“Invano, Alvaro…Le minacce e i fieri accenti”. Nona puntata: il Piero e il bel José.

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E così siamo arrivati alla fine del convento della Madonna degli Angeli proponendo un’esecuzione che va verso i quarant’anni, ossia stagionata. Non che dopo non si sia più eseguita la jettatoria opera verdiana, ma le esecuzioni dell’ultimo trentennio sono tutte da dimenticare. Per altro già dalla metà degli anni settanta il declino della vocalità verdiana in chiave di sol con il ritiro di Corelli, la morte di Tucker (sulla breccia anzi sul palcoscenico sino alla fine) e il progressivo rallentare dell’attività di Bergonzi e, magari, di Labò era ben evidente. I don Alvaro come i Manrico ed i Radames sono stati da allora surrogati anche edibili, ma sempre surrogati.

E tacciamo di quel che accadeva nel campo delle cosiddette voci gravi, qui rilevanti in chiave di fal, di cui Cappuccilli è il più completo rappresentante della voga che ci ha condotti al misero presente.

Il duetto della Forza con buona pace degli esecutori è una sfida fra due cavalieri, membri della prima nobilità, uno addirittura di stirpe regale, seppure incaica, nulla a che vedere con situazioni come la sfida a duello fra Turiddu e compare Alfio, personaggi da altro rango sociale ed altra etica. I primi maneggiano spade, gli altri serramanico.

Scrivere, dopo attenta disamina, che l’esecuzione di Cappuccilli e Carreras, tratta dall’integrale scaligera del 1978 sotto la guida di Patanè (lui sì veramente ispirato e capace di dirigere ed accompagnare nel contempo), sia esecuzione vocalmente mediocre ed interpretativamente modesta a causa delle limitazioni e mende tecniche dei cantanti, equivale a negare, all’interno di un convento, l’esistenza di Dio. Il raffronto con la sfilata di contendenti che abbiamo proposto per un anno è confronto schiacciante per entrambi. Con la differenza, che segnalo immediatamente, che Cappuccilli (anzi il PIERO per il pubblico scaligero) aveva la voce per cantare Verdi, mentre Carreras in natura era tenore da Donizetti, Massenet, Gounod e Puccini lirico, distrutto in meno di un decennio dall’impatto con il repertorio verdiano e da una tecnica fondata solo sulla generosissima natura.

Le mende tecniche si trasformano, poi, mende interpretative, perché la tecnica di canto in Verdi più che altrove, non è un fine, ma un mezzo. Espressivo.

