Nei Maestri Cantori troviamo due tipi di utopie, uno politico, l’altro artistico, che s’incrociano per formare un dispositivo ideologico di importanti conseguenze. L’utopia politica è rappresentata dalla comunità cittadina determinata da una totale omogeneità o monoculturalità la cui basi è l’arte. Quest’opera che ci dipinge con ammirevole ricchezza di colori e di dettagli uno spazio urbano ermeticamente chiuso della fiera borghesia tedesca di Norimberga, città-isola che nel cinquecento si convertì al protestantismo in mezzo ad una regione rimasta maggiormente cattolica, elimina placidamente qualsiasi personaggio politico di rango locale o direttamente legato al Sacro Romano Impero della Nazione Germanica. Persino nel prato festivo del finale l’unico “capo” della città è Hans Sachs, il poeta-ciabattino, il quale proclama: “Andasse anche in polvere / il sacro romano impero, / a noi resterebbe sempre / la sacra arte tedesca!” Wagner presentò il libretto a Constantin Frantz, celebre pubblicista il quale sosteneva l’idea di una “natura” propria ad ogni nazione e per questo esigeva uno stato federativo (rispettoso della “natura” rispettiva di ogni nazione che facesse parte dello stato) invece dello stato-nazione promosso da Bismarck per la riunificazione delle terre tedesche. Nel libretto Frantz ha sentito la mancanza del sottofondo del Reich, l’insieme sembrava troppo poco politico. Frantz non ha capito che l’esaltazione dell’arte tedesca in quanto sostituto dello stato tedesco fosse proprio il messaggio più profondamente politico che Wagner abbia concepito.
La sostituzione del Reich politico dal Reich artistico fornisce proprio quell’aura di apoliticità e di spiritualità pura che diventò appunto la base culturale specifica della riunificazione della Germania. Il punto però risiede altrove: questo “spirito tedesco”, concetto ripetutamente utilizzato da Wagner nei testi pubblicistici degli anni 1860-70, fa fatica di vedersi realizzato anche quando l’opera della riunificazione degli stati tedeschi è ormai compiuta. Lo “spirito tedesco”, apolitico come egli vuole essere, diventa la base dell’esigenza di una nuova politica identitaria, alla ricerca di una “germanicità” che non trova mai spazio né tempo a meno che si realizzi politicamente la sua presunta essenza apolitica, ossia quella di una purezza ed originalità tedesche, tanto irreale e pericolosa quanto vaga nella sua determinazione spaziale e spirituale. Non è un caso che proprio quest’opera che esalta l’apoliticità sia divenuta il veicolo ideologico nella strumentalizzazione nazista di Wagner.
La seconda utopia, quella artistica, presente nei Maestri Cantori consiste nella contrapposizione del pedantismo e meccanicismo dello scrivano comunale Sixtus Beckmesser e della genialità spontanea del giovane cavaliere Walther von Stolzing. Con Walther Wagner mette in scena il sogno di una creatività immediata e felice che sia priva della penosa mediazione attraverso il lavoro, sempre discontinuo e a tratti anche banale. Le canzoni di Walther, elaborati come sono, stanno per questo fiume inarrestabile di ispirazione naturale, mentre Beckmesser è quell’elemento di meccanismo, di “lavoro”, di tecnica che Wagner vorrebbe dimenticare, mascherare, come il Meister lo farà davvero, qualche anno dopo la prima dei Maestri Cantori, coprendo l’orchestra, “il focolaio tecnico della musica”, nel suo Festspielhaus a Bayreuth per creare l’illusione di una totale spontaneità dell’azione teatrale. E’ interessante quanto Wagner stesso sia stato simpatico verso la figura di Beckmesser considerandolo un maestro cantore competente, difensore proprio di quella “forma”, di quel “canone” di tradizione che Hans Sachs loda come il grande merito dei maestri cantori. Il fatto stesso che Sachs obblighi Walther a lavorare meticolosamente sullo sviluppo della sua canzone dimostra l’importanza del beckmesserismo troppo spesso identificato ad un mero pedantismo dei critici, un pedantismo che non saprebbe cogliere “l’emozione” e la creatività dietro le varie inesattezze e manchevolezze della tecnica. E’ un concetto di beckmesserismo che fa molto comodo proprio alla critica acritica ed agli artisti privi d’arte che oggi così spesso vediamo e sentiamo.
