Wagner Edition – Lohengrin

LOHENGRINPrendere Wagner alla lettera può essere operazione molto pericolosa. Come tanti altri artisti della storia è certo che Wagner abbia inteso offrire attraverso i propri scritti sulla politica, il teatro e la musica, un’immagine di sé opportunamente costruita, dove il confine tra casualità ed intenzionalità, tra dilettantismo (T.Mann) e genio è difficile da ricostruire. Il suo eclettismo intellettuale, mosso dall’ambizione di porsi quale intellettuale di riferimento del futuro tedesco, perde di fascino allorquando ci si addentri nei meandri dell’interpretazione analitica, dell’anamnesi del procedimento creativo, a caricarlo di interpretazioni eccessivamente sovrastrutturate e idealizzanti. Il XIX secolo, d’altronde, ci ha abituato ad immagini autocostruite di importanti carriere artistiche determinate dal bisogno di autolegittimarsi degli artisti medesimi, che pubblicizzavano se stessi, oltre i confini della loro opera, mediante attività letterarie ed epistolari. Decodificare Lohengrin, le fonti letterarie sottostanti come gli intenti drammaturgici precisi del compositore, mi sembra che abbia portato alcuni studiosi su terreni distanti dalla realtà di questa composizione, ove sono stati innestati valori o temi che si vorrebbero precursori di altro, tipico il caso della psicoanalisi. Operazioni critiche che finiscono per destare un certo sospetto in chi legge, come accade di questi tempi di celebrazioni wagneriane. Wagner non ha lasciato detto molto circa la scrittura di questa opera: disponiamo di fatto del suo racconto sulla genesi compositiva, una folgorazione avuta mentre si trovava alle terme di Marienbad e che lo avrebbe portato a scrivere per esteso il soggetto in forma letteraria, che venne poi rimaneggiato successivamente, durante la redazione del libretto. Con questo racconto siamo certamente di fronte ad un episodio pensato e diffuso strumentalmente, per presentare la creazione artistica come un momento irrazionale, puramente intuitivo, quindi divino, ove in un tempo finito aveva saputo sintetizzavano letture e meditazioni in realtà assai più lente. Wagner ambiva a presentarsi come “genio”, come l’intellettuale romantico in grado di sublimare, tramite l’intuizione artistica assoluta, scevra da ogni condizionamento materiale, la creazione dell‘opera d’arte, da lui intesa come opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk). Eppure Lohengrin, nella sua struttura drammaturgica, non ha per nulla i caratteri dell’immediatezza, ma, al contrario, appare come un soggetto assai ben calibrato, anche nelle sue indeterminatezze, che gioca su tanti e diversi piani, quelli appunto nei quali finiscono per trovarsi, ed anche perdersi, gli studiosi che fatalmente sottostanno al gioco sapientemente architettato da Wagner cercando sempre nuove vie interpretative univoche o nascoste. Nel soggetto il compositore fonde abilmente realtà storica ed invenzione fiabesca, la prima tutta strumentale, destinata a dar forza veritativa alla seconda, che è quella assolutamente predominante nel soggetto. La storia, ossia il luogo, gli eventi militari che vi fanno da sfondo, l’architettura, alcuni personaggi realmente esistiti, strutturano in realtà la cornice tipica della rodata ed ancor corrente formula del gran operà, già presente nelle precedenti avventure di Olandese e di Tannhauser. E che il soggetto si sia generato da fonti storiografiche, poi collocate in background, lo dimostra la vicenda dell’adeguamento del soggetto in prosa, ampiamente sfrondato da Wagner nella stesura del libretto: l’approdo finale al mito germanico del Ring non si era ancora compiuto in Wagner ed attraversava in quel periodo il momento della componente fiabesca quale mezzo di superamento della storia. Questa, infatti era ancora imprescindibile per un melodramma serio e di dimensioni grandiose, che non volesse scivolare nell’astrattezza degli olimpi messi in scena dall’opera di ascendenza italiana; i soggetti però erano ancora tutti da definire. Il grande canto era finito, a dire di Wagner, ed il gran operà mal si adattava alle esigenze della moderna società tedesca, cui occorreva una  nuova cifra ancora tutta da definire. La letteratura tedesca di inizio ottocento, peraltro, aveva approntato la nuova via da percorrere, e Wagner ne era apertamente conoscitore ed ammiratore. Credo che l’immagine più veritiera di Wagner quale architetto delle proprie opere coincida con quella dell’abile manipolatore, del libero utilizzatore di fonti letterarie e spunti, di lucido creatore di “effetti speciali” di ogni tipo, che nessuna filologia wagneriana potrà mai collocare su un piano diverso da quello della completa libertà poetica. Le sue fonti sono note e sono state più volte enumerate e discusse. Nella presenza del cigno nell’opera, il simbolo più antico del canto, si cristallizza un mondo di riferimenti nordici e classici offerti non solo da Ovidio, ma anche da Socrate etc, poi rielaborate nei poemi medioevali da cui Wagner attinse a piene mani: alcuni passi del Parzival ( 1210 circa) di Von Eschenbach, che presentavano “Loherangrîn” come figlio del protagonista cavaliere del Graal; un poema turingio in strofe, editato in Germania agli inizi del XIX secolo, risalente alla metà del XIII secolo ed ampliato alla fine del Duecento, con l’innesto della leggenda del cavaliere “Loheren Garin”, Garin il loreno, sulla storia dell’imperatore Enrico I e le sue campagne contro ungheresi e saraceni; i frammenti della novella di K. von Wurzburg, Der Schwanenritter; il tardo poemetto anonimo del XV secolo intitolato Lorengel. Alla base del mito del cigno innestato su quello dei cavalieri del Graal, stavano soprattutto alcuni poemi celebrativi della figura e la casata di Goffredo di Buglione, nobile condottiero crociato trasformato appunto in cigno, la Naissance du Chevalier au Cygne,, le Chevalier au Cygne,che avevano avuto grandissima diffusione tra il XIII ed il XIV secolo in area franco tedesca. A latere, anche le rielaborazioni dei miti classici, da Giove e Semele, a Giove e Leda, ossia Leda e il cigno, o anche Amore e Psiche, la donna amata dal dio che non può vedere in viso e di cui deve ignorare l’identità; miti che taluni storiografi musicale sono andati a rievocare per avvallare nuove letture psicoanalitiche che, francamente, mi pare trovino fondamento solo nei tributi che i poemi medioevali pagavano alla cultura classica.   La rielaborazione wagneriana rimase indipendente dall’esercizio filologico come dalla fedeltà a qualunque testo o vicenda storica. Implicò il riadattamento ai fini teatrali di eventi e personaggi del poema turingio duecentesco, con la trasformazione del pretendente alla mano di Elsa, Telramund, in un cattivo accusatore che, assieme alla moglie Ortrud, cui conferì i caratteri della strega, incolpano Elsa dell’omicidio del fratello Gottfried, trasformato in cigno dalla perfida contessa brabantina. La cornice storica venne liofilizzata e reinventata, depurandola da ogni realismo: nella storia l’XI secolo dell’imperatore Enrico I l’Uccellatore non era certo quello ridente e fiabesco dell’Anversa oleografica messa in scena da Wagner; la cattedrale posta a sfondo dell’azione del secondo atto trasformata in edificio gotico fiammingo, simbolo del medioevo corporativo e mercantile della Lega Anseatica idealizzato dal XIX secolo ed ispirata dalla grandiosità della scenografia del primo atto di Juive ( di lì a poco replicata anche da Meyerbeer nel suo Prophéte) . Il gioco di Wagner è sapiente, ma forse meno costruito di quanto presumano quelli che hanno letto il testo attraverso la lente forzata di Freud, della nevrosi sessuale di Elsa etc tanto care a certo teatro di regia contemporaneo. In scena vi sono costantemente dei dualismi rodati dal melodramma del prima, il bene ed il male, il divino ed il terreno, il sacro ed il profano, che non costituivano certo una formula nuova. La Eglantyne di Euryanthe si evolse nella malvagia Ortrud wagneriana, teatralissima creatura che domina il dramma in forza della sua personalità satanica ma anche di una vocalità, fatta di impennate all’acuto e salti, una potenza vocale nuova ed impressionante per un personaggio femminile. Wagner le contrappose lo stereotipo della bontà e della purezza, la figura di Elsa, di scarsa personalità anche vocale. Il suo lirismo è quello tipico di un personaggio tutto positivo, di fatto una vera e propria figura letteraria, che si completa a fianco di Lohengrin, cavaliere divino e fiabesco, velato di malinconia e tristezza.

