Si è aperta ieri sera la trentaquattresima edizione del Rossini Opera Festival. Edizione introdotta dalle dichiarazioni dei responsabili festivalieri, dottor Mariotti senior e maestro Zedda, i quali hanno officiato l’apologia del prodotto non ancora servito (e quindi, indirettamente, la propria) lamentando la scarsa attenzione della città verso il concerto di chiusura dell’Accademia rossiniana (ormai celebre “officina” delle giovani promesse poi ricollocate, negli anni successivi, sui titoli di cartello) e impartendosi, benché laici, l’assoluzione preventiva per aver proposto “un programma spettacolare” a dispetto di finanziamenti sempre più scarsi. Per usare le parole del dottor Mariotti sr.: “non abbiamo ceduto sul piano della qualità, nemmeno un pochino”.
Poi la prima tappa di questo Rof 2013 è andata in scena e la radio, impietosa, l’ha trasmessa in tutto il mondo. Le reazioni della nostra chat sono memorizzate nella pagina e a disposizione di chiunque voglia leggerle o magari rileggerle, atteso che agli utenti immersi in una fitta discussione lungo le tre ore di spettacolo (e di questo siamo sempre lieti e grati) si sommava un buon numero di spettatori “silenziosi”, troppo timidi forse o troppo in soggezione per intervenire. Sono fioccati anche gli sms che la sempre soccorrevole radio nostrana, emula (ma solo in questo) del’EIAR, ha dapprima accuratamente scremato, poi celermente riassunto, e che denotavano in generale, da parte dei radioascoltatori, scarso entusiasmo e non poche perplessità su bacchetta, cantanti e allestimento (o meglio, sui frequenti rumori che caratterizzavano quest’ultimo). A queste doglianze potremmo aggiungere quelle relative alla qualità del suono della ripresa Rai, davanti alla quale certe registrazioni amatoriali acquistano un loro perché anche al di là dell’aspetto documentario. Ultimi, ma non ultimi, il pubblico del Teatro Rossini ha reagito con cortese freddezza lungo tutta la serata e alla fine ha regalato una solenne “tamburata” ai responsabili della parte visiva dello spettacolo. Peraltro gli stessi, l’anno scorso, avevano colto un discreto successo con il Ciro in Babilonia, protagoniste Ewa Podles e Jessica Pratt.
Anche questa volta insomma la regia sembra avere svolto alla perfezione quello che è ormai divenuto il suo compito statuario, assorbire e catalizzare l’insoddisfazione del pubblico (nonché di alcuni “addetti ai lavori”, almeno i più vicini, in ogni senso, al festival) per un’esecuzione, a esser buoni, zoppicante di un titolo peraltro niente affatto “festivaliero”: al pari degli altri titoli della “trilogia buffa”, l’Italiana non ha certo dovuto attendere il ROF per imporsi nel repertorio di tutti i teatri, dai maggiori a quelli della più sperduta provincia. In questi ultimi è stato con ogni verosimiglianza selezionato il direttore, José Ramón Encinar, che nella nostra profonda e totale ignoranza reputavamo esordiente o poco più, o comunque con un’esperienza così limitata da giustificare in qualche modo l’incapacità di tenere assieme buca e palco e di staccare tempi non solo minimamente adeguati al carattere della musica, ma tali da non porre in ulteriore difficoltà solisti di canto già messi alla frusta dalle rispettive parti. Poi ci siamo fatti un giro in Internet, che per queste e altre materie è una formidabile “portineria” non solo virtuale, e abbiamo scoperto che il maestro Encinar sfiora i sessant’anni di età e i quaranta di carriera, avendo esordito nella prima metà degli anni Settanta. Carriera spesa in massima parte nei teatri della provincia spagnola (appunto) e alle prese con un repertorio eclettico in cui però sembra farla da padrona la zarzuela. Repertorio non privo di difficoltà anche di un certo spessore, ma piuttosto distante dai titoli rossiniani, anche in chiave buffa. Viene insomma il dubbio che la scelta di Encinar sia stata dettata da presupposti (economici?) che non onorano il titolo, l’autore e la tradizione (spesso più velleitaria che effettiva, a dire il vero) della manifestazione pesarese. L’alibi della scarsa domesticità con Rossini non vale certo per le compagini del Comunale di Bologna, che affrontano un titolo di grande repertorio con suono secco e poco amalgamato in orchestra, frequenti stonature (fin dall’ouverture) da parte degli strumenti a fiato, inconcepibili “sbandamenti” (colpa, non esclusiva, della bacchetta) e ulteriori cali d’intonazione a opera del coro. Pare che la regia ne abbia messo del suo, costringendo i malcapitati coristi a muoversi incessantemente, ma quella che potrebbe essere una parziale, e non sufficiente, scusante per un’opera desueta di qualche autore minore dell’Ottocento semplicemente non regge, o regge benpoco, per una partitura che l’orchestra e il coro del teatro felsineo dovrebbero conoscere a memoria, e che non più tardi di un anno fa è stata riproposta nella sala del Bibiena.
