Consuntivi: Nabucco a Bologna.

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L’anno solare volge al termine e così la stagione del Comunale di Bologna. Non è ancora il momento di presentare il bilancio dell’esercizio 2013, ma la seconda e ultima proposta verdiana del bicentenario in terra felsinea invita ad alcune riflessioni, che, partendo dalla situazione contingente, finiscono per abbracciare uno spettro in ogni senso più ampio.

1) La prima rappresentazione, fissata per un sabato sera in un periodo dell’anno in cui le assenze dalle città per il weekend sono a dir poco contenute, essendo da lungo tempo terminata la stagione balneare e non avendo ancora avuto principio quella degli sports invernali, ha visto parecchi “forni” nei graziosi palchetti della sala del Bibiena e una richiesta di posti di balconata, che non arrivava ad esaurire la prima fila della stessa. E l’opera allestita non è certo il Sigurd o la Regina di Saba. E appare poco plausibile che i cambiamenti di cast intervenuti dalla presentazione ufficiale della stagione (Roberto Frontali rimpiazzato da Vladimir Stoyanov, Vitalij Kowaljow sostituito da Dmitry Beloselskiy) abbiano inciso in maniera determinante sull’andamento del botteghino. Quel che è certo è che non si vede la ragione di programmare, di un siffatto Nabucco, ben sette recite, una delle quali fuori abbonamento. Analoga riflessione vale, a fortiori, per il prossimo e ultimo titolo della stagione 2013, il Giro di vite britteniano, il cui numero di rappresentazioni previste eguaglia quello di Nabucco. E sì che l’esperienza del Trionfo di Clelia di pochi mesi fa avrebbe potuto fornire qualche utile indicazione in merito. Ci chiediamo però, e ci scusiamo in anticipo del passatismo che sottende una simile interrogazione (retorica?), in quanto tempo avrebbero fatto registrare il tutto esaurito sette recite di Nabucco, allestite, poniamo, nel 1983 con Ghena Dimitrova, Renato Bruson e i nobili resti di Cesare Siepi o Bonaldo Giaiotti.
2) Come è ormai consuetudine l’allestimento scenico, o meglio semiscenico, ha catalizzato su di sé i parchi dissensi di una parte del pubblico, laddove i responsabili della parte musicale sono stati in linea generale graziati, quando non acclamati quali autentici prodigi e modelli d’interpretazione verdiana. Lo spettacolo di Yoshi Oida, ispirato a un Oriente in salsa manga e gravato da trovatine ora ridondanti (le vestizioni e svestizioni dei personaggi, Nabucco in primis), ora francamente ridicole (durante il Va’ pensiero l’evocazione del Giordano è affidata a una comparsa maschile che si fa la doccia in quello che sembra uno stabilimento marittimo dismesso), è quanto di più anodino e incolore si possa immaginare.
3) Ma altrettanto anodina, analogamente incolore è la direzione musicale di Michele Mariotti, che dopo una Norma “mignon”, e non per questo esente da clangori e imprecisioni, confeziona un Nabucco in cui tempi insensatamente dilatati (su tutti i cantabili dei brani solistici) e sonorità ora pachidermiche (incipit della parte prima), ora cameristiche ai limiti del ridicolo involontario (da capo della cabaletta di Abigaille) si fondono mirabilmente a una diffusa incapacità di coordinare orchestra e solisti (particolarmente evidente nel concertato finale atto secondo “S’appressan gli istanti”, in cui alcuni solisti non sanno letteralmente percepire gli attacchi, e nella preghiera a cappella “Immenso Jehovha”, trasformata in un cacofonia degna di Stockhausen). Tralasciamo, poi, la totale assenza di diversificazione tra le scene “di colore” (incipit del terzo atto), i grandi affreschi corali, il misticismo delle apparizioni di Zaccaria e la tragedia della famiglia reale babilonese. In compenso, si ha diritto ad una marcia al supplizio, che evoca la scena del funerale del film “Divorzio all’italiana”, ed a un direttore che diriga l’assolo del violoncello di “Vieni o Levita”. A livello orchestrale dobbiamo inoltre segnalare archi di malsicura intonazione e marcate fissità dei fiati (il flauto solo alla scena finale!), mentre il coro è apparso meno incerto rispetto ad alcune disastrose prove recenti (Tell pesarese, peraltro coordinato dalla medesima bacchetta, per i quali alcuni vaticinano, anzi danno per già acquisita, la compiuta maturità interpretativa).
giuseppe-verdi4) Che cosa accada a una voce dal peso lirico e di contenuta cognizione tecnica, applicata per sistema ai ruoli del Verdi “pesante”, al cui novero la mentita figlia del re di Babilonia per certo appartiene, lo esemplifica bene Anna Pirozzi. Riascoltata a meno di un anno di distanza dal Macbeth, affrontato nella stessa sala, la voce risulta ridotta al lumicino, inesistente in prima ottava, vuota al centro, in cui compaiono sistematici slittamenti d’intonazione ai tentativi, parcamente ministrati, di cantare piano e smorzare i suoni (cantabile dell’aria), mentre dai primi acuti non c’è nota che non sia ghermita, quando non strillata. E siccome su queste note la voce ha ancora un po’ di volume (che, come ripetiamo quasi ogni volta e di questo ci scusiamo, non significa che la voce possieda ipso facto ampiezza e penetrazione), la cantante si sente autorizzata ad usare e abusare di tale caratteristica, concludendo di fatto ogni numero chiuso con l’esibizione di suoni, che con il canto lirico hanno davvero poco che spartire. Dispiace che una voce ancora dotata di una certa facilità in alto, benché allo stato brado, sia destinata a sprecare quel poco che avrebbe da offrire in questo e altri improbabili cimenti verdiani, quando potrebbe, con la premessa irrinunciabile di un lungo e meditato studio, affrontare con ben differenti esiti parti quali Manon di Massenet, Mimì e perché no, Lucia di Lammermoor, Margherita di Valois e Lakmé.
5) Le voci maschili compendiano bene lo “stato dell’arte” del canto e dell’interpretazione verdiana ai nostri giorni. Il protagonista, Stoyanov, accolto ai saluti finali da contenute contestazioni, ha voce legnosa, di limitato volume specialmente all’entrata e al finale secondo, in cui parecchie frasi sono non già declamate, ma parlate. Al “Dio di Giuda” il sistematico ricorso ai portamenti provoca fastidiosi slittamenti d’intonazione, mentre la cabaletta manca di mordente e slancio, oltreché di espansione in acuto. Beloselskiy canta imitando il più decotto Ghiaurov, con uno strumento di un certo peso specifico, ma faticoso e limitato in alto (in una parte in cui i fa e fa diesis non si contano) e comunque privo della cavata dell’autentico basso verdiano. Ancora peggio, se possibile, l’Ismaele di Sergio Escobar, che ligio ai dettami della scuola dell’affondo apre il centro producendo suoni artificiosamente ispessiti e rochi fino al sospetto di raucedine, quanto di peggio per una parte meramente decorativa e di cui sarebbe opportuno evidenziare le radici donizettiane, anziché proporre la maldestra parodia di un tenore di genere spinto.
6) Un caso a parte quello di Veronica Simeoni, che i roster delle agenzie accreditano quale voce ibrida, capace di passare agevolmente dal registro di mezzosoprano acuto a quello di soprano centrale. È, piuttosto, la solita voce di soprano lirico non sfogata, al limite dell’udibile in basso, con un bel “buco” al centro, acuti faticosi e ghermiti, oltre che propiziati (si fa per dire) da frequenti riprese di fiato. Basta un brano, vocalmente elementare, come la preghiera al quarto atto per evidenziare tutti i limiti di una cantante, per ben due volte salita sul podio del concorso “Voci Verdiane” di Busseto, una delle più rilevanti manifestazioni del settore (questa è almeno l’opinione degli organizzatori).
7) L’acustica della sala bolognese, da sempre celebrata come impeccabile, risulta, e non è la prima volta, un poco misteriosa. Ad arredi scenografici inviariati, la voce di alcuni cantanti (Escobar e Beloselskiy, in misura molto minore Stoyanov) risulta dapprima torrenziale, alcune frasi dopo microscopica, poi di nuovo tonitruante, benché il suono non accenni a spostarsi dal palcoscenico per espandersi in sala. Urge restauro?