Basta sentire l’ingresso di Cappuccilli, che propone un don Carlos de Vargas iracondo e con il fumo al naso per la smania di vendetta e che piazza prontamente un bel portamento e suono aperto sulla “viltà” del recitativo iniziale, che vocifera su “sete di vendetta” ; per darci a pieni polmoni e suono indietro su “il sangue il tuo sangue”. Con questo dispendio di suono e di falso furore il mi3 di “tutto verserò” suona artificiosamente scurito e “indietro”, come “indietro” suona la smorzatura di “lo giuro a Dio”. L’eccesso di furore e bile si riverbera sui fa di “un lustro finalmente” che sono fuori fuoco e voluminosi solo grazie alla dote del Piero. Voluminosi, ma non squillanti e penetranti come nel caso di Carlo Tagliabue o anche di cantanti di dote naturale tutt’altro che eccezionale come de Luca. Anche alla chiusa dell’invettiva “ch’io ti punisca è scritto etc” il cantante è truculento, e la quartina di “sul” è pasticciata e per chiudere in bellezza la presentazione quanto arriva il fa di “spargere” deve inserire un fiato abusivo e il suono è mal messo. Ilpubblico scaligero davanti a questo si esaltava e scambiava il cattivo canto per fuoco interpretativo. Appena apre bocca Carreras, scenicamente inappuntabile nel ruolo di bel tenebroso penitente, abbiamo la sensazione di una voce bella, ma senza lo slancio ed il vigore che il dramma di cappa e spada verdiano pretende. Basta sentire come appena la tessitura accenna a salire in zona di passaggio superiore fa3 e sol3 si sente che la salita avviene a mezzo della gola e, puntuale, arriva il falsetto in luogo della smorzatura canonica di “assistimi Signor”. Non solo in tutta l’esecuzione del cantabile “le minacce i fieri accenti” , accompagnato benissimo da Patanè, Carreras è piuttosto piatto nell’espressione, genericamente dolente e non rispetta l’articolata serie di indicazioni di espressione dell’autore e, come sempre in zona di passaggio si usa la gola e non il fiato (“fronte al fato”). L’espressione diviene convincente nella perorazione “ah fratel pietà, pietà”, la tecnica molto meno, come dimostra il suono opaco della duina finale di pietà, che cade su un fa3 mi3. Quanto a splendore vocale e saldezza di suono basta sentire cosa combina Cappuccilli indietro e opaco sulla frase “che tradita abbandonasti” che porta la voce al sol bem e che dovrebbe essere cantato ad onta dell’indicazione di Verdi “con furore” che Cappuccilli esegue esibendo quello che in gergo si dice bercio. Bercio che Carreras serve alla frase “te lo giura un sacerdote” che chiamando in causa i primi acuti non può essere cantata da chi ignori l’esecuzione del passaggio che costringe a gridare il si bem di “m’ama” contravvenendo all’indicazione di dolce prevista da Verdi. Lasciamo a cantanti come Aureliano Pertile certe prodezze espressive e vocali, ma il suono perfettamente sul fiato del vecchio Gigli o di Merli, che non eseguono un piano coglie l’indicazione espressiva di Verdi. Per altro il suono indietro nel tentativo di addolcire si ripresenta uguale alla fine del duetto quando don Alvaro deve dire “no l’inferno non trionfi”

Carreras manca di dolcezza ed autentica espressione sognante ed innamorata quando ricorda l’amore per donna Leonora e questo accade per incompletezza tecnica, la stessa causa che rende l’apostrofe “un brando un brando” priva di squillo e carente di ampiezza e con un suono di cattiva qualità. Tipico risultato del suono poco immascherato e coperto. Il suono squillante esce, invece, dalla robusta ugola di Piero Cappuccilli per ovvie ragioni la nota acuta un sol bem non è legata ad una frase, come accade in altri passi, ma scoperta è può essere scagliata a pieni polmoni senza alcun rispetto del legato e della linea musicale.

Invito chi avesse mai la voglia di arrivare sin qua ed avesse il desiderio di replicare a questo ad ascoltare, prima di replicare, Benvenuto Franci, che aveva il vizio di esibire il proprio poderoso centro a scapito di acuti e morbidezza. Innanzi alla fiera in cui Cappuccilli trasforma don Carlos, Franci è elegante e raffinato come Battistini o Renaud.

Alla stretta i due contendenti si lanciano, ma non si slanciano come facevano tutti i contendenti sino al 1950 circa. Poi per difendere questo e quanto di ben peggior venuto dopo si è parlato di Verdi intimista, di liricizzazione; il termine esatto sarebbe surrogato, come ho detto al principio.

Adesso capisco perché in occasione di questa Forza scaligera, con la scusa dell’esame di maturità imminente e la fama sinistra del titolo, “marcai visita”. Le ragioni a distanza di quasi quarant’anni sono diverse, la scelta ottima!

32 pensieri su ““Invano, Alvaro…Le minacce e i fieri accenti”. Nona puntata: il Piero e il bel José.

  1. Per capire come dovesse essere eseguito il ruolo di Carlo di Vargas, l’Italia ha dovuto attendere, dopo decenni di malcanto verista, Renato Bruson nel 1975 e Giorgio Zancanaro nel 1978, entrambi debuttando il ruolo in Arena. L’ira e lo sdegno devono essere espressi con la nobiltà d’un aristocratico, debbono cantare sempre dentro la nota. Questi sono baritoni che onorano Verdi. Gli altri non fanno testo.

