Confrontiamo due illustri esponenti della corda di soprano leggero di coloratura nella celebre aria della Linda di Chamounix, da sempre cavallo di battaglia per la voce del soprano d’agilità. Entrambe italiane, entrambe professioniste di massimo livello per le rispettive epoche (primo e tardo Novecento): Amelita Galli-Curci e Luciana Serra. Tutte e due, se non mi sbaglio, eseguono l’aria abbassandola di mezzo tono.
Iniziamo con la più antica, che già dal recitativo esibisce una emissione invidiabile per leggerezza, libertà, fluidità, morbidezza, malgrado una voce che di per sé non presenta particolari qualità di bellezza timbrica e ricchezza di suono. Intonazione e legato sono impeccabili, proprio in virtù di un imposto sempre galleggiante e omogeneo, privo di angolosità, spinte, durezze, veramente “sul fiato”, senza cioè nessun attrito derivante dal coinvolgimento della gola durante la fonazione. La dicitrice però è del tutto generica, la pronuncia talora è poco curata, spesso poco nitida e “abbandonata”, con manierismi tipici dei cantanti dell’epoca, come lo strascichio delle consonanti in parole come “al nostro favorito con(e)vegno”, “pittore ignoto an(e)cora”, “o noi con(e)tenti”. L’aria però è eseguita con una vocalità impeccabile in tutta la gamma (medium compreso, leggero ma ben a fuoco), infallibile musicalità nel risolvere picchettati e gruppetti di agilità, sgranati con velocità e precisione, intonazione superba, mai un attacco da sotto, aplomb strumentale nell’emissione delle note che nascono tutte già “fuori”, scoccando come piccole frecce a fior di labbro (solo questo consente la perfezione dei picchettati).
La Serra, di cui non sentiamo il recitativo, può vantare una non minore maestria nel venire a capo delle agilità, rapide, elettriche, ogni nota ben ribadita e sgranata, in una mirabile quadratura ritmica, senza il minimo rallentamento. Tuttavia l’emissione, soprattutto nel settore acuto, pur così ostentato, si presenta non del tutto pulita, poco tornita, anzi sgradevolmente bianca, aspra, e tagliente, a dispetto di un centro molto schietto e sfogato che anche in registrazione si percepisce essere piuttosto sonoro. A questo difetto in acuto, unito alla troppo generosa ostentazione di note estreme, credo sia da attribuirsi la causa del declino vocale cui la cantante andò incontro.
Come appendice, ascoltiamo la stessa aria eseguita dalla collega Devia, che non abbassa, ed è più sobria nelle variazioni, ma è limitata da una emissione assai meno sonora brillante e sfogata (anche se più morbida e levigata), e da una tecnica d’agilità assai più lenta e laboriosa, come dimostra l’esecuzione compitata delle progressioni di scale cromatiche nella coda.
La Galli-Curci e la Serra cantano il brano nella tonalità originale di do maggiore, come quasi sempre si fa: è la Devia che lo trasporta un semitono sopra e dunque conclude con un re bemolle e non con un do.
A parte questo comunque, preferisco per molti aspetti il live della Devia all’esecuzione della Serra, che fra l’altro come noti anche tu è funestata dall’inserimento di parecchi sopracuti non proprio esaltanti di cui francamente non si vede la necessità (e sì che pare un’incisione un studio, e quindi magari ci si poteva riflettere un po’ sopra…)
Veramente, da spartito, “O luce di quest’anima” è in re bemolle maggiore.
Hai ragione: non ho sottomano l’edizione completa Ricordi, ma l’edizione Schonenberger disponibile su IMSLP la dà in re bemolle maggiore. Ti confermo però che sia in teatro che in concerto la versione in do maggiore è di gran lunga la più diffusa (reperibile sia in paritura che come aria staccata, anche Ricordi): come si può verificare facilmente, è quindi la versione originale della Devia a essere l’ “eccezione” o quasi.
Io ho fatto riferimento all’edizione pubblicata su IMSLP. Peraltro me ne sono accorto per caso, neanche sapevo fosse prassi consolidata abbassare quest’aria.
