Dopo la caduta del nazismo, al termine del periodo in cui proprio I Maestri Cantori di Wagner erano divenuti l’opera di propaganda per eccellenza che coronava le più importanti manifestazioni politiche del regime di Hitler, i cervelli più sani della Germania hanno capito che ormai qualsiasi rappresentazione dei Maestri Cantori doveva per forza diventare anche una riflessione sulla storia (macchiata) delle sue rappresentazioni. Il che voleva dire innanzitutto un lavoro critico e provocatorio da parte della regia sui problematici messaggi politici e culturali dell’opera. Sono opere come I Maestri Cantori, in cui il contesto storico-estetico della sua creazione, la storia della sua ricezione e l’ulteriore destino politico di un intero paese si trovarono strettamente intrecciati, a giustificare l’esistenza di quello che si chiama Regietheater. Si cade nell’esagerazione però quando la visualizzazione critica di un’opera diventa iperintellettuale e quando si perde contatto sia con l’azione che con la musica, il che durante gli ultimi decenni è successo non solo con la maggioranza delle opere wagneriane, ma anche con opere del tutto prive di qualsiasi “colpa” storica. Alla fine questa esagerazione non fa che distruggere persino quel nucleo drammaturgico dell’opera che è indispensabile per rendere comprensibile quello che viene decostruito o criticato.
I Maestri Cantori di Stefan Herheim sono un esempio, quasi un modello, non solo di un perfetto equilibrio tra una fedele narrazione della trama originale e la realizzazione di un chiaro concetto interpretativo tramite la medesima narrazione, ma anche di una visione registica e scenografica che addirittura pullula di fantasia, d’invenzione e soprattutto di simpatia per quello che esprimono orchestra, canto e didascalie. Impressionante la padronanza del vastissimo spazio del Großer Festspielsaal che Herheim usa per degli effetti altamente efficaci di zooming, di un trattamento iperbolico e soprattutto spettacolare di vari oggetti – scarpe, bambole, la scrivania di Sachs su cui si svolge l’azione del primo atto o ancora gli armadi e scaffali che ospitano gli ultimi due atti. L’abbondanza dell’invenzione scenica non è mai esagerata, perché qualsiasi oggetto ha una funzione molto chiara. Cosi ad esempio i giocattoli o la culla sono i simboli nostalgici della moglie e dei bambini che il vedovo e solitario Sachs una volta possedeva, per non parlare dei busti di Goethe, Wagner e Beethoven quale rappresentanti più famosi di quello che può essere un “deutscher Meister”. Impressionante anche il controllo di Herheim sulla dinamica dell’interazione dei vari personaggi e dei gruppi corali. E’ cosi che, grazie anche ai bellissimi costumi a cura di Gesine Völlm, molto individuali e poetici fino agli ultimi membri del coro, e grazie alle scenografie di Heike Scheele, l’intera opera diventa un affresco mobile, al contempo monumentale e attento ai tratti più fini. Le luci di Olaf Freese rispondono con grande spontaneità alle modulazioni orchestrali e creano la felice illusione che la musica e l’azione scenica stiano ogni volta nascendo da una fonte identica.
L’aspetto più problematico della regia di Herheim, anche se sempre e comunque salvata dalla travolgente bellezza e dinamica di luci, scene, costumi e Personenregie, è la sua lettura pur chiarissima e molto condivisibile delle implicazioni politico-culturali dei Maestri Cantori. Herheim traspone l’azione dell’opera nella cosiddetta epoca Biedermeier (1815-1848), evidente sia nel disegno dei costumi che nel inventario, soprattutto la scrivania di Sachs, tipica per l’estetica domestica del periodo in questione. E’ l’epoca dell’accrescimento della classe media tedesca con tutte le conseguenze nello sviluppo delle arti domestiche (decorazione, Lied), del culto di una vita privata normalizzata ed apolitica accomodata proprio da un’arte di evasione e da camera. I “maestri tedeschi” diventano i simboli artistici-culturali di un’identità sociale che si vuole lontana dalla politica; l’artista diventa un eroe e permette anche al borghese mediocre di sublimarsi sull’inoffensivo livello estetico delle “imprese eroiche” musicali, letterarie etc. Herheim ci mostra quindi non solo i busti dei maestri in quanto icone del culto borghese, ma ingigantisce anche dei libri come la raccolta di canti popolari Des Knaben Wunderhorn o le fiabe dei Fratelli Grimm, entrambi provenienti dall’epoca di Biedermeier e altamente rappresentativi dell’atmosfera culturale di un periodo che è al contempo quello della scoperta di un mondo antico fiabesco e della sua riduzione domestica. Herheim riesce però a sottolineare il potenziale trasgressivo di tutte queste fiabe destinate alle placide letture domestiche, mettendo in scena le sregolatezze dei vari personaggi dei Grimm come Cappuccetto Rosso ed il lupo, Biancaneve ed i nani, Pierino Porcospino, il Gatto con gli stivali, il Re dei ranocchi ed altri animali celebri che vengono a disturbare la tranquillità notturna dei borghesi Sachs e Beckmesser. Bellissima la trovata nel secondo finale di trasformare Magdalene in una Raperonzolo che fa scendere la sua lunghissima treccia dorata dal balcone mentre Beckmesser canta la sua serenata.