La rielaborazione wagneriana delle fonti medioevali e le contaminazioni antiche offrono un mondo di simboli e personaggi non tutti pienamente risolti ( la sola eccezione mi pare Ortrud, appunto), tanto che la domanda da porsi non mi pare debba essere cosa intenda dire esattamente Wagner o da dove prenda esattamente l’idea, quanto, piuttosto, se le sue ambiguità, così intriganti per lo spettatore e lo studioso, derivino dal suo noto dilettantismo megalomane oppure da una lucida strategia funzionale a mantenere vivo l’interesse per il soggetto. L’apparizione di Lohengrin sul carro guidato dal cigno e l’addio finale, che riecheggiano apertamente le trasferte divine o imperiali su carri celesti variamente trainati, il complotto dei malvagi, il duello con Telramund, la figura di Gottfried trasformato in cigno che alla fine ritorna ad umane sembianze, la solitudine dei protagonisti, la terribile invocazione di Ortrud agli dei ( nordici! ) del male, l’addio finale, retti da una struttura melodrammatica fatta ancora di numeri chiusi o semichiusi, con tanto di arie, duetti, cori, concertati, una evidente tendenza alla monumentalità delle scene di assieme, i grandi contrasti tra il clima mistico che accompagna il protagonista e quello cupo che connota i cattivi o i cori dei brabantini e dei sassoni, sono tutti elementi di un grande melange eclettico, fatto di elementi irrinunciabili, di tradizionalismi ed innovazioni, ma anche di velleità e prolissità, di teatralità e mera prosopopea ottocentesca, che coagulano nell’immagine del genio contraddittorio che ben conosciamo. Scomporre questa alchimia sapiente e perfettamente funzionante insistendo sugli aspetti irrisolti o meno nitidi del testo, fa solo il gioco di Wagner di alimentare un dibattito attorno ad immagine messianica di sé, di profeta dalle mille sfaccettature della modernità teatrale e musicale, di genio intrigante dalle infinite implicazioni, che alla fine risulta eccessiva ed eccessivamente positiva. Il grandioso feuilletton wagneriano, composto da alti e bassi, anche qui presenti come nelle infinite ripetizioni dei cori dell’atto secondo, od in certe cadute di ritmo che talvolta la forbice degli esecutori successivi, in particolare quelli americani novecenteschi, ha inteso compensare, si regge da un lato sulla grande inventiva musicale e sul dominio straordinario dell’orchestra, nel gioco sapiente dei leitmotiv e delle variazioni di tonalità, sulla capacità di creare climi e commentare il dramma, ma, dall’altro, nell’insistenza delle sue ripetizioni e reiterazioni a sforzare lo spettatore, a volerlo convincere con ogni mezzo che la prolissità non sia tale, che la stasi dell’azione sia in effetti funzionale al dramma anche quando il ritmo oggettivamente si abbassa etc. Il mélange monumentale ( ed ambizioso ), proprio per questo imperfetto perché difficile da mantenere ad una costante tensione drammatica, risulta comunque efficace e soggiogante, in questa occasione anche per il pubblico avvezzo al canto di scuola italiana, perché Wagner nel Lohengrin conserva ancora numerose prerogative melodiche, destinate a sparire nelle successive declinazioni, più compiute, dello Sprechgesang.