  2. Caro Donzelli, io nel 1978 avevo tre anni e non mi occupavo ancora di lirica. Ascoltando con le orecchie del Franz del 2013 Le devo dare ragione anche sulla punteggiatura. Rispetto a quanto sentito negli ultimi anni, comunque, non siamo ancora a livello di certi scempi sentiti in questa pagina. Ascoltare Carreras e Cappuccilli confrontandoli con gli illustri esempi citati nella precedenti puntate mi dà la stessa sensazione che provo, in tutt’altro campo, quando cerco di farmi piacere Balotelli ed El Shaarawi dopo aver visto Van Basten e Shevchenko.

  3. per me la resa del duetto cappuccilli carreras e’ eccellente e ne fa fede l ovazione scaturita. I pur corretti rilievi tecnici sui due cantanti risultano a mio avviso irrilevanti da un punto d vista pratico. Ah per inciso ricordo Zancanaro all arena in un paio d occasioni corretto ma privo d fantasia Bruson invece non l ho mai sentito dal vivo in questo ruolo ma solo nel disco DG dove non emerge come c si sarebbe potuti attendere

  4. un cantante come bruson non poteva emergere in quella parte troppo acuta, troppo stentorea per un cantante che batteva in testa negli acuti. Almeno in natura il piero ci dava a pieni polmoni quanto agli applausi il pubblico scaligero per cappuccilli come per ghiaurov, con esemplare provincialismo, stravedeva

    • sono pienamente d’accordo con te sulla tessitura che non poteva favorire Bruson, non sull’asserito provincialismo del pubblico scaligero che ha sempre goduto di un buon ricambio e sotto le sue orecchie sono passati tutti i grandi cantanti, spesso nel pieno delle loro potenzialità. Un trionfo all’unanimità alla Scala (evento assai raro) vuol dire molto anche per chi é straconvinto della qualità dei propri gusti.-

  5. Un cantante come Bruson non poteva emergere nella parte di Carlo?… Se si ha come riferimento la registrazione DG dell’86, Bruson, entrato in declino da due anni, con i Fa diesis della prima aria sbiancati e forzati certo non può essere attendibile. Basta ascoltare il live del suo debutto nel ruolo nel ’75 in Arena, o ancor meglio e con suono migliore, il live del ’79 da Chicago. Per nobiltà d’accento, morbidezza e bellezza di suono è semplicemente il miglior Carlo della storia del disco. Altro che Cappuccilli, che oltre agli acuti, di verdiano aveva ben poco. La freddezza di Zancanaro è storia vecchia in Italia, io invece lo reputo tecnicamente e stilisticamente il miglior baritono italiano del dopoguerra. Grande lezione di canto. Mi basta questo.

  6. Nel caso di Bruson e Zancanaro intendo certamente edizioni complete in studio e live. Certamente non metterei nelle stesso piano di giudizio il Carlo di Bruson con quello di Pasquale Amato, Titta Ruffo o Benvenuto Franci.

  7. Godo parecchio quando sento coprire il Re e il Mi, nella zona di passaggio, come fa Zancanaro. Il suo ritegno d’interprete e un accento nobile e protervo sono la chiave di volta, dopo decenni di supremazia del gusto da dramma musicale sul melodramma. È emblematico il Boccanegra dell’88, un live dal Maggio Fiorentino con Zancanaro. Questo baritono sapeva far vibrare anche la corda patetica dei personaggi verdiani. Questa la chiamo espressività corroborata da grande tecnica d’emissione e senso dello stile.

  8. Non conosco il live citati di Bruson, ma per Zancanaro che ho sentito numerose volte dal vivo e anche in questa parte, devo dire che concordo, ottimo cantante; questa storia della freddezza è una sciocchezza, caso mai Zancanaro non vantava, rispetto a molti suoi bitumati e tronfi contemporanei, un timbro privilegiato e ricco di armonici, ma che cavasse quanto di meglio poteva cavare da quella voce è indubbio.

