Le recensioni di Manuel Garcia: Aleksandra Kurzak, “Bel Raggio”

belraggiokurzakCopertina rosa vivace animata da noiosi motivi floreali di gusto naif e in mezzo, in una posa vagamente adolescenziale, Aleksandra Kurzak (classe 1977) vestita da hippy anni 70 con in mano un disordinato mazzo di fiori: così si presenta ad un primo sguardo la novità estiva firmata Decca, con questa immagine bizzarra e poco “classica”, riciclabile forse, anche se un po’ forzatamente, per un semplice disco da soprano leggero, anzi soubrette. Niente di più.
Ed in effetti, ascoltando la voce di Aleksandra Kurzak, si potrebbe pensare ad una scelta per la prima volta azzeccata da parte della casa discografica londinese, essendo la sua categoria di appartenenza, almeno in potenza, proprio quella del soprano soubrette: voce piccola, da tessitura media, limitata nelle agilità e soprattutto nel registro acuto. Certo le manca (oltre alla tecnica) la brillantezza, la flessibilità e lo squillo, ma certo tutto ciò non le impedirebbe di eseguire almeno dignitosamente ruoli quali Barbarina, Despina o Giannetta dell’Elisir d’Amore, particolarmente adatti alla sua precaria natura vocale.
Peccato però che nella lista di brani prescelti per questo nuovo disco non figurino ascolti del tipo “In uomini, in soldati”, “L’ho perduta, me meschina” (anche perché comprensibilmente poco redditizi per le avide tasche delle case discografiche), bensì arie di ben diverso livello e difficoltà come “Bel raggio lusinghier” o la preghiera di Amenaide del II atto del Tancredi affiancate, non si sa come e perché, da arie di ben diversa categoria vocale come “Selva opaca” accompagnata da due scene del repertorio comico: “Squallidaveste e bruna” e il duetto “Dunque io son”.
Una tale teoria di brani, di difficilissima e diversissima vocalità, e soprattutto la presenza di una cantante quale Aleksandra Kurzak, obbliga a fare alcune brevi riflessioni. Innanzitutto sulla cantante: voce piccola, se non piccolissima (amplificata e riaggiustata alla bisogna in sede di registrazione), a cui si aggiunge una frequente e stridula fibrosità nel registro acuto; nel centro e nel registro basso la voce invece diventa vuota e gonfia oltre che tutta indietro tra gola e bocca con le ovvie e stranote (tranne che a lei) conseguenze del caso: incapacità a legare una frase in modo omogeneo e pulito, difficoltà negli intervalli da quelli di quarta e quinta in su, agilità faticosissime e trascinate in una dizione precaria. Insomma, una splendida cantante d’oggi. Con questi presupposti però prendere in mano uno spartito rossiniano (a meno che non sia Berta, Clorinda o Zulma), superfluo sottolinearlo, diventa un’operazione che non passerebbe neanche nella testa di una o un cantante degno di tal nome. Ma qui siamo nel mondo dell’impossibile, nel mondo della Decca del 2000, nel mondo della Bartoli che canta Norma, nel mondo in cui il barocco è Max Emanuel Cencic e Julia Lezhneva, e il bel canto rossiniano, a quanto pare, è Aleksandra Kurzak.
Seconda riflessione: ascoltare in un disco di arie rossiniane “Selva Opaca” affiancata a “Bel Raggio Lusinghier” e, ancora peggio, a “Squallida veste e bruna” dice tutto. Dice tutto sullo stato in cui versa la casa discografica londinese, sulla “cultura” belcantista” della cantante in questione e anche, in parte sul pubblico, che di vedere Amenaide assieme a Fiorilla e Mathilde, poco gli importa perché poco sa. Cara Decca, cara Kurzak, è sufficiente un comune dizionario dell’opera (20 euro su amazon) per sapere che Amenaide e Aldimira del Sigismondo sono una cosa, e Mathilde del Tell è un’altra, che appartengono a momenti storici e contesti geografici e culturali diversi, che hanno esigenze vocali differenti e che erano infatti state affidate, alla prima, a voci ben precise con caratteristiche vocali altrettanto precise, Elisabetta Manfredini Guarmani, e Laure Cinti Damoreau.
Ma veniamo al disco, a questa sconclusionata Rossini Parade, che si apre proprio, con la cavatina di Semiramide: “Bel raggio lusinghier”. Arie come questa hanno il pregio di smascherare immediatamente l’impalcatura vocale di certi cantanti in tutti i loro difetti, e non poteva essere altrimenti con Aleksandra Kurzak: fraseggio faticoso e sporco nell’aria precedente la cabaletta, con le scale ascendenti e discendenti che riempiono la prima parte della cavatina eseguite in modo farfugliato e trascinato, così come le agilità e le cadenze della cabaletta, tutte masticate in bocca. Particolarmente spiacevoli acuti in questo primo “carro” della parata: brutta ad esempio la breve cadenza prima della ripresa del tema della cavatina dopo il breve intervento del coro, quattro note sulla corona in mi4, con un mi5 in chiusa, tutto giù stridulo e urlato.