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16 pensieri su “Consuntivi: Nabucco a Bologna.

  1. Ci sono in questi anni tanti miracolati: A Bologna ne è stato messo uno
    che dopo aver debuttato in lungo e largo per il pianeta, ora è costretto a dimostrare nella quotidianità il suo valore. Giorni fa osservavo che un signore tale Fabio Luisi nel 1981 a Martinafranca si esibiva quasi come un figurante in un’opera insolita,Fra Diavolo, sotto la bacchetta di Zedda.Si tratta di Fabio Luisi che anni dopo si cimentò quale direttore in Favorita. Da lì prese il volo e divenne quel direttore che è oggi.
    Mi pare di capire dalla recensione del Nabucco di Bologna, che non basta avere una illustre parentela per saper far fronte alla routine che è quella che spezza anche le più auliche ambizioni.

    • ho riletto i post.
      Non mi sembra che nessuno abbia criticato il tuo italiano.
      Se non ti sei fermato al primo post sul Nabucco avrai visto che qui si scrive in differenti lingue. Spesso alcuni di noi lo fanno non solo nella propria.
      Siccome sei russo non posso che proporti qualche cosa di quando la scuola di canto russa era una GRANDE scuola di canto e produceva grandissimi cantanti.
      Riflettere sul passato, soprattutto il proprio è un’occasione per apprendere.
      http://www.youtube.com/watch?v=jkLLEuKP6A0
      ecco perché ti posto un grande tenore russo
      Se vuoi ti metto pure un utilissimo ascolto in corda di basso
      http://www.youtube.com/watch?v=0Vdo7aBiS90
      ciao e mi permetto di dire che infame è, in italiano, un brutto insulto.
      dd

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