Per quanto concerne i solisti di canto, ancora una volta dobbiamo registrare come dall’Accademia pesarese sortiscano allievi, che non sanno emettere un acuto decentemente, farfugliano le agilità ed esibiscono, ancora in giovine età, strumenti vocali già usurati, dal timbro senescente e acidulo. Caratteristiche che li accomunano peraltro ad alcuni dei più quotati “divi” oggi presenti sul mercato, con buon auspicio per lo sviluppo delle relative carriere. Cursus honorum per molti versi inspiegabile quello di Anna Goryachova, promossa dal cempennato Edoardo della Shabran dell’anno scorso a protagonista di questa Italiana. La voce, dai centri artificialmente gonfi a imitazione della Valentini Terrani, senza che lo strumento abbia l’importanza e la bellezza di quello della cantante veneta, è priva di adeguato sostegno in tutta la gamma. Non lega due suoni, le agilità sono arronzate in (pseudo)stile baroccaro e già sul fa (nota che non è certo l’estrema delle parti scritte per Maria Marcolini) cominciano le urla, che nella serata in oggetto si sono manifestate in tutta la loro “gloria” al rondò conclusivo, coronato da un si naturale attaccato scoperto, dopo che per anni abbiamo sentito i filologi adriatici sostenere che una simile prassi sarebbe fuori stile. Perdonate, cari signori, ma questo è ormai il minore dei mali! Pare che la signora Goryachova abbia una bella figura e porti con disinvoltura le mise spesso audaci che questa regia riserva alla protagonista. Ce ne congratuliamo con lei, ma non possiamo non ricordare come anche Conchita Supervía, Teresa Berganza, Martine Dupuy e tante altre celebri Isabelle fossero belle signore, ora eleganti ora decisamente sensuali, ma prima e al di là di ogni altra cosa, serie professioniste in pieno possesso dei ferri del mestiere. Canoro.
Yijie Shi, che alterna parti di scrittura marcatamente centrali ad altre squisitamente contraltine con una disinvoltura (sulla carta) che nemmeno Blake e Merritt ebbero mai, ha sfoggiato nell’elevata tessitura di Lindoro il suo usuale repertorio di suoni bianchi, chiocci, con frequenti “scivolate” d’intonazione sul passaggio superiore (duetto con Mustafà, trio dei Pappataci, entrambe le arie, nella seconda delle quali ha anche pasticciato le parole). Allo stesso imbarazzante livello Mario Cassi, che ha riproposto le caccole dei vituperati buffi d’antan, accompagnate da una bella (si fa per dire) voce legnosa di tenore corto. Un poco meglio (e ci voleva, appunto, ben poco) Alex Esposito nella parte del Bey, benché la voce risulti inchiostrata (forse per compensare un registro medio-grave, che suona sordo e privo di spessore), il sillabato faticoso (un po’ meglio le agilità, benché scolasticamente compitate e non scandite con l’accento che richiederebbe un ruolo ideato per Filippo Galli) e la salita agli acuti, a esser buoni, aleatoria (con tanto di stecca sui sol di “Pappataci” al finale secondo).
Oggi alle ore 18, seconda puntata del Festival 2013: Guglielmo Tell.
Gli ascolti
Rossini – L’Italiana in Algeri
Atto II
Pappataci! che mai sento – Mario Petri, Alvinio Misciano e Sesto Bruscantini (dir. Nino Sanzogno – 1957)
A mio avviso la direzione e’ stata modesta come tante altre del trentennio pesarese. Il tenore era sufficiente e poteva essere un allievo tipo d quei maestri d canto che credono d poter insegnare a chiunque dotato di soldi e caparbieta’. Sicuramente buona la protagonista (migliore delle ultime due ascoltate Rachvelisvili e Barcellona). Veramente scadente Cassi e debolissima prova del mio caro Esposito che ho trovato molto ma molto piatto.
Peccato caro albertoemme che il tenore non sia un allievo fresco di conservatorio, accademia o master, bensì di fatto IL tenore di punta del ROF dell’ultimo lustro, atteso che dal 2008 non è passata edizione (credo con l’eccezione del 2012, ma vado a memoria) senza che il suddetto fosse precettato dal festival, e sempre per prime parti. Insomma la caparbietà dei selezionatori è almeno pari a quella del cantante.
Poi ti trovo ingiusto con Esposito, mille volte più accettabile di quella barzelletta di mezzo soprano (lo spazio non è casuale! e che sia meglio delle due da te citate dimostra solo quanto scarsa sia la consistenza di certi fenomeni, accademici e non solo).
Direzione pessima , mezzo e tenore improponibili ,basso veramente insentibile ( sembrava di ascoltare una brutta copia di Corena ).
Se canta ancora così, avrà sicuramente un ruolo esclusivo nella nuova opera “La Capra” di Cecilio Bartolotti 😛
Mamma mia i sib3 … belati!
http://www.youtube.com/watch?v=jIKe4AHiRk0
Condivido pienamente tutte le censure giustamente espresse. Solo, non sono d’accordo su una cosa. Esposito era peggiore di tutti in quanto vocalmente e stilisticamente più inadeguato. Povero ROF come sei caduto in basso!