La trentaquattresima edizione del ROF si è chiusa venerdì scorso con un’esecuzione in forma di concerto de La Donna del Lago. Titolo assente dalle scene pesaresi dal 2001, quando la ricerca del soprano Colbran, autentica pietra filosofale della filologia rossiniana in salsa adriatica, non aveva ancora raggiunto il parossismo, avendo la dirigenza del Rof, all’epoca identica o quasi all’attuale, affidato la parte della protagonista a Mariella Devia. Scelta opportuna e assennata se paragonata a molte di quelle operate, o per meglio dire perpetrate, negli anni successivi, non altrettanto felice, anche per la quantità e la qualità dei “raggiusti” operati sullo spartito, in senso assoluto.
Per questa nuova proposta Alberto Zedda, direttore musicale della serata e prima ancora mentore dell’Accademia rossiniana, giunta quest’anno al venticinquesimo anniversario, ha optato per un cast di giovani, come suol dirsi, di belle speranze, quasi tutti provenienti dal suddetto “vivaio” e in più di un caso reduci da ruoli di secondo piano nelle produzioni di precedenti annate pesaresi. Insomma anche la Donna, al pari del Viaggio a Reims, è considerato dai filologi e dagli amatori locali un titolo adatto a essere proposto quale di saggio di fine corso.
La serata è stata ovviamente trionfale, per utilizzare il gergo agiografico delle cronache cittadine, che hanno salutato nell’ottantacinquenne direttore, colto da un lieve malore a due terzi abbondanti del primo atto e costretto a interrompere per un’oretta buona l’esecuzione, un campione non solo di resistenza fisica (e sul punto ovviamente concordiamo), ma di spirito e rigore autenticamente rossiniani. Non possiamo dire di essercene accorti.
Proposta con generosi tagli ai recitativi, che hanno cassato dalla locandina il personaggio di Bertram e confinato a poco più del finale primo quelli di Albina e Serano, questa Donna si è distinta per l’incapacità di suggerire tanto l’atmosfera protoromantica, in pari misura barbarica e onirica, della Scozia immaginata da Tottola e Rossini d’après Walter Scott, quanto l’intensità del conflitto amoroso e politico che è il fulcro dell’opera e che determina, a partire dall’entrata di Rodrigo e fino alla seconda aria di Malcom, una tensione drammatica e musicale che ha pochi eguali nella produzione rossiniana, e che basterebbe da sola, al netto delle bellezze melodiche e dei preziosismi armonici disseminati nella partitura, a spiegarne il successo non solo all’epoca delle prime rappresentazioni, ché fino alla metà dell’Ottocento (insomma fino all’estinzione dei cantanti rossiniani o di formazione rossiniana) la Donna conobbe rappresentazioni regolari, magari in versioni rivedute dall’autore o comunque con il suo assenso, come accadde a Parigi nel 1824, quando il terzetto della sfida (forse la pagina più onerosa dell’opera per gli esecutori, tenori in primis) venne rimpiazzato da brani tratti da Bianca e Falliero e Armida (a questa tradizione si ispirerà Tullio Serafin in occasione della pionieristica ripresa del titolo alla Pergola di Firenze nel 1958, inserendo al posto del rondò della primadonna il quartetto di Bianca e Falliero, seguito da una ripresa di “O mattutini albori”). Come scrive H. Colin Slim, curatore dell’edizione critica dell’opera: “La fortuna della Donna del Lago restò da quel momento quasi indissolubilmente legata a quella scelta, dato che se il Théâtre Italien non era in grado di trovare tenori adeguati alla scrittura del Rossini napoletano proprio nel periodo in cui l’autore stesso ne era a capo, tanto meno lo potevano altri teatri”. Pesaro, che richiama, e non da oggi, il campo dei miracoli di collodiana memoria, permette evidentemente questo e ben altri prodigi.
Dall’orchestra e dal coro del Teatro Comunale di Bologna abbiamo ricevuto la conferma che le dirette radiofoniche di mamma Rai, pur censurabili nella qualità della ripresa audio, sono del resto fedelissime all’originale, atteso che i clangori, le calate d’intonazione di archi e fiati (nonché dei coristi, soprattutto delle signore), gli ingressi a esser buoni approssimativi, e spesso davvero al di là del bene e del male, delle prime parti (su tutti quelli degli ottoni) erano i medesimi già “gustati” nelle tre serate trasmesse dall’emittente nazionale. La scelta di collocare la banda tra i rimanenti strumenti dell’orchestra, e non, come di consueto, in posizione separata o addirittura tra le quinte, non ha significativamente giovato alla compattezza di suono e alla coesione dell’insieme. Quel che è peggio è che Zedda, dispensatore di sonorità lutulente e bandistiche, tempi ora malamente slentati, ora così stringati da evocare le marcette del teatro dei burattini, non è riuscito in alcun modo a sostenere, dal podio, i virgulti all’occasione convocati.
