Tra la fine del secolo XIX e la prima metà del XX, corre un periodo, nella storia musicale italiana, che viene solitamente definito “giovane scuola”. Dopo la grande stagione verdiana, l’opera – o meglio, il melodramma – cercava una nuova via e un nuovo linguaggio per tenersi in vita e ridefinire la propria identità culturale rispetto al wagnerismo di ritorno e alle avanguardie europee. Una costellazione di nuovi compositori, con storie personali, stili e formazioni differenti, cercarono di percorrere queste nuove strade, in bilico tra l’assunzione di un’importante responsabilità e la consapevolezza di essere gli eredi (designati, immaginati, presunti) di una grande tradizione morente. I risultati furono diversi come diversi erano gli autori, ma è indubbio che segnarono un importante fenomeno culturale. A fronte dell’immensa popolarità di cui certi titoli godevano nei primi decenni del ‘900, oggi un particolare oblio si stende sulla “giovane scuola”. O meglio: una vera damnatio memoriae. Già, perché oggi si parla di quegli autori con un misto di disprezzo, sufficienza, risentimento, stigmatizzandone le presunte ingenuità e definendoli quali semi dilettanteschi compositori di musica di infimo livello, ad uso di reazionari e nostalgici o comunque di provinciali mentecatti impermeabili alle più elevate sirene dell’avanguardia europea. E così, nei salotti buoni della critica, si deridevano (e tuttora si deridono) Mascagni, Leoncavallo, Zandonai, Giordano (Puccini si è salvato solo post anni ’60, nonostante gli strali di Adorno) etc…ritenuti robaccia da ignoranti: musica al massimo “carina”, adatta più a fare da colonna sonora di una pizzeria italo americana o a una fiction su Al Capone che a calcare le assi di palcoscenici raffinati e sprovincializzati. Due sono le ragioni di tali pregiudizi: fattori ideologici e presunte manchevolezze musicali. I primi derivano essenzialmente da un peccato originale che accomuna più o meno tutti gli autori della “giovane scuola”: essere vissuti e avere operato nell’Italia fascista, ottenendo dal regime riconoscimenti di varia natura. Ovvio che non può essere una colpa la data di nascita, ma tra certi professionisti dell’indignazione è un delitto non da poco. Il sillogismo è semplice quanto assurdo: se il compositore X ha vissuto in Italia tra il 28 ottobre 1922 e l’8 settembre 1943, e durante tale periodo non si è opposto al regime, non è scappato e, anzi, ha continuato a lavorare indisturbato, onorato e premiato, allora è ipso facto un fascista meritevole se non di finire imputato in un processo sommario, almeno di essere condannato ex post all’oblio… La seconda ragione riguarda presunte ingenuità musicali: la “giovane scuola”, infatti, viene da certa critica ritenuta una specie di terzo mondo musicale, fatta da semi analfabeti del pentagramma. Peccato che chi si lambicca in tali ragionamenti e dotti confronti tra Mascagni e Strauss, Leoncavallo e Britten, Zandonai e Berg, ignori – o non consideri – la particolare evoluzione dell’opera in Italia. Il linguaggio musicale italiano, infatti, è del tutto peculiare rispetto al corrispondente europeo di area austro/tedesca: il fondamento è il canto, che ha, nella particolare scrittura degli autori nostrani, un ruolo assolutamente centrale, laddove in altre realtà europee è invece elemento che, al pari della costruzione orchestrale, contribuisce alla creazione musicale. Monteverdi, Pergolesi, Paisiello, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi…sono tutti accomunati dalla particolare importanza data all’elemento vocale. Ciò non significa, ovviamente, un livello migliore o peggiore (qualitativamente), ma semplicemente una diversità di linguaggio. Lo dicono Beethoven, Wagner…pure Nietzsche. Solo chi ignora le regole del discorso storico può mettere sullo stesso piano Giordano e Berg e asserire che l’uno è migliore dell’altro: sono cose diverse. Viene poi il sospetto che altra colpa imperdonabile sia la grande popolarità della “giovane scuola”: popolarità che viene intesa come volgarità. Ed è quantomeno strano che una critica così snobistica venga da una certa cultura che ha sempre teorizzato fantomatici “governi del popolo e per il popolo”, ma che evidentemente ha in odio e in sospetto qualsiasi cosa che piaccia a quel popolo probabilmente differente da quello da loro teorizzato (almeno al netto di certe rieducazioni). Per rendere omaggio a quella che è giusto definire l’ultima stagione della grande cultura italiana, il Corriere della Grisi proporrà mensilmente l’analisi di uno di quei titoli una volta famosi e “popolari”, poi divenuti negletti e “proibiti”, aiutati da ascolti e documenti. Buon ascolto.