Dall’altro canto c’è la figura del giovane Walther che, accanto ai selvaggi personaggi fiabeschi, è l’unica forza sovversiva dell’azione ed in questo la rappresentazione dell’energia rivoluzionaria del cosiddetto Vormärz che è finità tragicamente nell’insurrezione mancata degli anni 1848-49 (e nell’esilio di Wagner in Svizzera). Ed è sempre la regia che deve cantare, recitare e suonare quando un tenore indecente come l’ingolato e strangolato Roberto Saccà e l’orchestra pesante e sgangherata di Daniele Gatti non riescono a svegliare la forza magica delle canzoni del audace cavaliere. Con una chiarissima coreografia Herheim ci fa vedere l’effetto d’incantesimo che ha il canto liberato dalle regole irrigidite, sui borghesi maestri cantori, un effetto ipnotico quasi come quello che si attribuisce alla musica wagneriana. E’ ugualmente ben elaborata la regia personale di Beckmesser che purtroppo viene interpretato da un Markus Werba molto monocorde sul livello vocale. La grande scena di lezione di David nel primo atto è reso efficace solo dal ricco linguaggio della scenografia e dell’interazione fra David, Walther e gli apprendisti, perché il giovane tenore Peter Sonn è troppo limitato tecnicamente per potere cogliere tutte le sfumature musicali della comicità del suo personaggio. Disastrosa al pari di Saccà l’Eva di Anna Gabler, voce gonfiata al centro, stridula in alto, stonata su tutta la gamma e incapace di legare il suono e d’articolare con la minima chiarezza. Rimane vocalmente limitato e abbastanza parlante anche il veterano Michael Volle che ha l’unico merito di resistere fino alla fine della recita in una parte ormai quasi ineseguibile come Siegfried o Tristan. Un po’ meglio il Pogner di Georg Zeppenfeld il quale, pur essendo ingolato al centro e bloccato nel naso negli acuti, riesce a dare un minimo senso musicale alle sue frasi. Mediocri la Magdalena di Monika Bohinec, il Kothner di Oliver Zwarg, costantemente messo in difficoltà dalla lenta, rigida ed inerte direzione di Gatti, ed il resto dei maestri cantori.
E’ questo proprio il caso di dire che, contrariamente alla disonesta affermazione molto diffusa oggi tra i critici che i difetti vocali degli interpreti sono consoni al concetto registico, I Maestri Cantori di Salisburgo meritavano un cast ed un direttore molto, ma molto più professionali, perché quelli presenti erano incapaci ad ogni passo di fare fiorire musicalmente tutta quella poesia che il regista aveva dispiegato da una profonda intuizione musicale-teatrale e di dare vita alle sfumature, all’umorismo e alla bellezza di quell’irrepetibile unione che Wagner istaura nei Maestri Cantori tra il libretto ed il suo melodioso declamare nello stile conversazionale sostenuto da un flusso elegante dell’orchestra. Sfortunatamente, anche se avessero scelto cantanti più decorosi rispetto al gruppo riunito da Alexander Pereira, quasi nessuno dei migliori cantanti wagneriani di oggi sarebbe stato capace di essere adeguato alla poeticità di Herheim, il che sottolinea ancora una volta la crisi profonda della lirica: o si fa una regia brutta e il lato musicale riesce a farla franca, perché tutta la colpa per l’insuccesso viene ribattuto sulla regia, o si fa una bella regia che “brilla d’amor” per la musica e la musica da parte sua manca al suo compito.