Tra le quattro parti principali il solo Giacomo V, Dmitry Korchak, vanta a oggi frequentazione più che quinquennale e dei titoli rossiniani e del festival che dovrebbe essere la principale vetrina internazionale di questo autore. Fin dal recitativo di entrata il tenore russo ha dispensato suoni malfermi, bianchicci e sistematicamente stonati nella zona del passaggio superiore, arrivando nella stretta del duetto con Elena e soprattutto nel celeberrimo assolo “O fiamma soave” a emettere autentici berci, alternati a suoni opachi e afonoidi nel registro basso. Una caratteristica peraltro comune a tutti gli esecutori convocati, che non sapendo collocare la voce in prima ottava risultavano spesso coperti (anche in un teatrino come quello di Pesaro) dall’incombente volume orchestrale. Le fioriture, soprattutto alla sfida, sono state maldestramente cempennate, con tanti saluti a quella che dovrebbe essere la sigla del grande virtuoso rossiniano. Nei panni dell’antagonista Rodrigo, eroe infelice e deluso sposo, Michael Spyres ha dato prova di una natura più fresca e generosa, ma non di un canto più accorto e tecnicamente saldo di quello del collega. Il tenore americano canta con un centro artificialmente allargato e scurito, a simulare in prima ottava la corposità e il colore del tenore da opera seria. Alla Merritt, insomma, che pure in Pesaro gode di pessima fama e reietta memoria. Nella piccola sala pesarese il gioco, che nell’ampio spazio del teatro ambrosiano era, complice la scarsa proiezione del suono, a dir poco fallimentare, poteva anche funzionare, ma la salita agli acuti risultava fatalmente compromessa, tanto da indurre l’esecutore a scontarsi, fin dalla sortita, uno dei do previsti dall’autore, arrestandosi con un maldestro rappezzo a un si bemolle, peraltro forzato e privo di squillo. Il cantabile “Ma dov’è colei che accende” dava luogo a suoni spoggiati e poco saldi, che dovevano fare le veci di piani e pianissimi (il tenore che, solo un paio di stagioni fa, affrontava con voce morbida e sicura la sezione centrale dell’aria di Don Ramiro è ormai un ricordo o poco più), mentre nella cabaletta l’esecuzione della coloratura permaneva faticosa e ingolfata. Al finale primo, quando Rodrigo chiama prima al giuramento e quindi alla battaglia i suoi guerrieri, latitavano ancora una volta lo squillo e la protervia del guerriero, rimpiazzati da suoni scomposti e ben poco stilizzati, mentre alla sfida con l’ignoto e regale oppositore le difficoltà erano le medesime del rivale. La circostanza che, in questa pagina, il medium risulti più sonoro di quello di Korchak è ben poco rilevante, a fronte dei suoni bianchicci, poveri di armonici e più adatti a un caratterista da opera semiseria cui Spyres è costretto, non per natura ma per limiti tecnici, al di sopra del sol acuto.
Trionfatrice della serata, almeno secondo l’applausometro del non foltissimo, ma generoso e vociante pubblico, Chiara Amarù, già seconda, anzi terza donna nel famoso Mosè in Egitto in salsa ayatollah griffato Graham Vick, successivamente Isaura e chiamata qui a esibirsi in una parte di autentico contralto. Ci sembra che la signorina Amarù canti secondo i più consolidati stilemi baroccari, che prevedono posizione assai bassa della voce, prima ottava (quella in cui Malcom di fatto insiste per buona parte della serata) maldestramente aperta e ridotta quindi a suoni gonfi e ovattati, che impongono poi, nelle non sporadiche escursioni in alto inserite come variazioni nei da capo, grida e farfugliamenti assortiti in luogo di acuti facili e sicuri e autentiche agilità di forza. Peraltro la cantante è giunta esausta, con significativa riduzione di volume, al termine di una parte che consiste, di fatto, in un paio di arie, un duettino e un concertato.