10 pensieri su “Musica proibita: l’opera italiana del ‘900. Un’introduzione.”
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Mi sembra un’iniziativa meritoria, e vi leggerò con molto interesse, proprio perché confesso di essere fra quelli che d’istinto arricciano snobisticamente il naso di fronte a questo repertorio. Ma l’impostazione che tu proponi mi sembra giustissima, e spero che mi aiuterà ad apprezzarlo maggiormente: queste opere non vanno tanto raffrontate con i contemporanei europei quanto contestualizzate nell’ambito dello sviluppo del melodramma italiano (e mi permetto di aggiungere tra parentesi che la differente concezione del canto fra la tradizione italiana e quella austro-tedesca è elemento verissimo che però in questo sito non viene tenuto nella debita considerazione quando si vengono a considerare le singole vocalità degli interpreti).
Non credo comunque che il pregiudizio indubbiamente esistente contro questo repertorio sia di carattere antifascista, dato che la vera grande fioritura della giovane scuola avvenne prima dell’avvento del fascismo (è vero che il vecchio Mascagni fu un icona fascista, ma era una sorta di anziano monumento ambulante, e il “Nerone” fu un evento a parte, peraltro controverso). Anzi, semmai a compromettersi con il fascismo furono soprattutto gli autori della “generazione dell’Ottanta”, cioè proprio quelli più ostili alla tradizione melodrammatica italiana e più vicini alle avanguardie europee: Casella, Respighi, Pizzetti e (in misura minore) Malipiero.
Credo piuttosto che fra gli elementi che attualmente pesano negativamente su questo repertorio ci sia anche (ma ovviamente non solo) un pregiudizio di tipo letterario: cioè mentre in Europa i libretti attingevano a Maeterlinck, Wilde e Buechner, da noi quando andava bene si pescava in Sardou e Belasco… E, con le dovute eccezioni, paradossalmente questi soggetti e questi libretti pseudo-realisti e pseudo-storicisti, indubbiamente “progressivi e aggiornati” rispetto alla tradizione verdiana, a molti oggi risultano più “datati” dei libretti del Trovatore o di Rigoletto, che al di là di un generico colore locale possono ben ancor oggi risultare “senza tempo” (anzi, fin troppo, per parecchi registi…)
Grazie degli spunti, La nostra analisi cercherà di affrontare tutte le anime della cosiddetta giovane scuola: autori diversi e risultati diversi. Mi fa piacere che un ciclo del genere interessi anche chi non ha particolare simpatia per quegli autori…e ti confesso che neppure io li apprezzo particolarmente, ma proprio per questo sono spinto ad analizzarli. Si parlerà di Mascagni, del verismo, del naturalismo, così come di autori che hanno cercato altri stilemi (Pizzetti, Rota, Respighi..ma anche Gnecchi e Alaleona). Mi fa piacere che hai colto il punto di partenza: non un confronto impossibile con il ‘900 europeo, ma lo sviluppo del melodramma di tradizione italiana.
Finalmente un’analisi di questo importante periodo della musica italiana, alcuni soggetti erano anche molto interessanti, penso alla Fedra, alla Mirra alla Parisina….e di alcune di queste opere esistono anche le testimonianze sonore dei primi interpreti…Insomma si prospetta un’autunno “goloso”
Grazie…
Ti anticipo che le tre opere da te citate faranno parte del nostro ciclo.
Ecco, grazie dell’iniziativa. Confesso che, appartenendo alla cosiddetta “generazione del disco” ho un’ignoranza quasi totale a proposito di questo repertorio. Tra l’altro, per motivi a me ignoti (ma conoscendo i miei nonni ed i miei genitori, tenderei ad escluderei la motivazione “ideologica”) l’educazione musicale impartitami in famiglia ha sempre accuratamente evitato di farmi conoscere questo particolare periodo della storia del melodramma. Fra l’altro, ho solo da poco conosciuto (sempre per merito dei CD, ovviamente) la splendida musica sinfonica di Casella ed il fatto che non venga pressoché MAI eseguita mi pare sia un segno del terrificante provincialismo che spesso e volentieri caratterizza anche le nostre istituzioni sinfoniche, oltre che i teatri.