C’è poi nei Maestri Cantori una sintesi delle utopie politica ed artistica. Alla naturalezza ed originarietà della creatività di Walther corrisponde l’intuizione immediata del “popolo”, capace di differenziare a primo udito una creazione “veramente” ispirata da una creazione semplicemente meccanica. E’ per questo che nel primo atto Hans Sachs propone di affidare al popolo il giudizio nella concorso musicale dei candidati alla mano di Eva Pogner. Effettivamente, nel finale terzo Wagner mette in scena un’immediata commozione del popolo difronte al canto di Walther. Cosi Wagner crea l’immagine di un popolo che sia fonte dell’originarietà dell’arte tedesca, mentre quest’arte stessa rappresenta la fonte che nutrisce il popolo e diventa il fondamento “organico” dell’organizzazione politica di tutta una comunità, come lo si vede nella Norimberga di Wagner. Il merito dei maestri cantori, ai quali alla fine aderisce anche il ribellante Walther, consiste nel fatto che essi sanno mantenere il perfetto equilibrio tra forma (tradizione, meccanismo, lavoro) e le forze della vita spontanea, dionisiaca, organica, fino nella monumentale fuga domata del randello notturno del secondo atto in cui si scatenano proprio quelle energie demoniache ed aggressive da cui questa “opera nazionale” pare sia emersa: nel 1835 Wagner si trovò implicato in un randello notturno proprio a Norimberga da cui lui prese l’ispirazione di comporre un epilogo satirico a Tannhäuser.
Da 1845, quando Wagner concepì per la prima volta la trama di quello che doveva essere una commedia popolare, fino agli anni 60 la concezione “travasò”, come tanti altri progetti di Wagner, e ricevette quella forme complessa, grandiloquente ed a tratti abnorme, che alla prima mondiale le costò non poche critiche. Sono mancati gli orecchi per i dettagli di cui I Maestri Cantori sono fatti in realtà – di cui rimangono seminati anche nei momenti più ampollosi – ed i quali richiedono un canto di rara rifinitezza capace di cogliere tutte le sfumature del fraseggio musicale e testuale di un dramma musicale pieno di calore, di un commovente umorismo pesantuccio, di demonismo e perversità sessuali (si vedano i rapporti tra Magdalene e David o il flirt continuo tra Sachs e Eva), di dialoghi di grande gusto e, non da ultimo, di un gioco musicale permanente con le forme antichizzate (fuga, corale, coloratura, marcia dei maestri cantori) e persino con i vari “operismi” (si veda il quintetto).
Quei “operismi” ed anticheggiamenti sono importanti, perché in fondo I Maestri Cantori si erigono come un monumento, ambiguo e multicolore, di una disperata ed avventurosa ricerca della forma di quello che sarebbe puramente tedesco. Tristemente, questo “spirito tedesco” che durante i tre atti passa attraverso tante forme artistiche, tanti accenti anticheggianti od “italianizzanti”, sumblimandosi persino nel quintetto di rossiniano assolutismo musicale, per trovare la sua forma, il suo presente e futuro, come un fanatico di shopping proverebbe mille vestiti per arrivare a quel vestito definitivo, lascia nel finale il suo gioco mimetico per sostituirlo da un discorso assolutamente privo di umorismo e di auto-distanza. “State attenti! Cattive fortune ci minacciano! / Se avvenga un giorno, che popolo e impero tedesco cadano / sotto falsa maestà latina; / e che nessun principe comprenda ormai più il suo popolo, / e latino fumo e frivolità latina / trapiantino essi nella nostra terra tedesca; / nessuno allora più saprà quel ch’è puro tedesco, / se esso non vivrà nella gloria dei Maestri tedeschi.” Però quella “frivolità latina” che il pubblicista e teorico Wagner condannava nella forma dell’opera franco-italiana del suo tempo in quanto cosmopolita, superficiale, mercantilista, tecnico, meccanico, mai organico, e – ovviamente! – ebreo, falsamente mimetico, è ancora necessaria nelle sue premesse formali e tecniche perché la “purezza” tedesca possa segnalarsi. Come Beckmesser viene incluso in questo spazio omogeneo per essere escluso – ma ancora rappresentato! – come outsider (per seguire le analisi di David J. Levin sulla “drammaturgia dell’alterità” di Wagner), anche l’elemento “latino” deve essere invocato per essere subito escluso, il che garantisce quella purezza del tedesco che per tutta l’opera si cercava a tastoni, attraverso mille giochi e sperimenti mimetici. I Maestri Cantori, malgrado il loro “realismo”, sarebbero l’opera più mitologica di Wagner proprio per il fatto che con questo problematico capolavoro si dà spazio a quella logica mitologizzante la quale deve inventare degli “altri”, dei nemici da escludere per arrivare alla formazione di una comunità omogenea impossibile o possibile solo a spese di un gesto violente di esclusione.