Si è percepita chiaramente la strana e inspiegabile assenza del coro, presente invece in altri brani dello stesso disco come ad esempio nella preghiera di Amenaide del II atto del Tancredi. Questa celebre scena si apre con un recitativo precedente la vera e propria invocazione a Dio particolarmente arduo sia perché supera l’ottava centrale in diversi punti ma soprattutto perché richiede grande elasticità nel fraseggio e nell’espressività sempre in bilico tra l’energico eroismo delle prime frasi e la più intima passionalità delle ultime. In queste battute di recitativo e soprattutto nella preghiera la Kurzak ha eseguito tutte le ampie e distese frasi con una voce continuamente in deficit di appoggio, tendente sempre ad una fissità che in acuto si traduceva in bianchi e inconsistenti falsetti. Nella cabaletta invece, in cui si va dall’agilità al lungo vocalizzo nel registro acuto, la voce di Aleksandra Kurzak è passata dalla fissità falsettata all’urlo, spinto e forzato e in certi punti particolarmente stonato. Lo stesso si potrebbe dire, restando sulla stessa vocalità e sulla stessa cantante d’origine (Elisabetta Manfredini), sull’aria di Aldimira: nel recitativo “O Tranquillo soggiorno”, caratterizzato da ampio e distese frasi, come pure nell’aria, più ricca, com’è ovvio, di agilità e di accenti energici particolarmente marcati, la Kurzak ha faticato dall’inizio alla fine per arrivare alla cabaletta “Diletta immagine di mio consorte” completamente stremata e incapace ormai a gestire un mezzo vocale fuori controllo.
Veniamo ora a “Selva opaca”, la grande aria di Matilde del Guglielmo Tell. La Kurzak, sin dalle prime note del recitativo, ha mostrato la sua vera voce: vuota, piccola, senza corpo, lontanissima se non addirittura opposta alla nobiltà e soprattutto alla vocalità ricca e corposa (alla Cerquetti insomma) di un personaggio come Matilde. E’ un recitativo centrale che non supera il solbem4, ma che richiede una espressività straordinaria che nella Kurzak si traducono in suoni gonfi in bocca, artificialmente imbruniti; espressività che muta continuamente nel decrescendo finale del recitativo dove la voce, ormai stanca, si mostra assolutamente incapace a gestire il cambio di dinamica dal presto al moderato per finire poi sull’andantino precedente l’aria vera e propria: la voce lentamente sparisce senza più sentirsi. L’aria si apre con una frase “Selva opaca deserta brughiera” dopo la quale la soprano polacca si vede costretta a prendere fiato rumorosamente prima di procedere con la seguente “qual piacer la tua vista mi dà” . Nei successivi sedicesimi in salti di terza e quinta perde il totale controllo dello strumento vocale per arrivare al sibem affaticata e quindi impossibilitata a eseguire la tensione armonica che si crea sulla sensibile in si naturale del do iniziale della frase successiva. Nelle seste successive stessa solfa per chiudere malamente sul la 5 su “alla calma il mio cor s’aprirà” spoggiato e privo di qualsiasi concretezza. E così battuta dopo battuta, fino alla cadenza finale chiusa su un debole la bemolle. Lo stesso vale per la bellissima preghiera di Pamira dell’Assedio di Corinto, una pagina di grandissima ispirazione e fascino che la voce della Kurzak riesce a trasformare in una leggera arietta da salotto con un coro più fisso di lei.
Passiamo ora al Rossini comico del quale vengono proposti tra una scena tragica e l’altra (come se fosse simile, della stessa famiglia) il Barbiere di Siviglia con la scena “Dunque io son” in versione sopranile novella Callas e il Turco in Italia con la grande aria finale di Fiorilla “Squallida veste e bruna”. Effettivamente, sentendola, dopo l’aria dell’Elisabetta “Sento un’interna voce” o dopo la preghiera di Pamira, percepire, in entrambi i casi, il cambio dal tragico al comico è veramente arduo se non fosse per il grande genio rossiniano: i differenti problemi elencati sopra portano la Kurzak ad eseguire queste due splendide scene scordandosi completamente che, drammaturgicamente ma soprattutto vocalmente parlando, Pamira e Fiorilla, Amenaide e Rosina sono due cose totalmente opposte (per capire questo basta il comune buonsenso, mica un dizionario d’opera). Manca quindi completamente la vivacità, il brio teatrale di questi geniali personaggi rossiniani perché manca la base, la struttura vocale: per quel che concerne il Turco, sorvolando sul recitativo e sull’aria, per i quali vale quanto detto sopra, arriviamo alla fine ad una cabaletta difficile da definire tale, complice anche una direzione orchestrale priva di qualsiasi stimolo e slancio ritmico: agilità assolutamente sgangherate e stonate, da indegna emula dell’ultima Ricciarelli.
Questo, dunque, il nuovo disco rossiniano della Decca: un prodotto, al di là della bassa qualità artistica, privo della minima coerenza musicale e storica, senza obbiettivo e senso, il cui unico valore viene affidato ad una copertina assolutamente coerente, come pure la voce protagonista, con la contemporaneità musicale. Insomma, un oggetto che si va ad aggiungere alla moltitudine di novità discografiche già pronte a diventare passato prima di essere poste sullo scaffale di un negozio.

Manuel Garcia

 

Gli ascolti

 

Rossini

 

Tancredi

Atto II

Gran Dio…Giusto Dio ch’umile adoro – Margherita Rinaldi (1977)

 

Il Turco in Italia

Atto II

I vostri cenci vi mando…Squallida veste e bruna – Aleksandra Kurzak (2009)

 

Elisabetta, Regina d’Inghilterra

Atto I

Sento un’interna voce – Margherita Guglielmi (1972)

 

 

Il Barbiere di Siviglia

Atto I

Dunque io son? – Margherita Guglielmi e Piero Cappuccilli (1969)

 

Matilde di Shabran

Atto II

Ami alfine?…Tace la tromba alteraAleksandra Kurzak (2008)

 

Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube

6 pensieri su “Le recensioni di Manuel Garcia: Aleksandra Kurzak, “Bel Raggio”

Lascia un commento