Il magnifico dipinto di Tranquillo Cremona è un commento perfetto a questo articolo; non solo i compositori d’opera, ma un’intera generazioni di artisti e un’intera epoca culturale di una nazione meriterebbero di uscire dall’oblio e di venire liberati da uno stigma immeritato, dovuto più che altro alla provincialissima esterofilia ed ai complessi di inferiorità di troppi sedicenti critici ed intellettuali nostrani. E’ soprattutto responsabilità di quest’ultimi se opere magnifiche sono estromesse senza appello dai cartelloni, e se la produzione di un gigante del melodramma, Pietro Mascagni, che meriterebbe un posto fisso in repertorio nella sua quasi totale completezza, è pressoché dimenticata. L’iniziativa è meritoria e ve ne ringrazio.
Grazie, Duprez, per aver suscitato la dovuta attenzione sulla “Giovane Scuola”, indubbiamente un movimento importante e assai variegato, sul quale è calato un ingiusto oblio. Del resto, al di là delle preferenze personali, i movimenti artistici e le opere che in essi si iscrivono devono essere conosciuti e analizzati, mai disprezzati. Io, poi, non faccio testo, dal momento che trovo interessante e degna di considerazione qualsiasi espressione artistica, anche quella più lontana dalla mia sensibilità. D’altro lato, non faccio mistero di non appartenere al partito di quelli che misurano la propria competenza a partire dal numero, inevitabilmente grandissimo, delle cose che a loro non piacciono. Mi sembra una cosa stupida. Ritornando ora all’argomento, hai certamente ragione a dire che sul verismo italiano si è depositata una sorta di “damnatio memoriae”. E certamente ci sono anche ragioni politiche per questo, quelle ragioni per esempio che all’epoca impedirono di comprendere l’importanza e la bellezza di quell’autentico gioiello che era ed è “Napoli milionaria” di Nino Rota. E tuttavia. Ci dovrebbe far pensare il fatto che, dopo tanti anni, dopo che del marxismo, di ogni tipo di marxismo, si sono perse le tracce, questa “damnatio memoriae” non mostra nessuna intenzione di scomparire. Quelle opere disprezzate erano e disprezzate restano. Un Giannino che, magari senza bugie, scriva di musica si troverebbe perfettamente d’accordo con Luigi Pestalozza e Rubens Tedeschi. L’eccezione potrebbe essere Isotta, ma non so se questa eccezione farebbe felice Duprez. E comunque l’eccezione non farebbe che confermare la regola. Io però, diversamente da Duprez, non me la sento di scagliare anatemi su quella critica e la sua incapacità di comprendere. Anche la critica, esattamente come le opere che essa è chiamata a giudicare, subisce un’evoluzione storica, è condizionata e risulta tutt’altro che indipendente da alcune premesse ideologiche; vale a dire, non è un’espressione di mera competenza. Anzi, dirò di più. Nessun giudizio, neppure il più centrato tecnicamente, è per me un’espressione di mera competenza; ma è influenzato in maniera decisiva dalle concezioni generali appartenenti alla persona che lo emette. Io, per esempio, penso che i giudizi di Mancini, per quanto rivolti unicamente ad un’analisi molto dettagliata del canto e dei suoi modi, siano estremamente ideologici e in buona parte derivino della sua idea della storia come progressiva ed inarrestabile decadenza. Se così stanno le cose, quella critica marxista dava vita a un’ottica che oggi può apparire superata ma che, quando era di alto livello (ed era il caso per esempio di Mila e D’Amico, pur niente affatto teneri con il verismo), forniva spunti preziosi, distinzioni all’interno del movimento, inquadramenti storici che si sono poi rivelati acquisizioni definitive. E questo, perché andava al di là del mero giudizio, che si può più o meno condividere e che non è nemmeno la cosa più importante del lavoro di uno storico; prima di giudicare descriveva, interpretava, analizzava. E qui stava il suo punto di forza. Tant’è che io ho non ho mai avuto antipatia o diffidenza per le analisi esplicitamente schierate. Trovo che il giudizio di Adorno su Stravinski non sia da condividere; ma nulla mi impedisce di pensare che le analisi stravinskiane di Adorno siano fra le più acute che si possano leggere. Per