Durante le prove della prima assoluta il soprano Mathilde Mallinger (insegnante di Lotte Lehmann) aggiunse un trillo nella sua frase “Keiner wie du so hold zu werben weiß!” dopo la gloriosa esecuzione della canzone di Walther nel finale terzo. All’indignazione dei colleghi Wagner rispose di lasciarla giocare e ritenne il trillo nello spartito. Il gioco è quindi ancora possibile anche quando la “frivolità latina” con tutto il suo linguaggio musicale considerato antiquato e superficiale, che esso sia trillo o coloratura, viene denigrato per esaltare una profondità e spiritualità tedesche quale unica forma possibile di un’arte del futuro. Il gioco sparisce però quando un certo pubblico prende alla lettera l’ammonizione paranoica sulle “cattive fortune” che “minacciano” il “puro tedesco” ed inizia un’interminabile caccia alle steghe.
bell’articolo, però non vorrei che con riguardo alla revisione del personaggio cattivo vi fosse un’inconscia captatio benevolentiae nei confronti dei fondatori del blog. Segnatamente, so per certo, ma per certo che sul mezza coda della Grisi e di Donzelli c’é una foto con dedica “agli amici del Corriere della Grisi” (traduco ovviamente) datata 1547 (mi pare) e firmata in Nurnberg SIXTUS B…
Cara Giuditta, premessi i doverosi complimenti per il bellissimo articolo, devo dire che non concordo su alcuni punti del tuo discorso: in particolare relativamente al personaggio di Beckmesser (e al presunto conflitto regole/ispirazione), alla pretesa “italianità” dei Meistersinger e, infine, alla questione nazionalistica e alla contrapposizione tra arte latina e arte tedesca.
1) Scrivi che Wagner, nel tracciare il personaggio di Beckmesser non avesse voluto, in realtà, criticare tanto l’approccio formalistico alla musica, ma, anzi gli avrebbe reso un involontario omaggio (in quanto Beckmesser, preso in giro unicamente per certa pedanteria, incarnerebbe la perfezione della tecnica, tanto che gli altri cantori, riconoscendone la superiorità e la profonda conoscenza dell’arte, gli avrebbero assegnato il ruolo di guardiano della tradizione e censore). A mio giudizio non è per nulla così. E’ noto, infatti, che Wagner intendesse il suo personaggio come una parodia del famigerato Hanslick, autore di quel pamphlet – “Il bello musicale” – che sulla base di un formalismo integralista e un accademico attaccamento alle cosiddette “regole”, aveva come bersaglio principale, la musica “moderna” in generale e quella wagneriana in particolare (definita miserevole, tronfia, informe, fumo di oppio, sbagliata). Beckmesser – che inizialmente doveva chiamarsi Hans Lich (guarda caso) – rappresenta quell’ottusità, quella rigidità, quell’attaccamento fine a sé stesso ai “regolamenti”, che il critico viennese assumeva nei confronti di tutto ciò che non riusciva a capire (arcinote sono le sue posizioni su Bruckner, Chaikovskij, Puccini…che denotano solo livore e, spesso, ignoranza). Wagner lo ridicolizza senza alcuna pietà o simpatia: perché è ovvio che la tecnica sia prodromica all’espressione artistica, ma essa, una volta metabolizzata, va appunto “dimenticata” (come diceva Horowitz) per lasciare spazio alla più pura ispirazione, “al furore delle muse, al sogno”..che plasmino la tecnica e la riformulino in forme più nuove. Seguendo pedissequamente le regole si ottiene al massimo – come dichiara Sachs – un bel paio di scarpe. C’è, nell’esperienza artistica, una componente trascendente – sognante, appunto – che fa dire al calzolaio cantore “Ogni arte poetica, ogni poesia, non è che interpretazione di verità sognate”. Beckmesser invece chi è? Un mediocre cantore, mal tollerato da tutti gli altri, una figura miserabile e gretta, l’unico che non svolge un “mestiere” (un’arte, appunto), ma un grigio incarico amministrativo: è scrivano comunale e rappresenta l’autorità burocratica, rigida e