Sorella Radio: Giovanna d’Arco dal Festival di Salisburgo.

sorella radioContinua la strana estate dei festival musicali, cornice di eventi memorabili per chi vi abbia assistito in loco, del pari memorabili, in tutt’altro senso per chi abbia preferito seguirli attraverso i mezzi di comunicazione, radio in primis. Non sono mancate, almeno alle nostre latitudini, voci che ravvisando (o sostenendo di ravvisare?) nella scarsa qualità della trasmissione radiotelevisiva la causa di una siffatta disparità di percezione, arrivano al punto di invocare la censura preventiva, ossia l’abolizione (o la semplice sospensione “per ferie”?) delle dirette o differite, accusate di mortificare, guastare, sciupare irrimediabilmente la poesia degli eventi memorabili di cui sopra e offuscare, quindi, l’immagine dei festival di stagione, belli e importanti perché di lunga e consolidata tradizione. Il nostro pensiero al riguardo è che questi eventi, ampiamente foraggiati dalle casse statali (almeno quelli che hanno luogo sul suolo italico), debbano raggiungere un pubblico il più possibile vasto, anche per conformarsi agli ideali di democrazia e partecipazione che gli amministratori e i patrocinatori dei suddetti festival hanno sempre testimoniato, negli anni, con le parole e più ancora con le azioni, a volte anche le omissioni. E dunque ben vengano le dirette e le differite, che, oltre a diffondere cultura e intrattenimento, permettono di verificare con mano, anzi, con orecchio ed occhio quanto riportato dai giornali (dai grandi quotidiani internazionali ai foglietti di paese, che sognano di accrescere il proprio prestigio con assidue “corrispondenze” dalle manifestazioni estive) a proposito delle medesime performance.

Ad esempio, scorrendo alcune recensioni della Giovanna d’Arco presentata in forma di concerto alla Felsenreitschule di Salisburgo, chi ignorasse i nomi degli esecutori coinvolti potrebbe pensare di avere tra le mani i resoconti di un’esecuzione primi anni Sessanta, affidata ad Antonietta Stella, Carlo Bergonzi e Mario Sereni, sotto la navigata bacchetta di Francesco Molinari Pradelli ovvero di Antonino Votto. Accendendo la radio o collegandosi a Youtube, che riporta significativi stralci non solo della recita radiotrasmessa, ma di registrazioni in-house riferite alle stessa rappresentazione (6 agosto), il lettore non potrebbe non rimanere stupito e perplesso, trovando, in luogo delle voci “importanti” e degli esecutori impegnati ed espressivi, magnificati dalla carta stampata, esecutori in seria difficoltà con i rudimenti del canto professionale, e di conseguenza insufficienti rispetto al compito assegnato.

È di gran moda in questi ultimi tempi sottolineare la necessità di ricondurre il primo Verdi alla sua “origine belcantistica” (le virgolette sono di rigore), rimarcando così indirettamente la scarsa quadratura tecnica e l’approssimazione stilistica che avrebbero caratterizzato fino all’altro giorno (questi i tradizionali confini della “damnatio memoriae”) le esecuzioni di questo e altri titoli degli “anni di galera”. Sulla questione si è già espresso con eloquenza Donzelli nella recensione della Giovanna d’Arco di Martina Franca. A me non rimane che rimarcare, con riferimento all’esecuzione salisburghese, che il tris di cantanti, anzi, Divi all’occasione convocati avrebbe serie difficoltà a proporsi, non già in un Rigoletto, ma in un bell’Elisir d’amore. La protagonista, Anna Netrebko, avrebbe anche una voce importante (almeno per gli standard attuali, in un panorama in cui certo non abbondano le eredi e le emule di Margaret Price o Cristina Deutekom), ma purtroppo completamente “in bocca” a causa di un’emissione ingolfata, che la costringe a frequenti e antimusicali riprese di fiato (ne fanno le spese, con i cantabili, anche l’apostrofe al Re “Son guerriera che a gloria t’invita”) e col centro artificialmente scurito, anzi bitumato, che propizia (si fa per dire) una salita agli acuti faticosa e periclitante nell’intonazione, specie nei primi acuti (sol-la), mentre quelli estremi sono gridati (il do in chiusa del prologo) o miagolati (quelli del concertato dinanzi la cattedrale di San Dionigi, su tutti il re bemolle in chiusa dell’Andante “L’amaro calice”). Come sempre la signora canta in gnerico ovvero con pronuncia impastata e assoluta inintelligibilità, e quel che è peggio, accento genericamente piagnoloso dal principio alla fine, che se può funzionare in una scena come il finale secondo, risulta stridente e fuori luogo nei molti punti in cui Giovanna è chiamata a esibire la fierezza dell’eroica vergine esaltata, o sarebbe meglio dire invasata, dagli spiriti celesti.