me, che pongo Wagner al di sopra di qualunque altro musicista e penso che i “Maestri Cantori” siano l’opera più bella mai composta (mi si perdoneranno queste iperboli del tutto personali), le pagine di Nietzsche sull’immenso compositore sono, fra quelle che conosco, le più belle mai scritte, un punto di partenza (e forse anche di arrivo) irrinunciabile per chiunque. E, si badi, le pagine violentemente critiche, quelle dell’ultimo periodo, non quelle apologetiche dell’infatuazione wagneriana. Posso forse condividere il loro giudizio conclusivo? Certo che no. Ma non importa; il loro focalizzarsi sulla smitizzazione, l’importanza del dettaglio e la disgregazione dell’insieme nell’opera di Wagner è un’acquisizione definitiva. Questo mi porta anche a considerare le recensioni che leggo in una maniera peculiare: mi piacciono specialmente le recensioni dalle quali posso imparare, anche e soprattutto quando non le condivido. Caro Duprez, come ti ho già detto altre volte, anche il tuo disprezzo, più volte manifestato, per Eduard Hanslick non mi trova d’accordo. E’ certo vero che Hanslick si è espresso negativamente su alcuni dei più grandi musicisti del suo tempo, Tchaikosky, Bruckner, Wagner, Puccini. Questo non vuol dire che fosse ottuso o imbecille o, più semplicemente, uno squallido reazionario. Basterebbe la sua ammirazione per un grande e isolato rivoluzionario come Berlioz ad escluderlo. Si trovava semplicemente ad uno dei più importanti crocevia storici degli utimi secoli e si è incamminato per la sua strada con tutta la dignità e l’intelligenza che un uomo del suo livello si poteva permettere; ma dalla sua posizione, che di Brahms vedeva soltanto la continuità storica con la grande tradizione tedesca (una posizione giustificata ma limitata, come già la definizione che in quegli stessi anni Nietzsche aveva coniato per Brahms, “malinconia dell’impotenza”, faceva intravedere), ha potuto analizzare le realizzazioni degli avversari con un’acutezza che spesso i loro apologeti non raggiungevano. E allora. Forse alla critica di impronta marxista non si può imputare di aver seppellito la “Giovane Scuola”; sono da storicizzare tutte e due, e la critica e l’opera musicale di quel tempo. E da apprezzare i risultati che ancora durano, nell’analisi come nella realizzazione artistica. E, scusa, Duprez, non mi sembra giusto mettere insieme Adorno con i suoi sodali, che poi per te sarebbero, mi par di capire, i marxisti. I marxisti dell’epoca non avevano alcuna simpatia per Adorno, per il quale ogni sbocco politicamente rivoluzionario era semplicemente privo di senso. Basta leggere un qualunque scritto di Pestalozza per accorgersene. O quel meraviglioso scritto di Fedele D’Amico su Adorno nei “Casi della musica”. Uno scritto che, certo, ad Adorno concede qualcosa (la grossolanità e il pressapochismo di alcune analisi di Pestalozza è qui del tutto assente), ma che della posizione adorniana rivelava impietosamente tutti i limiti. A prescindere dal fatto che non credo proprio che il nome di Puccini o di un qualsiasi compositore del verismo italiano compaia mai in uno scritto di Adorno. Per quanto riguarda poi la possibilità di mettere a confronto un’opera verista italiana con una grande composizione d’oltralpe, non so, “L’amico Fritz” di Mascagni con il “Corregidor” di Wolf, la valutazione estetica può sempre implicare delle gerarchie, anche fra cose molto diverse, pur che appartengano alla stessa epoca. Altra cosa è se queste opere si devono analizzare e spiegare. E qui ti do ragione; le due tradizioni sono molto diverse ed a queste ogni analisi seria ha da fare riferimento. Però anche su questo una precisazione si può fare. E’ singolare che si parli per il verismo italiano di una tradizione prevalentemente vocale nel momento in cui non si può non accorgersi che, al seguito dell’ultima stagione creativa verdiana, i compositori veristi accordano nelle loro opere un’eccezionale importanza, nel senso della raffinatezza del dettaglio e dell’imponenza strumentale, all’elemento sinfonico; un’importanza che li avvicina proprio ai compositori di oltralpe, la cui distanza non è evidentemente così siderale.