stupidamente attaccata alla forma (intesa come sostanza) contrapposta alla vitalità cittadina e anarchica di Norimberga. E’ un uomo solo e consumato dal suo attaccamento alla regola, frustrato e stupido, che impersona la negatività del potere costituito (e quanto il potere sia messo in secondo piano nell’estetica wagneriana e nel suo sentire politico, lo dice lo stesso Sachs quando afferma “possa anche andare in cenere il Sacro Romano Impero”). Sciocco e intrigante come Mime. Rappresenta non solo il formalismo di Hanslick, ma anche l’accademismo di Mendelssohn (da sempre detestato da Wagner) e la furbizia di Meyerbeer (a Vienna, nelle prime rappresentazioni, Beckmesser era raffigurato come un ebreo, e Wagner apprezzò pubblicamente tale scelta). Una figura, dunque, profondamente negativa nell’ottica wagneriana.
2) Stupisce leggere di certa “italianità” dei Meistersinger. Aldilà, infatti, dei meri aspetti formali – non vi è l’ombra nella struttura dell’opera di qualcosa che possa assomigliare neppure vagamente alle formule dell’opera all’italiana – i Meistersinger si propongono come la summa della musica tedesca. Non solo nel rifiuto del carattere edonistico del canto, ma soprattutto nel continuo e onnipresente riferirsi al contrappunto, a Bach, ai corali luterani, ai lieder, ai minnesanger, alla polifonia drammatica beethoveniana, all’armonia, al cromatismo… Tutto un mondo estraneo alla musica italiana e alla sua scuola di canto che in altre formule espressive trova il suo sfogo. Si può dire, anzi, che i Meistersinger siano un’opera anti italiana (musicalmente), in cui ogni misura pone un netto distinguo tra l’arte tedesca (intesa come sincera e autentica, non mediata da convenzioni e formalismi) e arte latina (decadente e degenerata, tesa ad auto conservare la propria artificiosità in forme ormai sterili e vuote). Basti pensare alla citazione del Tancredi di Rossini, all’ingresso dei sarti nel secondo quadro del III atto, dove in corrispondenza non certo casuale delle parole “Quando Norimberga fu assediata, e c’era la fame, popolo e città sarebbero andati in rovina…”, risuona, con intenti sbeffeggianti, “Di tanti palpiti”: è chiaro che il riferimento a Rossini – che incarnava quella tradizione italiana e latina contro cui si scagliava Wagner – in quel punto, rappresenta l’assedio musicale dell’opera italiana (corruttrice e ingannevole) alla virtù dell’arte tedesca. Altro che omaggio…è una vera dichiarazione di guerra!
3) Il nazionalismo dei Meistersinger: qui storia e politica, purtroppo, si intrecciano e oggi – dopo l’esperienza del III Reich – tendiamo a sovrapporre l’uso che il Nazionalsocialismo fece dell’opera, con l’opera stessa. In realtà si confondono i piani: i Meistersinger non potevano non essere esaltati dal Nazionalsocialismo, e non perché opera politicamente dubbia o cripticamente antisemita (o peggio “nazista” – termine che non mi piace usare), ma perché intrinsecamente “tedesca”, e come tale sentita nella Germania hitleriana. I Meistersinger rispondono ad una precisa esigenza storica e filosofica: la reazione nei confronti di una borghesia decaduta che ormai aveva dimenticato le sue origini e che era ormai incapace di identificare i capisaldi della sua cultura senza ricorrere alla mediazione di elementi extragermanici che ne edulcorassero e semplificassero il portato ideale: così essa non era più in grado di comprendere il Tell di Schiller o il Faust di Goethe senza la fascinazione melodiosa e frivola dell’opera italiana e di quella francese. Wagner riparte dall’arte per l’arte esaltando il popolo tedesco del passato per auspicarne il ritorno nel futuro, giacché il presente è ormai segnato dalla decadenza (proprio così scrive Nietzsche a proposito dei Meistersinger). Non è un’utopia, ma una precisa missione, direi una necessità nel ritrovare l’identità perduta.
