El Festival del Castillo de Peralada, como propuesta estelar de la presente edición, ofreció una única representación de Norma, cual primicia en tierras ampurdanesas de la inminente aparición en el MET de Sondra Radvanovsky como sacerdotisa de los galos. En el auditorio del festival, de infaustas condiciones acústicas, expuesto al viento y demás elementos, la voz de la americana resultó en todo momento perfectamente audible, sonora incluso en las medias voces (que, en honor de la verdad, son más falsetos que verdaderas medias voces). Pero para cantar Norma convincentemente el volumen no basta. El interés de la Norma de la Sra. Radvanovsky empieza cuando uno escucha el poderoso caudal de su voz y termina casi de inmediato cuando uno se da cuenta de que la fama de la cantante reside sólo en el caudal, pero no en la calidad o uso del mismo. En mi opinión, dos célebres sopranos ligeras, a pesar de su patente decadencia, logran sacar mayor provecho, vocal y expresivo, de la tan osada empresa de cantar Norma.
La emisión de la Sra. Radvanovsky, como ya se ha escrito en este sitio, es “tubata” en toda su extensión, lo cual implica que su voz resulte fastidiosa en extremo. En el grave suena áfona; tendencialmente fija en el centro, nunca mórbida, lastrada por un irritante vibrato; el agudo resulta casi siempre chillado (espectaculares, en este sentido, sendos dos sobreagudos en el terceto del primer acto y el intento de re natural interpolado al final del mismo). Consecuencia de este tipo de emisión y de un uso poco canónico del fiato es la dificultad de ligar los sonidos, de completar “messe di voce” o cualquier variación dinámica de forma satisfactoria, la imposibilidad de acometer los pasajes de agilidad o las ornamentaciones previstas en la partitura (empezando por las florituras o las cadencia de “Casta diva”) sin reducirlas y simplificarlas a una especie de canto “spianato”. Conviene especificar que la ineficiente administración del fiato vino disimulada con frecuencia bajo tiempos algo más rápidos de lo que suele ser habitual (por ejemplo, en “Dormono entrambi” o en el final de la ópera, momento ideal para lucir con las grandes y amplias frases bellinianas). Evidentemente, resultó imposible que la Sra. Radvanovsky consiguiera pronunciar una sola palabra de forma clara (tiende a omitir consonantes, y las vocales i y e resultan especialmente groseras), que escandiera el texto o que expresara ni por asomo nada de lo contenido en el texto o en la música. En estas condiciones, no auspicio nada bueno a los espectadores del MET o a los infortunados que asistan a su próximo debut como Elisabetta en Roberto Devereux.
Marina Prudenskaya, nominal mezzo-soprano, sustituyó como Adalgisa a la inicialmente prevista Ekaterina Gubanova. Se trata de una cantante vulgar, constantemente en déficit de aire, con voz hueca, gutural, fibrosa, desafinada, inexistente en el grave, gritada en el agudo. El Festival, haciendo honor a la moda de atribuir el papel de Pollione a tenores livianos, contrató a Josep Bros, quien parece creer que, bajando la tesitura de su repertorio (lanzándose a las aventuras de cantar Rodolfo, Foresto, Pollione o el Riccardo del Ballo), podrá prolongar una carrera en fase agónica. Tiempo ha que le tiembla voz, que empezó a abrir el centro para ganar anchura, comprometiendo de forma letal el ascenso al agudo. En contra de lo presuntamente esperado por el tenor, la escritura más o menos central de Pollione en lugar de facilitarle el canto, solo enfatizó todavía más lo inestable, lo fibroso y lo “spinto” de la voz en toda su extensión. Lástima, porque fue el único en todo el reparto con una noción de la música y del fraseo. Carlo Colombara fue un Oroveso insuperable en tanto que anónimo: voz engolada y oscurecida artificialmente, agudos estrechos y blanquecinos, sin proyección, incapaz de conferir sentido alguno a lo que canta.
Carlo Montanaro dirigió sin ninguna clase de inspiración, difuminando las atmósferas, las melodías y acompañamientos bellinianos entre niebla densa, a lo cual cabe sumar su manifiesta dificultad para concertar foso y escena. Montanaro estuvo perfectamente secundado por una imprecisa y errática Orquesta Sinfónica de Barcelona i Nacional de Cataluña (OBC) y por un discreto Cor de Cambra del Palau de la Música Catalana.
En lo escénico, vimos una producción a cargo de Susana Gómez procedente de Oviedo. Bajo un supuesto intento de conceder el protagonismo a los cantantes, como suele ser habitual, la Sra. Gómez y su equipo trataron de encubrir la falta de una auténtica dirección de actores, cuyos movimientos no difirieron mucho de los que pudieran haberse visto en una versión de concierto.
Nicolai Ivanoff
Il Festival del Castillo de Peralada, come proposta clou della presente edizione, ha offerto una unica rappresentazione di Norma, quale primizia nelle terre di Ampurdan della imminente apparizione al MET di Sondra Radvanovsky nei panni della sacerdotessa dei Galli.