Ciao
Marco Ninci
Metti tanta carne al fuoco Marco! Vediamo se riesco a chiarire. Parto dall’ultima questione, quella relativa ad Adorno e i suoi “sodali”, per dire che ti sbagli: non mi riferivo affatto alla critica marxista o ai marxisti in generale. Mi riferisco a chi, sulla scorta dell’auctoritas di Adorno – che a mio giudizio ha completamente frainteso il portato musicale pucciniano, non cogliendone affatto valore e complessità – ha banalizzato il suo giudizio e ha ripetuto “a pappagallo” le sue tesi, arrivando a definire Puccini un compositore di canzonette. Questo dipenda da una certa immaturità di una critica troppo estremista e livorosa che ha mantenuto – e questo è indubbio – un approccio snobistico ad un genere che in Italia appariva troppo popolare: se l’è presa con Mascagni o Rota, denunciandone le ingenuità e l’arrtratezza (che tanto piacevano al grande pubblico) e contestualmente esaltava autori pur degnissimi come Nono e Dallapiccola (ma che certamente non erano popolari) perché ritenuti più vicini all’avanguardia europea, mentre la “giovane scuola” bazzicava nella più vieta tradizione melodica e tonale. E’ chiaro, a mio giudizio, l’errore di prospettiva e la scorrettezza dell’analisi che pone sul medesimo piano esperienze, traduzioni e linguaggi differenti: sarebbe come se un linguista facesse una classifica di idiomi definendo il bulgaro “inferiore” al “francese” o l'”italiano” superiore al “tedesco”. L’intento di questo ciclo è quello di riportare in vita – almeno nelle nostre discussioni – un repertorio vasto e vario di titoli diversi e stili diversi, tutti accomunati da un generico ed ingiusto oblio. Poi, intendiamoci, non tutte le ragioni di tale oblio sono da imputare a pregiudizi o snobismi – si finirebbe per fare i complottisti – è innegabile che probabilmente oggi quel repertorio comunica poco all’odierno ascoltatore. Ma si tratta di corsi e ricorsi storici, di momenti, di mode, anche: fino a 30 anni fa nessuno avrebbe scommesso sull’eventuale riproposizione delle opere di Handel o Vivaldi, come 60 anni fa nessuno avrebbe scommesso sul Rossini serio. Magari tra 10 anni il pubblico tornerà a volere Zandonai e Smareglia. Quel che però è differente, nel caso della giovane scuola, è il giudizio di inferiorità che l’accompagna. Ma ne parleremo nel corso del ciclo. Voglio tornare ad Adorno per dire che certamente le sue analisi sono uno stimolo importante – anche laddove non vengano condivise – come quelle di Lukacs su Mann, il problema è la trasformazione di queste analisi in dogmi spesso ripetuti da discepoli privi del talento (e dell’intelligenza) dei maestri. Infine condivido la tua ultima considerazione: la giovane scuola, con il suo linguaggio che parte dalla tradizione italiana del melodramma, ha voluto enfatizzare gli aspetti sinfonici, certo esprimendosi in modo diverso da Berg o Strauss, ma, ripeto, questo non può essere considerato un difetto.
mi scuso. Ho commesso un’imprecisione. Il nome di Puccini in Adorno compare. In quel modo dispregiativo che però nel filosofo non deve stupire.
Marco Ninci
Iniziativa lodevole.
Spero si andrà oltre la Giovane Scuola e forse oltre la Generazione dell’Ottanta.
E’ incredibile quanti credano l’Opera italiana sia morta con la Turandot quando quest’ultima è stata meramente l’ultima opera a finire in repertorio stabilmente (Il cappello rotiano è nella frangia).
Busoni (L’arlecchino ovvero le finestre), Montemezzi (L’amore dei tre re, L’incantesimo), Respighi (La fiamma, Maria Egiziaca, La bella dormiente del bosco), i già citati Gnecchi e Alaleona, Malipiero (Orfeide, Torneo Notturno, Filomena e l’infatuato), Refice (Cecilia, Margherita da Cortona), Casella (La donna serpente, La favola di Orfeo), Boito (Nerone), Mascagni (Il Piccolo Marat, Isabeau, Parisina), Margola (Il mito di Caino), Dallapiccola (Volo di notte, Il prigioniero), Liviabella (Antigone), Porrino (Gli Orazi, I Shardana), Maderna (Don Perlimplino), Panizza (Aurora, Bisanzio), Wolf-Ferrari (I quatro rusteghi), Arrigo (Il ritorno del Casanova) sono tutte opere meritevoli di ascolto e di maggiore popolarità.
In particolare spero tratterete de I Shardana di Porrino a mio modesto parere la migliore opera italiana del secondo dopoguerra.