Eccezione o meno (la Devia non è l’unica a rispettare la tonalità originale), l’aria non è in Do Maggiore. Detto ciò è un pezzo che detesto (come tutte le aggiunte “parigine” fatte da Donizetti all’originale viennese): lo trovo inutile e musicalmente mediocre, un capriccio da primadonna che allunga una partitura già lunga e non sempre ispiratissima. Per mio conto preferisco la Linda nella versione di Vienna, senza troppi ghirigori: “O luce di quest’anima” funziona meglio in un concerto…
Mi sembrava di aver già riconosciuto che la tonalità originale è evidentemente re bem. magg.: io l’ho scoperto in questa occasione controllando lo spartito completo su IMSLP, prima l’avevo sentita sempre e comunuque in do maggiore (vedendola spesso anche stampata in quella tonalità) e non avevo mai sospettato che potesse trattarsi di un trasporto di tradizione. Ho scritto appunto che la Devia è un’eccezione o quasi: non dubito che non sia l’unica a cantarla in re bem., ma è sicuramente in schiacciante minoranza, anche considerando le cantanti di riferimento del passato (Suthehland, Sills) e del presente (Pratt).
Non condivido comunque la tua antipatia viscerale per il brano: senza essere ovviamente un capolavoro, è un ottimo “veicolo” per la voce, ben costruito e niente affatto banale per la fraseologia con attacco ritmico acefalo. Come dici tu funziona molto bene come pezzo da concerto, ma anche nell’economia dell’opera la sua posizione è quella di una cavatina di presentazione e dunque non mi sembra che rischi di risultare una lungaggine o un rallentamento drammaturgico. Poi certo, è chiaro che complessivamente l’opera ne risulta un po’ “diluita”.
Il fatto è che l’eccezione (abbassamento) è diventato regola e viceversa. E questo solo per fini “primadonneschi”, ossia per inserire un acuto finale che se si mantiene il pezzo nella tonalità originale diventa assai difficile. In nome del puro effetto, dunque, si altera una costruzione tonale che collega il prima al poi, costringendo a passaggi di transizione musicalmente discutibili. Ovviamente parlo dell’aria inserita nel suo contesto, se si esegue in concerto non ci sono questi problemi… A parte ciò continua a non piacermi: la Linda è opera irrisolta, l’ultimo vero dramma semiserio della stagione del melodramma e accanto a momenti straordinari ha cadute di gusto altrettanto clamorose. E poi è molto lunga (e non sempre è musica ispirata: si pensi alla brutta ouverture). Ma se l’originale viennese – pur con i difetti a cui accennavo – mantiene la sua identità larmoyante, la versione parigina introduce divagazioni che allungano la solfa (nella già inutile parte di Pierotto soprattutto): “O luce di quest’anima” – brano brillante e leggero – stona col carattere melanconico di Linda (secondo me) e aggiunge solo un’occasione di virtuosismo ad un personaggio più patetico che scintillante. Mia opinione naturalmente, ma se devo scegliere opto per la Linda versione viennese (magari scorciata dell’ouverture).
Beh, effettivamente più che le transizioni tonali in sé a risentirne è il principio dell’alternanza delle tonalità, perché in questo modo vengono a succedersi due “numeri” entrambi in do maggiore, l’aria del marchese e la tyrolienne di Linda appunto. Sul discorso drammaturgico magari hai ragione tu, io la versione viennese originale la conosco solo a livello “teorico” e dunque non mi sono fatto un’idea precisa in merito. Anch’io poi non ho particolare simpatia verso quest’opera, ma credo si tratti anche di una particolare difficoltà che al giorno d’oggi abbiamo ad avvicinarci al genere semiserio, i cui codici e cui rimandi sono per noi molto più difficili da cogliere di quanto fosse all’epoca. Ad esempio tu rilevi giustamente l’apparente inutilità drammaturgica di Pierotto, ma proprio il suo personaggio di “giovane savoiardo” era all’epoca un potentissimo segnale di appartenenza al codice “larmoyant”: basti pensare almeno a “Les deux petits Savoyards” di Dalayrac, che fra l’altro era arrivato anche in Italia nella traduzione di Carpani (mantenendo addirittura la presenza dei “recitati” dell’opera comique).