Nell’auditorium del festival, dalle infauste condizioni acustiche, e oltretutto esposto ai venti e ad altre intemperie naturali, la voce del soprano americano è apparsa ad ogni momento perfettamente udibile, sonora anche nelle mezze voci (che a onor del vero, sono più falsetti che mezze voci), anche se, come ben si sa, per cantare Norma a un livello convincente il volume non basta. La Norma della Signora Radvanovksy inizia e finisce quando si realizza che la fama e il successo della cantante risiedono soltanto nella portata e volume dello strumento vocale e non nella sua qualità e nel suo uso concreto. A mio personale parere, due celebri soprani leggeri, nonostante la loro evidente decadenza, riescono a ricavare maggiori risultati, da un punto di vista vocale ed espressivo, nella tanto ardua impresa di cantare Norma.
L’emissione della Radvanovksy, com’è già stato scritto in questo sito, è tubata in tutta la sua estensione, e dunque particolarmente fastidiosa nelle zone estreme. Più precisamente, nel registro grave suona afona; nel centro, tendenzialmente fissa, mai morbida, e sempre caratterizzata da un irritante vibrato; l’acuto invece risulta quasi sempre gridato (spettacolari, in questo senso, i sovracuti nel terzetto del I atto e l’esperimento di re naturale aggiunto nel finale dello stesso). Conseguenza ovvia di questo tipo di emissione e di un uso poco canonico del fiato è la difficoltà nell’unire i suoni, di completare le messe di voce o qualsiasi variazione dinamica in modo soddisfacente, e infine l’impossibilità di eseguire i passaggi di agilità con le ornamentazioni previste nello spartito (a partire proprio dalle fioriture e cadenze del “Casta Diva), senza semplificarli e ridurli a una sorta di canto spianato.
Conviene però specificare che l’inefficiente gestione del fiato è stata con frequenza occultata grazie ad un metronomo talvolta più veloce del solito (per esempio, in “Dormono entrambi”, o nel finale dell’opera, momento ideale per mostrarsi come cantante nelle grandi e ampie frasi belliniane). Evidentemente, è stato impossibile per la Radvanovsky pronunciare una sola parola chiaramente (ha infatti la tendenza a omettere le consonanti, e le vocali “i” ed “e” risultano particolarmente volgari), che scandisse il testo o che esprimesse qualcosa del contenuto del testo o della musica. Con queste premesse, non posso che prevedere il peggio per il pubblico del Met o per gli sfortunati che assisteranno al suo prossimo debutto come Elisabetta nel Roberto Devereux.
Marina Prudenskaya, nominale mezzo soprano, ha sostituito Ekaterina Gubanova inizialmente prevista nei panni di Adalgisa. E’ una cantante volgare, in continuo deficit di fiato, con la voce vuota, gutturale, fibrosa, stonata, inesistente nel grave, urlata nell’acuto.
Il Festival, seguendo la moda odierna di affidare il ruolo di Pollione a tenori leggeri, ha chiamato il tenore Josep Bros, il quale sembra credere, semplicemente abbassando la tessitura del suo repertorio (avventurandosi in ruoli come Rodolfo, Foresto, Pollione o Riccardo del Ballo), di prolungare una carriera già in agonia. E’ da tempo ormai che la sua voce balla, iniziando a aprire il centro per ottenere spessore e dunque danneggiare definitivamente la salita all’acuto.
Contro ogni aspettativa, la scrittura più o meno centrale di Pollione, invece di facilitare il canto, è riuscita soltanto a rendere ancora più evidente le instabilità, le fibrosità e le “ingolature” della voce in tutta la sua estensione. Peccato, perché è stato l’unico del cast che fosse in possesso delle nozioni minime di musica e fraseggio.
Carlo Colombara è stato un Oroveso insuperabile nell’anonimato: voce ingolata, imbrunita artificialmente, acuti stretti e bianca, senza proiezione, incapace oltretutto di dare alcun senso alle parole cantate
Carlo Montanaro ha diretto senza ispirazione, dissolvendo tutte le atmosfere, le melodie e gli accompagnamenti belliniani in una densa nebbia; a ciò bisogna anche aggiungere la sua evidente difficoltà nel concertare la fossa con la scena. Montanaro è stato inoltre assecondato da una imprecisa Orchestra Sinfonica di Barcellona e Nazionale della Catalogna (OBC) e da un discreto Cor de Cambra del Palau de la Música Catalana.
Nella parte scenica abbiamo assistito ad una coproduzione con Oviedo di Susana Gómez. Dietro un tentativo mal riuscito di concedere una giusta dose di protagonismo ai cantati, come è solito che accada, la signora Gómez e la sua squadra hanno cercato di occultare la mancanza di una vera e propria direzione degli attori, i cui movimenti non sono stati poi tanto diversi da quelli che si sarebbero potuti vedere in una Norma versione concerto.
(traduzione di Manuel García)
Bellini – Norma
Atto I
Oh, di qual sei tu vittima – Maria Pedrini, Gino Penno ed Ebe Stignani (1952)