: la storia della povera ragazza dell’est truffata dai mascalzoni non commuove nessuno e mi pare ridicola oltre che offensiva in primo luogo per la signora stessa Di nuovo, anche in questo caso, valgono le considerazioni precedentemente fatte per Ciampa ed il festival. Passabile il Massimiliano del signor Kares dotato di voce ma dall’imposto tipicamente ingolato e stomacale, nel migliore stile “scimmiottiamo Ghiaurov senza la sua voce”. Un allestimento semplice, che si lascia vedere, contenuto nei mezzi ma adeguato. Criticabile, a mio modo di vedere, il modo di rendere i personaggi, esagerandoli nei loro tratti sino a renderli caricaturali. Il libretto è di Maffei, ed il testo è un must del teatro di Schiller, quindi sarebbe stato necessario un altro lavoro sui cantanti al fine di conferire ai loro personaggi tratti più adeguati, nobili e meno banali.
Morale della favola, peraltro già enunciato in altre occasioni: il Verdi “di galera” messo in scena di questi tempi recenti pare incomprensibile per i moderni interpreti, che si esibiscano a Parma, alla Scala, a Martina Franca o a Salzburg o dove volete voi. Le opere meno mature non hanno più quel sapore che avevano sino a qualche tempo fa nei dischi o nelle rappresentazioni teatrali guidate dai Gavazzeni, dai Bartoletti, dai Molinari Pradelli, dai Gardelli, dai Levine, dai Bonynge etc.: acerbe, talora ingenue e talora ispirate apertamente a questo o quell’altro, risorgimentali, contorte e chi più ne ha più ne metta di difetti, ma certamente non così insopportabili, prive di inventiva, rozze e perfino amelodiche come queste moderne riprese ci vogliono far credere. Verdi non manca mai di coinvolgere, persino di travolgere lo spettatore, con i suoi strumenti teatrali efficaci capaci sempre di toccare lo spettatore. Laddove Verdi ancora manca, il presente manca però ben di più in cultura storica, conoscenza delle prassi esecutive, capacità di dare rilevo all’invenzione come alle situazioni rilevanti, distinguendo la maniera dal genio. E manca ancor più sul piano del canto, come in questi Masnadieri, dove si è dato prova, per l’ennesima volta, di non aver capito nulla della lezione di fraseggio di un Bergonzi o di una Ligabue o di un Bruson come del sofisticato belcantismo tardivo di una Sutherland etc . Lo stato dell’arte è purtroppo questo e comincia dalle scelte che stanno a monte dell’andare in scena.
evidentemente sulla tv Parma ,abbiamo visto due opere diverse,riguardo alla Florian,rimane la mia impressione positiva che ho avuto nella” battaglia di legnano ” adesso la trovo più matura.
Eh sì. Due opere diverse. Chissà chi dei due ha visto quella “buona”.
http://www.youtube.com/watch?v=pzeP9bjIM4c
beh tenuto conto del successo che hanno avuto ultimamente alcune recensioni d tamburini chissa’ chi dei due ha visto quella buona
Se devo credere ai due minuti di video portati da Tonio, non ho dubbi su chi abbia ragione. Alberto e pasquale, se vi piacciono i soprani di questo tipo venite a farvi un giro dalle mie parti. In ogni teatro tedesco, anche di provincia, se ne trovano una mezza dozzina che cantano cosí.
ma io l ho buttata li non conosco l interprete dei masnadieri. Se pero’ leggo che a Parma in molti l apprezzano e Pasquale che conferma finisce che e’ sempre la solita solfa del concentrasi sui difetti piuttosto che sui pregi. un andazzo che alla lunga annoia
Mannagia d’un Mozy…. sei tu che non fai debuttare in italy queste perle??? Mandaci qualche spezzone di video…su,su che il tra quattro anni arriverà Chailly e speriamo che riesca a trovare la scala prima che diventi dimora dei nuovi ROM
So bene che questa mia domanda è del tutto fuori argomento. Ma non so dove metterla e magari a qualcuno una simile questione, che voglio porre senza nessuna intenzione polemica, può interessare. Perché sono così importanti i difetti vocali e invece, quando si parla per esempio di direttori d’orchestra, i difetti derlla resa orchestrale passano spesissimo in secondo piano, di fronte all’interese dell’interpretazione? Per esempio, conosco una magnifica interpretazione dal vivo della Terza di Mahler ad opera di Scherchen assolutamente deficitaria quanto al livello dell’orchestra (quella di Radio Lipsia), un’interpretazione nella quale le stecche e le imprecisioni abbondano. Eppure la grandezza di una simile lettura è innegabile e a nessuno è mai venuto in testa di metterla in discussione. Così è per Hermann Abendroth e altri. E le stecche di Cortot, numerosissime? E le imprecisioni dell’ultimo Richter, spesso più coinvolgenti dell’atletico e impeccabile virtuosismo del Richter maturo?
Marco Ninci