Per salvare in qualche modo la performance di Carmen Romeu, la compiacente, compassionevole e commiserabile quindi (ma sarebbero ben altri e ben più pregnanti i termini da utilizzare) stampa adriatica ha ricordato che anche Isabella Colbran conobbe non poche difficoltà in occasione della prima assoluta del titolo. Crediamo che l’unica cosa che possano avere in comune la signorina Romeu e quella che sarebbe diventata la prima signora Rossini sia l’origine iberica. Da questa novella Colbran della riviera marchigiana abbiamo udito un canto in debito d’ossigeno all’ottava bassa, vuota e sorda, con frequenti e antimusicali riprese di fiato, suoni acidi e chiocci (soprattutto quando l’esecutrice si sforzava di produrre un piano) nella zona che prepara il passaggio agli acuti e, al di sopra di questa, strilletti da soubrette, peraltro senza la “punta” che la voce di soprano dovrebbe possedere almeno in quella fascia della voce. Questo fin dalla sortita “O mattutini albori”, passando per difficoltà crescenti (anzi, calanti) al duetto con Giacomo e alla sfida, per approdare a un’esausta esecuzione del rondò finale, condita, alla ripresa della cabaletta, da nuove e sempre più evidenti difficoltà di intonazione. Completavano il cast il caricaturale Duglas di Simone Alberghini, l’Albina, anche lei vetrosa in acuto (incomprensibili, ancora una volta, le interpolazioni proposte o almeno avallate dal direttore d’orchestra), di Mariangela Sicilia e il Serano di Alessandro Luciano, semplicemente inudibile (permane misterioso come sia riuscito a interpretare lo scudiero Rodolfo nella ben più vasta sala dell’Adriatic Arena).
Dopo l’anno sabbatico, in cui non è stato proposto alcun titolo napoletano (salvo appunto questa Donna “dei giovani”), il Rof si appresta, nel 2014, a mettere in scena nientemeno che Armida, ossia un titolo che ebbe assai limitata circolazione al di fuori dei teatri napoletani, vuoi per la difficoltà nel reperire un numero di tenori sufficienti e sufficientemente abili a ricoprire degnamente le parti previste, vuoi per la complessità della scrittura vocale riservata alla protagonista. Se queste sono le premesse con cui la rassegna adriatica si prepara all’arduo cimento…
Gli ascolti
Rossini – La Donna del Lago
Atto I
Sei già nel tetto mio…Sei già sposa – Darina Takova e Juan Diego Flórez (2004)
Mura felici – Marilyn Horne (1981)
Qual rapido torrente…Eccomi a voi, miei prodi – Dano Raffanti (1982), Chris Merritt (1986)
Atto II
O fiamma soave – Cesare Valletti (1958), Chris Merritt (1985)
Alla ragion deh rieda – Lella Cuberli, Rockwell Blake e Chris Merritt (1986)
Imponga il Re – Alberto Zedda (2013)
Tanti affetti – Frederica von Stade (1985)
Imponga il Re…Cielo il mio labbro inspira…Ah sorgi – Cesare Valletti, Rosanna Carteri, Irene Companez e Paolo Washington, dir. Tullio Serafin (1958)
Se riascolto Dano Raffanti, mi tornano alla mente le forti emozioni che quell’ascolto mi creo’ per la prima volta: la voce chiarissima, i vocalizzi sicuri e sempre precisi la intonazione che non si perdeva neppure in mezzo alle difficoltà interpretative. Era la scoperta d’un mondo che accompagnò i miei ascolti musicali. Solamente ora mi accorgo che quel mondo è finito, e le rianimazioni con ossigeno e altri trucchetti non reggono più.
Peccato che un uomo intelligente come Alberto Zedda sprechi la sua dote musicale con surrogati, sì, solo surrogati di quel tempo felice.
Piccola nota: si dice che Dano Raffanti non avesse mai studiato con nessun maestro, e che quando si presentò a Rodolfo Celletti fosse già perfetto…sarà vero?
Condivido: un mondo perduto e un festival incapace di trovare un nuovo senso di esistere. Solo una considerazione: Zedda è un valente musicologo, ma non è mai stato un buon direttore.
Sarà, ma un musicologo che autorizza o magari scrive di suo pugno quelle variazioni musicalmente traballanti (anche al di là della faticosa esecuzione) dimostra di avere urgente bisogno di una cosa: la pensione.
