Sono tra i conclamati divi di oggi, quelli che i grandi teatri propongono nelle cosiddette grosse produzioni. Se le case discografiche non risentissero tanto della presente congiuntura economica, sfornerebbero dischi con l’alacrità dei loro omologhi delle generazioni passate. E bene farebbero ad affrettarsi, perché le carriere costruite sulla florida natura sono giocoforza temporalmente limitate, per giunta ostacolate da non sporadici forfait. Intendiamoci bene: Piotr Beczala e Joseph Calleja non sono certo il peggio che le illuminate menti di maestri di canto, agenti teatrali e critica patinata hanno formato, imposto e magnificato come il non plus ultra dell’arte vocale. Ben altre e ben peggiori sono, in questo senso, le autentiche vergogne e imposture, che mortificano l’arte (quella vera) e, quel che è peggio, livellano verso il basso le aspettative del pubblico, specialmente quello più giovane ed entusiasta. Basta però la canzone del Duca di Mantova, brano vocalmente elementare, a porre in rilievo, impietosamente, tutti i limiti dell’imposto, o meglio dell’assenza di imposto meditato e sistematico, dei cantanti in questione. Entrambi voci liriche, se non lirico leggere, affrontano una parte che richiede in pari misura ampiezza al centro, squillo nella regione medio-acuta, varietà di fraseggio, accento ora tenero e languido, ora sfrontatamente virile. E appunto nelle ciniche osservazioni del libertino impenitente, che neppure l’amore salvifico di Gilda riesce a redimere, i due tenori giocano alla rana che volle farsi bue e cantano con un centro artificiosamente enfio, con conseguenti problemi d’intonazione, evidenti soprattutto nei portamenti verso il basso che Beczala dispensa ad esempio su “muta d’accento e di pensiero” (frase in cui entrambi gli esecutori evidenziano una zona medio-grave di ben scarsa consistenza) e più ancora al sol diesis di “acCENto” (zona del passaggio superiore), in cui la voce va indietro (Calleja) o suona aspra e sforzata (Beczala), con sistematico ricorso a suoni che poco hanno che fare con il canto lirico. Tralasciamo quello che avviene all’attacco della seconda strofa, quando Beczala tenta di essere ironico e suadente cantando piano: parla. Calleja, che pure risolve il tradizionale si nat in coda con maggiore facilità (la cadenza preparatoria di entrambi, per inciso, in altri tempi sarebbe stata definita “robetta”), mostra nella perfetta immobilità dell’ampio e veramente tenorile torace quanto rilievo abbia la natura, e per conseguenza quanta poca stabilità (in ogni senso) alberghi in una simile tecnica di canto. Si vedano anche, ma soprattutto si sentano, le cospicue e poco musicali riprese di fiato. Poi ci sarebbe da affrontare il tema dell’interpretazione, ossia dell’apporto individuale che simili esecuzioni possono fornire alla musica e al suo carattere. Per fortuna ci sono le regie, infallibilmente in stile semi-stage o in salsa clinico-psichiatrica, a rimuovere (almeno in apparenza) il problema.
5 pensieri su “Ascolti comparati. “La donna è mobile”: Piotr Beczala vs. Joseph Calleja”
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http://youtu.be/YkgHfXbAWDA http://youtu.be/yu10IlhAscw http://youtu.be/lm15_tXBcoY
Beczala e Calleja, se siete ancora in tempo, STUDIATE
Confesso che mi sono rifiutato di accedere ai due video, disgustato dalle immagini che lo introducono; il figuro sopra pare il guardamacchine di un albergo equivoco, e quello sotto un barbone seduto su una panchina, con addosso gli abiti rimediati frugando in un contenitore di panni smessi della Caritas. Chissà a quali menti pervertite di registi si debbono queste rappresentazioni del Duca (!)di Mantova. Quanto alle prestazioni vocali dei due soggetti, non ho motivo di dubitare di quanto sostenuto dall’autore dell’articolo, conoscendo bene i due vociferatori; ragione che rafforza la mia inclinazione a risparmiarmi ascolti penosi per le mie orecchie.
Caro Lele, io invece sono un povero curioso e, anche a costo di farmi male, sono capace di gesti estremi tipo ascoltare ‘sti due.
Beh, per far fuori il primo basta un orecchiante in gamba, autodidatta e appassionato di lirica, che dopo una allegra cena fra amici, imbarcato magari anche mezzo litro di quello buono, cede alle richieste dei commensali e gli canta il duca, facendo la sua degna figura – e non scherzo -.
Quanto al secondo, è una volgare truffa vivente – non cantante, sia chiaro, solo vivente – e i paganti biglietto sono stati truffati, roba da class action per la restituzione dei soldi.
Ringrazio Fazzari per il post, il russo sa il fatto suo.
Tamburini, per cortesia, clemenza per il nostro povero orecchio, questi sono veramente duri da mandare giù.
caspita com’e’ autoprotettivo lele bruni! impermeabile anche a delle potenziali perle nere (viste le premesse dell autore) e chissa’ come avra’ saputo ben occupare il il tempo sottratto agli ascolti di Beczala e Calleja. Che invidia…
E va bene, mi avete costretto a guardare questi video… Mal me ne incolse, come prevedevo.
Beczala: bel timbro; tecnica mediocre; smorzature faticose, ove il falsetto è alle viste; acuti apparentemente facili, per mero dono di natura, ma si sente lo sforzo; verso la fine si traode distintamente fatica di gola.
Calleja: imita spudoratamente Pavarotti; qua e là lievemente nasale, tentando surrogare deficiente immascheramento; nessuna dinamica; fraseggio da osteria; cadenza energica ma tirata via; falsetteggiamenti.
Il mio dover lo feci. Ora mi vo ad ascoltare un disco di Luciano Tajoli per rifarmi le orecchie.