  9. mah…quel boccanegra lo conosco bene e conservo la cassetta. cantava la cotrubas se non sbaglio. zancanaro era corretto e sapeva cantare ma interpretativamente nessuna invenzione. Ecco se penso a Bruson in quel ruolo ti dico caro Cortecci che c’e’ un divario incolmabile a livello d accento colori e fantasia. Trovo per quello che vale il mio gusto superiori a zancanaro Nucci che sentii diretto da solti e anche chernov che ascoltai a ferrara e parma con una buona marina meschariachova

          • io parlo d ascolti dal vivo per cui jerusalem alla scala. Poi t diro’ duptez che il simone d solti dal vivo era d una brillantezza rara e infine che il nome della Meschariakovava e’ effettivamente il suo tallone d achille ma la voce era niente male. se ppi e’ durata poco e’ cosa frequentissima da sempre

    • no, Boccanegra proprio no; tornando a Don Carlo de Vargas invece devo dire di si, è l’unico ruolo verdiano in cui Nucci in tanti anni e tanti ascolti mi ha convinto, sicuramente più di Rigoletto, non né parliamo poi di Amonasro, Nabucco, ecc…

    • Caro Cortecci, mi fa molto piacere leggere le tue – mi prendo questa libertà – elogiative parole su Giorgio Zancanaro, e non solo le tue. Certo, come sottolinea Mancini e come prontamente riconosci Tu, nulla a che vedere con i giganti del 78 giri. D’altra parte, cantante correttissimo nell’emissione; un mezzo non benedetto, no, ma gestito con magistero e sapienza. E anche interprete che io non trovo affatto noioso: composto, sobrio, elegante; noioso proprio no. Per dire: il suo Monforte con Muti alla Scala è stata una grande lezione di canto, e così il suo Tell. Ma anche il Conte di Luna, in disco con Giulini (gli altri tutti da censurare, anche Brigitte Fassbaender che non mi dispiace affatto ma Azucena proprio no) e dal vivo a Firenze con Lucianone e Banaudi (voce importante persasi nel nulla, ahimè).
      P. S.: la direzione di Solti del Boccanegra è un obbrobrio; basti, a titolo di esempio, il tempo da marcetta staccato per “Figlia, al tal nome io palpito”. Quel Boccanegra faceva acqua fin dalla bacchetta; sulla compagnia di canto mi piace tacere.
      Buona giornata a tutti.

      • Sono di nuovo d’accordo. Soprattutto su Zancanaro, baritono che apprezzo particolarmente e che trovo ingiustamente trattato dalla critica nostrana (evidentemente incapace di riconoscere misura ed eleganza nel canto). Quanto a quel Boccanegra dici benissimo: il difetto parte già dal manico, o meglio dalla bacchetta. Un Solti chiassoso, pesante, volgare (il suo Verdi è sempre stato più sanguigno che riflessivo, sino ai limiti del mero effettismo, ma qui esagera), con un cast semplicemente improponibile per quel che riguarda i protagonisti (Nucci e Burchuladze in particolare). Non una sfumatura, non una riflessione, ma una pessima macchina macina note! Una volta il Boccanegra era titolo raro, e le sue riprese erano giustificate da interpreti di un certo valore: BEI TEMPI, oggi invece è lasciato a “cani e porci” come si suol dire (le scorribande di Domingo & Barenboim così come la recente prova di Hampson & C. sono lì a monito!)