Mi resta a dire qual è l’aspetto problematico di questa visione Biedermeier di Herheim. Il regista vuole illustrare il mondo ottocentesco di Wagner ed usa i simboli dell’epoca in cui cade la prima concezione dei Maestri Cantori (1845) per mostrarci quali fossero gli strumenti spirituali ed il contesto culturale che ha condizionato il suo affresco molto idealizzato, anzi mitologico, di una città borghese medievale la cui identità ed onore sono completamente fondati sul culto della “sacra arte tedesca”. Invece di partire dalle conseguenze storiche, quindi dalla storia della ricezione dei Maestri Cantori e della sua strumentalizzazione nazionalsocialista, l’intenzione di Herheim è di farci vedere una borghesia pre-1848 che sogna della libertà e di un mondo che si alimenta con la bellezza e con l’arte al posto dei diritti politici. Così si evita di mettere in scena il clima wagneriano post-1848 e soprattutto post-esiliare in cui l’universalismo ancora presente nelle sue teorie utopiche del periodo di Zurigo viene gradualmente sostituito da un’aggressiva ricerca ideologica di un’autenticità nazionale e culturale di fronte alla Francia o all’Italia. E’ per l’assenza di questo aspetto storico-politico e delle sue conseguenze che anche il discorso finale di Sachs, il momento più politically incorrect di tutta la lirica tedesca, in cui il maestro dichiara l’indipendenza dell’arte tedesca dalle cattive influenze “latine”, è presentato da Herheim come un semplice delirio notturno molto ingenuo ed inoffensivo di un vecchio solitario, con le luci che si abbassano, facendo sparire la popolazione festeggiante e dando risalto a Michael Volle. Questa chiara ed efficace visualizzazione dell’escapismo della borghesia tedesca pre-1948 non fa però che rispecchiare un certo escapismo di Herheim stesso. Ed è proprio in questo punto che la lettura di Herheim ignora (volutamente? per non dire cose mille volte ripetute?) il vero periodo della creazione del libretto e della musica dei Maestri Cantori, cioè gli anni 1860 con il clima del crescente nazionalismo del Wagner rimpatriato in Germania. Cionondimeno la regia di Herheim è godibilissima, coerente ed interessante ed orientato sull’opera wagneriana fino nei punti in cui non si è d’accordo con le sue scelte interpretative.
Ad Herheim devo il piu’ bel Parsifal visto a Bayreuth.
Io li devo il più bel Parsifal visto tout court Anche se trovo che a Bayreuth ha parecchio esagerato con certe cose. Però anche li era sensualissimo e spetaccolare, a parte una chiara linea interpretativa.
Ottima e ben argomentata recensione, judy. Anche a me la regia è in complesso piaciuta, anche se dissento dalla soluzione scenica del finale perchè Sachs vestito in quel modo ricordava troppo Gianni Schicchi e non mi è piaciuto per niente il trattamento scenico delle figura di Eva trasformata in una sorta di soubrette che si muoveva come una Behinderte. Stimo in complesso Herheim, che ho visto provare il Rosenkavalier qui a Stuttgart, perchè a differenza del 99,9% dei suoi colleghi ha alle spalle una preparazione musicale e durante le prove lavora con lo spartito alla mano. La cosa che non mi convince delle sue produzioni è una certa mancanza di senso della misura, perchè a volte si lascia andare a cadute di gusto che potrebbero essere evitate. Vedi il caso appunto del Rosenkavalier qui da noi, in cui i turbamenti erotici della Marschallin erano raffigurati tramite l’ apparizione di una serie di demoni che agitavano enormi falli di plastica. Pienamente d’ accordo con te anche sulla qualità molto modesta della parte musicale.
Saluti.
quando gli appassionati incontreranno Herheim in purgatorio in parecchi gli diranno che avendo spesso fatto trenta gia’ che c’era poteva fare trentuno
Parte musicale imbarazzante, orchestra irriconoscibile, Gatti catatonico, lento, pesante e, tutto d’un tratto, nevrotico e sconclusionato. Alcuni attacchi dei Wiener nel terzo atto da orchestrina rionale, non si era mai sentito un Preislied così poco convincente, non mi sarei stupito se il buon Herheim avesse messo un ghepardo in orchestra e un inserviente con un caffè nero bollente da servire a Saccà: l’albero del fegato di Beckmesser almeno aveva verve, se Walther con Eva avesse mostrato nel matrimonio lo stesso slancio del suo Lied, forse l’ipotesi di concedersi a Sachs avrebbe attraversato la mente della romantica figlia di Pogner. Il pubblico di Salzburg mi è sembrato dotato del senso critico di un abat-jour, osanne a Gatti, a tutti, indiscriminatamente, eppure (lo dico da testimone diretto, in quanto mi trovavo in fila 14) intorno a me gli entusiasti sostenitori del direttore hanno dormito per almeno i tre quarti dell’opera, risvegliandosi solo sui finali, in particolare quello del secondo atto con lo strappo ff in mi maggiore.