Accento del pari generico e assoluta latitanza di fraseggio sfoggia Francesco Meli, che, forse per non essere da meno della collega, apre i centri alla ricerca di un colore brunito e di una più ampia risonanza nell’ottava centrale (quella in cui Carlo VII, di fatto, canta), per poi ritrovarsi in sistematica difficoltà sul fa e sol acuto, note su cui i tentativi di smorzatura, fin dal primo recitativo (e più ancora man mano che la serata procede, come nel “parla o cieco padre” al finale secondo e alla scena finale), si risolvono in suoni rochi e in odore di falsetto. Quanto a Placido Domingo, ci domandiamo non da oggi, ma mai come oggi, quale senso abbia prolungare a ogni costo una carriera importante (anche se non sempre, anzi quasi mai, artisticamente rilevante e storica) con prove come questa, affrontate con voce non solo senescente (sarebbe il meno) ma dura e legnosa, incapace di legato, acuti (che sono poi il centro della voce di un normale tenore, quale Domingo rimane, nonostante la “virata” di repertorio) poveri di squillo e un registro medio-grave semplicemente inesistente. E la domanda si consolida e rafforza quando si considerino le imminenti uscite discografiche di nuovi, improbabili album “a tema”, quasi più tristi delle compilation che per il solito fioriscono in occasione di luttuosi eventi. Anche per Domingo, come per i colleghi, l’espressione si riduce all’adozione di un accento genericamente torvo e grandguignolesco, che più che al padre tormentato e infine redento dell’opera verdiana fa pensare a un Amonasro in salsa paraverista o a un Tonio di provincia. Come di provincia, ma di quella profonda, sede naturale di tante memorande serate da spedizione punitiva, è la direzione di Paolo Carignani, che non riesce a coordinare buca e solisti (e tralasciamo quel che avviene nel terzetto a cappella del finale primo, in cui i cantanti sono letteralmente abbandonati a se stessi e alle loro difficoltà nel mantenere l’intonazione) e si conforma al Verdi tutto marcette offenbachiane, spernacchiamenti e sonorità slavate ultimamente così di moda, non esattamente quello che servirebbe a una partitura che ha nel “fuoco”, e non già nei clangori da banda di paese, la sua autentica ragion d’essere.

Resta poi da chiarire, al termine delle commemorazioni dedicate dai festival estivi a Wagner, Verdi e Rossini, quale sia, ormai, la ragion d’essere di questi onerosi caravanserragli, al di là dell’omaggio alla memoria (o all’assenza di memoria) e della nutrizione artificiale di un organismo in agonia, denominato star system.

 

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8 pensieri su “Sorella Radio: Giovanna d’Arco dal Festival di Salisburgo.

  1. Misericordia come si è ridotta Salzburg. E l’ex sovrintendente verrà in Scala..con queste porcate? E’ questo il rinnovamento? prendere un vegliardo stonato e con la mania di voler dirgere? non is può non fare previsioni catastrofiche e non bastera’ squinzagliare i cronisti pieni di saliva per salvare il tutto… Ascoltiamo una Giovanna di qualche anno addietro, e seppur con tempi un poco rallentati ci farà almeno godere di un pò di Verdi, quello vero non quello arrcicchito di pastafrolla e bignè.. http://www.youtube.com/watch?v=v89NIextP2w
    eccovi un articolo alla saliva purissima:
    http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/ecco-mio-talent-premio-ai-vincitori-essere-diretti-me-944622.html

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