        • Non so esattamente quale sia la “critica nostrana”, ma, a parte due o tre nomi,quando mai c’ha capito qualcosa di canto, di stile e di voci questa critica nostrana? In realtà, e scusate la millanteria, i veri critici siamo noi stessi…
          Non porrei la vicenda di Giorgio Zancanaro sul fatto che non avesse mai avuto uno strumento prediletto. Non ha il velluto, la dolcezza della mezzavoce del miglior Bruson, non ha l’ampiezza di qualche gigante del passato, ma ha una voce sempre piena, squillante, morbida, emessa splendidamente, sa come coprire i suoni dopo il Re, sa emettere gli acuti, immaschera la voce straordinariamente bene; tutto ciò dovrebbe ampiamente bastare, almeno vocalmente parlando. Qualcuno in passato diceva che Tagliabue fosse l’ultimo baritono della scuola italiana a coprire perfettamente dal passaggio in poi. Io direi invece che Zancanaro possa essere l’esempio compiuto del meccanismo del passaggio di registro. Dal dopoguerra, a parte Cornell Macneil, che però spesso ritardava il passaggio addirittura al Fa, nessun baritono copre e pratica il passaggio meglio di Zancanaro. E non è poco. Ciò si riverbera anche nell’interprete. Questa eccezionale copertura del suono conferisce un’aurea regale e nobile al canto, che non risulta mai forzato, mai schiacciato, mai ingolato, nel piano nel forte e nella mezzavoce.Se poi a questa morbidezza d’emissione si unisce notevole senso delle stile grandioso e dello stile patetico, abbiamo trovato un fuoriclasse. Non mi riferisco solamente a Verdi. Il suo Scarpia è eccezionalmente cantato. Da quanto tempo non si sentiva “un tal baccano in chiesa” perfettamente coperto e non urlato? Questo vuol dire senso dello stile, saper cantare.
          Riguardo Bruson, si dice che il suo tallone d’Achille fossero gli acuti. In parte è vero. Fino a un certo punto però. Tutti conoscono bene il Bruson degli anni del declino, dal 1985 in poi, quando la voce gradatamente si depauperò. Ma il Bruson degli anni 70 aveva questo difetto d’emissione ancora attenuato, come ampiamente documentato dalle registrazioni. A volte apriva più del dovuto negli acuti,probabilmente per espandere il suono, dando l’impressione di una certa durezza di fondo (lui, così morbido in natura!),ma quando l’emissione era calibrata giustamente,raggiungeva il Sol senza troppo difficoltà. Ci sono molte registrazioni che ratificano ciò che dico. L’eccezionale nobiltà del canto e lo straordinario velluto dei centri fanno il resto. Ieri citavo il live del ’79 da prendere a riferimento come il miglior Carlo del disco. Non solo. Nell’Otello dell’81 è il miglior Jago della storia del disco, e stavolta includo anche il riferimento a brani isolati. Uno Jago cantato quasi tutto a mezzavoce, così mellifluo e satanico da far sembrare un bamboccetto isterico Domingo nel ruolo di Otello. In un cantante di tale statura e levigatezza mi disturba poco qualche acuto non proprio squillante.

          • Ma per la carità Cortecci! Se limiti il discorso alle incisioni complete dell’opera posso anche chiudere un occhio, ma in qualsiasi brano inciso singolarmente Bruson sparisce di fronte ai baritoni a 78 giri!

    • Ma perché gli altri Mozart? ..a parte il “barricato” Nucci, che dire di Chernov??? E di quella Masciariakova (mi rifiutai di imparare a scriverne il nome, tanto sarebbe sparita in un soffio)? E si Solti nel Simone…che pare riscritto per banda e rumorofono?

  10. Beh, Duprez, non sempre il Verdi di Solti è sanguigno ed effettistico. La sua Aida registrata a Roma è stupenda; altrettanto lo è il suo Otello con Cossutta e la Price, purtroppo funestato da un orrendo Bacquier. Io poi ho ascoltato dal vivo più di trenta anni fa un suo Falstaff a Vienna, una meraviglia di vivacità e di misura.
    Ciao
    Marco Ninci

    • Infatti: ho scritto che il suo Verdi è sempre stato sanguigno, muscolare, sino – talvolta – ai limiti dell’effettismo. Non sempre certo, ma mi darai atto che il suo non è certo un Verdi riflessivo e cupo (cifra che , a mio parere, richiede il Boccanegra)

  11. ma dal vivo era impressionante come era stata preparata orchestra e coro. Non era un esempio di profondita’ ma era dettagliato splendente incisivo come un quadro fiammingo. Certo in disco l’effetto disco che si coglieva dal vivo si perde

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