 

Richard Wagner

Lohengrin

PreludioOrchestra del Metropolitan Opera House, dir. Fritz Busch (1945)

Atto I

Hört! Grafen, Edle, Freie von Brabant!Julius Huehn, Emanuel List, Friedrich Schorr, dir. Arthur Bodanzky (1935)

Einsam in trüben TagenEleanor Steber, Josef Greindl, Hermann Uhde, Hans Braun, dir. Joseph Keilberth (1953)

Nun sei bedanktFranz Völker, dir. Heinz Tietjen (1938)

Wie fasst uns selig süsses Grauen!Lauritz Melchior, Ludwig Hofmann, Elisabeth Rethberg, Gustav Schutzendorf, Maria Olszewska, George Cehanovsky, dir. Arthur Bodanzky (1934)

Atto II

Erhebe dich, Genossin meiner Schmach!Friedrich Schorr & Marjorie Lawrence, dir. Arthur Bodanzky (1935)

Euch Lüften die mein KlagenMaria Müller, dir. Heinz Tietjen (1938)

Elsa!…Wer ruft?Maria Olszewska, Elisabeth Rethberg, Gustav Schutzendorf, dir. Arthur Bodanzky (1934)

In Frühn versammelt uns der RufGeorge Cehanovsky, Julius Huehn, Karin Branzell, Kirsten Flagstad, Ludwig Hofmann, Lauritz Melchior, dir Maurice Abravanel (1938)

Atto III

PreludioOrchestra del Festival di Bayreuth, dir. Wilhelm Fürtwängler (1936)

Treulich geführt ziehet dahinCoro del Festival di Bayreuth, dir. Wilhelm Fürtwängler (1936)

Das süsse Lied verhalltWolfgang Windgassen & Eleanor Steber, dir Joseph Keilberth (1953)

Heil König Heinrich!Emanuel List, Lauritz Melchior, dir. Arthur Bodanzky (1935)

In fernem LandLauritz Melchior, Lotte Lehmann, dir. Arthur Bodanzky (1935)

Mein lieber SchwannFranz Völker, Margarete Klose, dir. Wilhelm Fürtwängler (1936)

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