Secondo me è proprio l’opera che arriva tardi. In fondo la grande stagione del genere semiserio era passata. Il pieno romanticismo – se pure “all’italiana” – che emerge da molte pagine, non può amalgamarsi agli elementi buffi, essendo troppo il distacco tra personaggi “seri” e personaggi “comici”: è tutte esasperato nei caratteri, al contrario della Cecchina, ad esempio, o della stessa Sonnambula. Pierotto è totalmente inutile (drammaturgicamente e musicalmente) mentre il Marchese è il personaggio buffo meno riuscito di Donizetti (troppo volgare e farsesco). Poi l’opera riserva pagine sublimi, ma nel complesso funziona poco.
Guarda, come ho detto non è un’opera che amo particolarmente e condivido gran parte delle tue critiche: concordo con te che l’opera “funziona poco”, però è forse interessante chiedersi se e quanto l’opera funzionasse all’epoca, e soprattutto quali erano le chiavi del suo “funzionamento”. Di quelle chiavi si è ora persa la comprensione, ma erano invece facilmente decodificabili allora, anche se la stagione dell’opera semiseria volgeva al termine. Torno su Pierotto: certo che ora risulta drammaturgicamente e musicalmente inutile. Non ha una precisa funzione “attanziale” e Donizetti non gli regala spunti melodici particolarmente efficaci e “donizettiani”. Ma il punto è proprio questo: nell’immaginario collettivo la figura del giovane savoiardo era intimamente connessa con la musica e il canto popolare, e dunque Donizetti ricalca appositamente per lui la canzone popolare strofica. Il primo ingresso di Pierotto, dietro le quinte e accompagnato dalla sola ghironda, doveva avere all’epoca un’aura mitica. E in realtà proprio sotto questo aspetto la sua funzione drammaturgica è cruciale: è proprio sentendo la canzone di Pierotto che nel secondo atto Linda “ritrova se stessa” e resiste a Sirval un attimo prima di cedere, ed è proprio ascoltando la canzone di Pierotto che Linda riprende la strada della guarigione dalla follia. Tutti questi erano ingredienti fondamentali nel codice larmoyant (e se non ricordo male, il dramma “La grace de Dieu” da cui è tratta l’opera traeva il titolo proprio dalla canzone ricorrente). Fra l’altro nella canzone di Pierotto “Per sua madre andò una figlia” Donizetti adotta una accentuazione intenzionalmente “errata” delle sillabe deboli, cercando di restituire in lingua italiana una caratteristica frequentissima delle chansons popolari strofiche dell’opéra comique (presente ad esempio nella canzone del savoiardo nell’opera di Dalayrac da me citata prima). È chiaro che tutti questi elementi oggi vanno completamente perduti nella fruizione: per cui se il valore di un’opera d’arte si misura da quanto è in grado di “sopravvivere alla propria epoca”, allora la Linda è certamente un fallimento.
Hai ragione quando parli di elementi (Pierotto) che caratterizzano il genere: il punto, però, è proprio la sopravvivenza di quel genere. Donizetti cerca di ridar vita all’opera semiseria, ne riprende le formule, i codici, ne arricchisce la struttura, ne rifinisce i contorni – e compone musica di straordinaria bellezza – ma si scontra con l’impossibilità di far tornare indietro il tempo. Per me Linda – insieme alla Gazza Ladra e Sonnambula – resta uno dei capolavori assoluti del genere semiserio, solo, a differenza delle altre due – cade fuori tempo. Non è un fallimento, è semplicemente inattuale. Un po’ come La Clemenza di Tito, per quanto riguarda l’Opera Seria metastasiana.
Sono ancora a bocca aperta per l’esecuzione della Galli Curci… L’unica sua pecca è la pronuncia e non solo per i manierismi con i quali all’epoca si risolvevano le 2 consonanti consecutive per non rompere il legato (Francesco Lamperti invece suggeriva: “Siccome le consonanti non hanno suono, sarà d’uopo defraudare un piccolo spazio di tempo alla prima di due note, una delle quali termina, l’altra principia con una consonante, per lasciare intatto quello della seconda, producendo quindi un impercettibile silenzio tra le due note”.).