Senza dubbio: una cosa è la ricerca, altra cosa la creatività (altra ancora dirigere un’orchestra).
invito alla riflessione ed alla conseguente polemica: avete sentito lo stacco di tempi e la sonorità scelta da Serafin per “cielo il mio labbro inspira”. Mi rifiuto di credere che Rossini, che inaugurò e preconizzò (forse suo malgrado) la stagione romantica sia quello delle marcette e delle sonorità striminzite, che sono divenute ormai l’abitudine, la regola ed il risultato dell’orrore per il romanticismo. La pagina di Rossini non differisce affatto da i grandi ensemble del melodramma romantico e allora perché ostinarsi ad eseguirlo come il terzetto del Matrimonio.
Il problema è che pochi padroneggiano la cifra neoclassica indispensabile per affrontare Rossini, e quindi pongono l’alternativa (scorretta) tra romanticismo esasperato e asettiche marcette meccaniche: il fatto è che neppure il Matrimonio Segreto andrebbe diretto in modo piatto… Certo è che affidare una partitura come la Donna ad aspiranti direttori o a semidilettanti, sarebbe come far dirigere la Nona di Mahler a uno studente di Conservatorio.
E’ da un po’ di tempo che seguo cosa pensa il Corriere di Spyres e sinceramente mi chiedo se abbia qualche problema io uditivo o se Spyres rappresenta una di quelle voci come Florez che in disco suonano in un modo e dal vivo in un altro.
Sentendo alcuni brani del concerto al ROF https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=0ZAgjWql7Wg non sento niente di quanto riportato sopra (certo, l’espressione può essere sempre migliorata però il suono mi sembra esserci).
Chieda numi senza ironia ma con sincerità per chiarire questa contraddizione che sento, visto peraltro che non l’ho mai sentito dal vivo!
Ti invito ad ascoltare quello che avviene, nel brano da te postato, alle parole “sull’orma CORsa” e poi su “colei che prima potE’ in questo core” e ogni volta che compare un sol acuto. O ancora nel cantabile “EI che vorria dell’anima” l’attacco sul solbem. Il secondo passaggio è aleatorio, e di conseguenza gli acuti (anche un semplice la) sono tirati, bianchi e di incerta intonazione. Altrettanto casuale la respirazione, specie nella cabaletta.
“Sull’orma COrsa” non centra bene la nota e risulta leggermente indietro e poco poco calante.
“colei che prima potE’ in questo core” la è è leggermente aperta e usa un po’ troppo fiato.
“EI che vorria dell’anima” cerca di legare la frase ma finisce l’aria e lo spezza …
A parte i primi due, che mi sembrano inezie, qualche cambio di vocale (tipo “fanciolla” invece di “Fanciulla”) e la mancanza di legato in EI che mi sembra una cosa puntuale e non continua, non capisco le critiche … Ripeto, lo dico per capire perché non mi è chiaro perché queste inezie si demolisca la tecnica di Spyres che a me personalmente sembra solida dall’ascolto su supporto e non dal vivo.
Mi pare anche che ci siano gli acuti nel brano, che nonna Giulia dice che non abbia …
Non sono inezie. Sono la dimostrazione che il cantante, quanto arrivano gli acuti, non sa come muoversi. E cantare con il centro allargato a simulare lo spessore del tenore lirico non lo aiuta di certo. Basta sentire l’aria della Dame blanche dal medesimo concerto o la sortita di Rodrigo. Ma forse ti sembrano suoni sicuri e timbrati, alla Blake per intenderci. Ed è un peccato, perché se Spyres sistemasse la tecnica (o meglio, la apprendesse in toto), avrebbe probabilmente il re naturale in tasca e la carriera rossiniana andrebbe avanti a ruoli David e Nourrit, anziché annaspare tra le parti da baritenore (che peraltro hanno anche loro una buona dose di acuti).
Che non sia baritenore è “chiaro come il sole”, vedere l’anno scorso quando cantò Baldassarre che annaspava a più non posso per gestire il registro grave con l’acuto.
potremmo andare a sentirlo insieme in segno di bruderbund visto che non l ho mai sentito neppure io…
Andiamo a sentire il concerto di Tamburelli Stignetti, così finalmente senti cantare professionalmente un vero mezzosoprano 😉
ah ah ah hai ragione!