Ecco perché ritengo i Meistersinger l’opera che più di tutte incarna l’estetica wagneriana, il mito wagneriano riportato alla dimensione attuale (e inattuale) dell’uomo. Del rivoluzionario Wagner e del luterano Wagner.
Grazie, Duprez, per il bellissimo commento!
Quello che potrei rispondere in questo momento sono le cose seguenti:
1) E’ vero che all’inizio Beckmesser doveva chiamarsi “Hanslich”, però come il progetto originario di Wagner di scrivere un semplice pezzo satirico, basato sui scherzi di Sachs e la bagarre notturna, si è sviluppato in una visione monumentale, anche il progetto di parodiare Hanslick è man mano divenuto una riflessione più profonda sulle questioni generali di arte e tecnica. Tu vedi in Beckmesser strettamente un’immagine di Hanslick. Io ho preferito di prenderlo nella sua versione finale, quando il libretto era già pronto e pieno di tutte le riflessioni più ampie che ancora mancano quando Wagner concepisce astrattamente di fare una satire tedesca o una caricatura di Hanslick.
2) L’italianità dei Meistersinger che ho sottolineato è solo uno di molti elementi mimetici ed anticheggianti dell’opera. E’ italiano il quintetto come è italiano il finale del secondo atto del Crepuscolo in cui la priorità della comprensibilità del testo si perde nel momento assoluto di un pezzo d’assieme. E’ vero che i Meistersinger sono in un certo senso un omaggio alla tradizione musicale tedesca con tutta la sua polifonia etc., però anche quell’omaggio è talmente parodistico e volutamente mimetico che nel risultato finale la differenza fra il parodiamento degli elementi italiani e l’omaggio a quelli tedeschi si perde. Tutto è omaggio e parodia allo stesso tempo. E’ proprio per quest’indifferenza fondamentale fra omaggio e parodia che la “soluzione” che propone il discorso di Sachs risulta terribilmente violento ed ipocrita.
3) Anche in questo caso non posso che unire i due elementi che tu contrapponi. I Meistrsinger sono una missione ed in questo sono anche una utopia. Le tue premesse sono giustissime: Meistersinger sono una ricerca nel passato di una identità tedesca del futuro.
La cosa che iscrive sia Wagner che il nazismo nella stessa linea storico-culturale è quello che Walter Benjamin chiama “estetizzazione della politica” e la quale è essenzialmente una tendenza che caratterizza il romanticismo tedesco: li dove non c’è stato, arriva il dominio dell’arte; e li dove c’è banalità, deve arrivare la poesia. I Meistersinger dipingono una communità che finge di essere apolitica perché nutrita solo d’arte. Invece, come ho già scritto, questo gesto è massimamente politico, perché in questo caso l’arte non fa altro che diventare l’esigenza di una politica diversa, ma ancora politica nel senso più banale di organizzazione di stato e società. Solo che questa “banalità” della politica inizia a orientarsi sulla base di criteri altamente romantizzati come lo spirito, l’eroismo etc. E’ questa estetizzazione della politica che portò i tedeschi a metaforizzare la guerra politica della Prima Guerra Mondiale in termini mitici-poetici di Siegfried, Nothung, rigenerazione ed altri motivi wagneriani-romantici-religiosi. E’ proprio questa la logica con cui i nazisti strumentalizzano poi non solo I Meistersinger ma anche il resto di Wagner. Non ci cercano necessariamente elementi antisemitici. Per quello Wagner era troppo inconseguente. Non c’è nessuna traccia documentaria che i nazisti abbiano voluto esplicitamnte che Mime o Beckmesser siano stati rappresentati come “ebrei”. Non ne avevano bisogno. Wagner era necessario per dare un’aureola estetica e pseudo-apolitica all’ordine politico del nazismo ed i Meistersinger erano proprio l’opera perfetta,perché esaltavano questa finta apoliticità.
Complimenti ad entrambi per l’analisi interessantissime e grazie per aver caricato eccezionali esempi musicali.