A livello di imposto vocale, la Serra è qualche piano sotto, non solo qualche gradino. E adesso è tra le insegnanti di canto di riferimento… Mi chiedo cosa abbia da insegnare. La Devia, oltre che per morbidezza e levigatezza, si fa apprezzare per la pronuncia. Comunque la voce non “galleggia” come quella della Galli Curci.
Credo di non aver capito molto bene il consiglio di Lamperti. Cioè lui suggerisce, mi pare, di staccare le due sillabe, ma così appunto il legato si spezza.
Diciamo che tutto sta in quanto impercettibile è questo silenzio. Alla fine comunque è chiaro che un piccolo pregiudizio al legato è connaturato alla pronuncia delle doppie consonanti, si tratta di cercare di ovviarlo meglio possibile. Mi è sembrato un suggerimento utile, ma il canto è attività eminentemente pratica e sensoriale ed è difficile descrivere a parole anche solo i singoli elementi del processo di emissione della voce. L’esempio di un buon maestro (ed anche l’ascolto di buoni cantanti…) è più chiaro di tante parole. Comunque per non erigermi ad esegeta di Francesco Lamperti, ti lascio direttamente il link dove scaricare la sua Guida: http://imslp.org/wiki/Guida_teorico-pratica-elementaire_per_lo_studio_del_canto_(Lamperti,_Francesco). Questa osservazione sulla pronuncia la trovi a pag. 14.
Dico la mia. Intanto non tutte le consonanti sono sorde, ci sono consonanti sonore su cui si può legare benissimo, anzi sono di aiuto. Con quelle insonore la fonazione invece si blocca, e per non far sentire la cesura il trucco sta nel pronunciare con scioltezza e fluidità, come quando si parla (si canta come si parla). Già nel parlato c’è il legato.
e’ una domanda che mi sono posto anch’io. Soprattutto alla luce dei risultati della più “portata” alunna della scuola scaligera
Molto seriamente, ecco l’esecuzione di riferimento: https://www.youtube.com/watch?v=aFwrVl3Tw6Y
sicuramente la migliore esecuzione di questo brano è stata incisa agli inizi anni 60 da Joan Sutherland. La Galli Curci è comunque straordinaria. Le si perdona la gnagnera ( come la definifa la Favero ) e cioè la “e” posta tra le due consonanti perchè canta con una leggerezza affascinante. La Serra !!!!!! va bè ma non si puo’ neppure avvinare al modo di cantare della Galli Curci. La Devia? canta come sempre tanto bene, musicale, intonatissima. Ma le manca sempre 1 per fare trentuno.
Io trovo altrettanto notevole, rispetto alla versione Sutherland, quella della Sills, che ha cantato spesso questo brano in concerto. Non perdertelo.
se posso devo dire che ci sono molte esecuzioni splendide sotto il profilo vocale e di esecuzione delle acrobazie, ma due sono esecuzioni di riferimento ossia Rosina Storchio e Marcella Sembrich. La prima non si fa prendere la mano dalle acrobazie pur esibendo facilità anche nell’esecuzione dei trilli (lei che la tradizione della storia del canto dice verista)e l’altra è l’archetipo di tutte le esecuzioni acrobatiche con in più uno slancio ed un mordente che nessun’altra possiede. Neppure la Sutherland
francamente la Sutherland m sembra perfetta in quest’aria che per come e’ strutturata non penalizza piu’ d tanto chi non e’ fine dicitrice. Io la ricordo strepitosa ad Asolo e se anzi qualcuno ha quel recital (che so esistere) posso scambiarlo con altro d pari dignita’.
Purtroppo, la versione della Sembrich non esiste sul tubo. Ho ascoltato invece la Storchio, ed è, in effetti, notevole. L’unica cosa che inficia un po’ l’ascolto è la registrazione, e per questo preferisco l’edizione della Galli-Curci.